Nitzavìm Vayelech 5783 : 3 LEZIONI

6 Settembre 2023 0 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 9 Settembre 2023, 23 del mese di ELUL 5783 leggeremo le Parashot di Nitzavìm Vayelech:

Deuteronomio 29: 9 – 31: 30

HAFTARÀ:

Italiani Gios. 8:30-9:27

Milano/Sefarditi/Ashkenaziti Is. 61:10-63:9

 

B’H’

La porzione di questa settimana (Vayèlekh) racconta gli eventi drammatici che si sono verificati durante l’ultimo giorno di Mosè sulla terra. Tra le tante cose che egli ha fatto in quella fatidica giornata ha TRASCRITTO l’intero Pentateuco, i Cinque Libri della Torà. I rotoli di Torà che usiamo oggi sono copie, di copie, di copie dell’originale rotolo della Torà scritto da Mosè nel giorno del suo passaggio, il 7 Adar dell’anno 2488, esattamente 3.292 anni fa.
Dopo aver completato la scrittura di tutta la Torà, Mosè comanda ai Leviti: «Prendi questo rotolo della Torà e mettilo al fianco dell’Arca dell’Alleanza del Signore tuo Dio e sarà come un testimone per te» (Vayèlekh 31, 26). Il Tabernacolo nel deserto e più tardi il Tempio di Gerusalemme ospita l’Arca Santa contenente le due Tavole con incisi i Dieci Comandamenti e il nuovo rotolo della Torà, appena completato, deve essere posto al fianco di questa Arca.

L’esatta posizione del rotolo della Torà sul lato dell’arca ha ispirato un dibattito tra i saggi del Talmud (Torà Orale): Rabbì Meìr sosteneva che il rotolo della Torà doveva essere collocato nell’Arca, a lato delle Due Tavole; Rabbì Yehudà era del parere che una mensola sporgeva dall’esterno dell’Arca e che il rotolo della Torà veniva posto su quel ripiano.
Essendo questa discussione parte della Torà Orale vuole dire che entrambe le opinioni sono VERE e ogni versione ha un messaggio di vita celato voluto da Dio.
Le loro diverse tesi originano non da loro mere interpretazioni personali, ma dal fatto che i due grandi maestri accoglievano una tradizione differente delle parole di Mosè sopra citate: «Prendi questo rotolo della Torà e mettilo al fianco dell’Arca». Secondo Rabbì Yehudà il verso “al fianco dell’Arca” deve essere inteso letteralmente e che quindi il rotolo della Torà stava fuori dell’Arca. Rabbì Mèir, d’altra parte, ha ricevuto dai suoi maestri, che le parole “a fianco dell’Arca” intendono solo dirci che il rotolo della Torà deve essere posto non tra le due tavole della legge ma piuttosto sul lato delle tavole accanto alla parete interna dell’Arca.

Alcune domande:
Non è chiaro perché Rabbì Meìr interpreta in un modo che (apparentemente) distorce il significato letterale delle parole “sul fianco dell’Arca”? Perché Rabbì Meìr non abbraccia la semplice e diretta spiegazione di Rabbì Yehudà secondo cui quando Mosè istruì di appoggiare il rotolo della Torà “sul fianco dell’Arca” significa letteralmente fuori dall’Arca?
In secondo luogo, perché c’è la necessità avere il rotolo della Torà così vicino all’Arca?
Come spiegato, numerose volte, tutti i comandamenti ed episodi della Torà sono la trascrizione del progetto che Dio ha fatto per noi, una sorta di “mappa” per guidarci negli impervi e insidiosi percorsi della vita. Come può un essere umano del XXI secolo godere della saggezza e trarre ispirazione da un antico comandamento solo per il fatto che è stato messo un rotolo della Torà al fianco dell’Arca, piuttosto che dentro? In un momento in cui non abbiamo l’arca e il Tempio quale tipo di utilità può avere oggi per noi il precetto che Mosè diede ai Leviti?

La Radice e I Rami
I nostri saggi hanno detto che i dieci comandamenti ricevuti nel monte Sinày e iscritti sulle due Tavole dell’Alleanza che si trovano dentro l’Arca Santa, raffigurano la quintessenza dell’intera Torà: tutte le prospettive, i temi, le idee, le leggi, l’etica e le storie dei cinque libri della Torà sono incapsulate nelle sole 620 lettere dei Dieci Comandamenti. Quindi, tutta la Torà di Mosè è essenzialmente un commento ai Dieci Comandamenti che elabora e spiega il significato di questi dieci pilastri della fede ebraica.
Se le tavolette costituiscono la fonte, l’epicentro, il nucleo dell’ebraismo; i cinque Libri sono la loro elaborazione, spiegazione ed espansione.
Il dibattito tra Rabbì Mèir e Rabbì Yehudà, circa la collocazione del rotolo della Torà, non è solo un argomento tecnico sulla vicinanza di due entità fisiche; ma piuttosto una divergenza sulle metodologie fondamentali, sullo sviluppo e la divulgazione dell’ebraismo.
Quanto abbiamo bisogno di sostenere la connessione tra il nucleo della Torà e la sua interpretazione? Siamo in grado di “staccarci dalla scatola” contenente le Tavole dei dieci comandamenti senza perdere la “sostanza, il suo fulcro”?
Questo non è affatto un dilemma astratto. Come si comunicano le verità antiche a una giovane generazione modellata in una vita secolare? Come si presenta una Torà che ha più di 3.332 anni di età a un uomo moderno abituato a interagire con gli IPhone del 21° secolo? Come facciamo a spiegare o rendere attuale la frase: “In principio Dio ha creato il cielo e la terra” ai laureati della Normale di Pisa o dell’Università Statale di Milano per i quali Charles Darwin ha più sovranità, in questo mondo, di Mosè?
Dobbiamo presentare l’ebraismo nella sua forma e composizione originale, senza impiegare termini, tecniche e strutture del pensiero moderno o possiamo portare l’ebraismo “fuori dalla scatola” e RICONFEZIONARLO nel linguaggio contemporaneo?
L’argomento è attualissimo! Alcuni insegnanti e divulgatori dell’ebraismo sono accusati di non avere la capacità di comunicare alla “nuova generazione”, mentre altri insegnanti sono accusati di “liberalizzare” troppo il pensiero ebraico e di diluirlo per accogliere la società moderna.
Possiamo prendere esempio da uno dei Dieci Martiri uccisi dai romani nel secondo secolo, Rabbì Khutzpìt HameTurgeman, il cui nome significa Khutzpìt “Il traduttore”. Egli aveva la funzione di tradurre e spiegare alla massa gli insegnamenti del Capo della Yeshivà.
I Cabbalisti dicono che per chiarire e presentare qualcosa in una nuova forma devi avere tanta khutzpà – sfrontataggine, quindi il suo nome era Khutzpìt, poiché elaborava con sue parole l’insegnamento del grande Maestro, per renderlo comprensibile al popolo. Da questo si evince che il messaggio viene tradotto, ma non “adattato”.

La Luce e il Recipiente
Nel Talmud è espresso un pensiero profondamente commovente su Rabbì Meìr: “È noto al Creatore del Mondo che Rabbì Meìr ha superato tutta la sua generazione e non ha avuto uguali. Perché allora non hanno stabilito sempre la legge secondo la sua opinione? Poiché i Saggi non riuscivano a comprendere sempre la profondità della sua saggezza”. Rabbì Meìr è stato spesso frainteso dai suoi colleghi, poiché le sue idee erano troppo avanzate per i suoi tempi.
Infatti “Meir” in ebraico significa illuminazione. La luce che emerse dalla mente e dal cuore di Rabbì Meìr era troppo profonda per i suoi colleghi e studenti. Perché? Perché Rabbì Meìr seguiva la tradizione secondo cui tutta l’interpretazione e lo sviluppo del pensiero della Torà devono rimanere intimamente legati alla sua fonte. Il commento e l’esposizione non possono mai staccarsi dallo spazio del loro progenitore. Il rotolo della Torà deve essere posto proprio accanto alle Tavole. Chi diluisce la luce della Torà, per renderla più “accogliente”, compie un’ingiustizia verso l’integrità e la purezza del suo messaggio Divino.

Secondo la tradizione seguita da Rabbì Yehudà, tuttavia, la parola di Dio può lasciare l’Arca Sacra ed essere portata all’esterno per renderla più comprensibile al RECIPIENTE.
Yehudà in ebraico, significa umiltà o sottomissione. Ovvero bisogna abbandonare il proprio stato di coscienza elevato al fine di raggiungere e presentare la Torà allo studente che non può assorbire la luce intensa che c’è “dentro l’Arca”. L’ebraismo, sostenuto da Rabbì Yehudà, doveva essere presentato in modo da renderlo più comprensibile possibile, anche a persone formate in una mentalità diversa e persino a quelle istruite nelle scuole di Atene.
Secondo Rabbì Yehudà, questo è un grande atto nobile che ci costringe a cambiare radicalmente: facile è ripetere le vecchie frasi e parole, per rimanere sicuri negli antichi percorsi. Difficile è invece uscire e trascendere i nostri “sicuri” e “comodi” metodi di insegnamento, per portare la luce e la verità della Torà a quelli che ne sono lontani.
Tuttavia anche per Rabbì Yehudà la Torà deve sempre rimanere collegata alla sua fonte per mezzo di una tavola di legno.
Ciò significa che c’è una differenza tra presentare l’ebraismo nella terminologia e nella metodologia che può parlare alla mente e al cuore dell’uomo moderno, rispetto al tentativo di trasformare l’ebraismo per renderlo conforme alle tendenze della società moderna. Il primo è un percorso nobile, mentre quest’ultimo percorso è disonesto, poiché non cerca di scoprire il messaggio autentico dell’ebraismo, ma crea una nuova forma di giudaismo che non “disturba” le esigenze dell’ebreo moderno.
Questa distinzione tra i due approcci è stata profondamente offuscata negli ultimi anni e i risultati sono evidenti. L’approccio precedente ha dato a innumerevoli studenti l’opportunità di confrontarsi con le verità divine della Torà; il secondo approccio più “moderno” approccio ha portato la Torà ad “adattarsi” alla fantasia di ogni immaginazione.
Alla fine si arriva alla domanda: quanto siamo sicuri nella verità della Torà? Stiamo impiegando il pensiero moderno per comunicare la Torà e l’ebraismo o lo stiamo alleggerendo per conformarlo agli altri?
Rabbì Yehudà ci risponde così: quando il tuo viaggio è “fuori dalla scatola”, una “tavola di legno” deve sempre connetterti alle originali e intatte “tavolette” all’interno della scatola. Il legame tra il nucleo della Torà e le sue espansioni deve sempre rimanere MOLTO evidente e rivelato. In caso contrario, potresti privare te stesso e i tuoi studenti dalle vibranti fonti di divinità della parola di Dio.

Facili Messaggi
Non molto tempo fa ho avuto una conversazione con un amico, un rabbino popolare, che è fortemente coinvolto nella trasmissione del giudaismo nel mondo secolare. Gli ho detto che, a mio modesto parere, la sua comunicazione dei valori ebraici mancava l’energia che emana da qualcuno che è radicato nel serio apprendimento della Torà. Gli ho detto che occorre dedicare ogni giorno a studiare il Talmud, anche e soprattutto quelle parti che si occupano di leggi complicate e non di “consumo pubblico”. Solo quando sarà radicato nella “fonte della saggezza”, la sua comunicazione al mondo esterno sarà reale ed efficace. Alla fine ha rifiutato il mio consiglio. Eppure credo che questa sia la verità: solo quando sei sommerso nel più alto e profondo livello dello studio della Torà, la tua comunicazione dell’ebraismo sarà autentica ed efficace. Solo allora si potrà trovare la forza di trasportare i Rotoli anche fuori dalla Santa Arca, perché esiste sempre una “tavola di legno” che collega l’esterno verso l’interno.

E qui arriva l’insegnamento fondamentale al giorno d’oggi:
Chi ha il diritto di “RICONFEZIONARE” l’ebraismo? Solo qualcuno che è totalmente umile (Yehudà) e non ha alcun ego coinvolto; qualcuno il cui unico scopo è quello di condividere la parola di Hashèm con gli altri, una persona che è completamente fedele alla fonte autentica. In mancanza di queste qualità si rischia solo di compromettere e diluire, o Dio non voglia, addirittura pervertire, l’acqua pura dell’ebraismo con “batteri patogeni” di tendenze e nozioni che sono estranei alla Torà.

Come è scritto nel primo capitolo delle Massime dei Padri:
«Segui l’esempio di Aharòn: amava la pace e rincorreva la pace. Amava tutte le persone e le avvicinava col suo amore alla Torà».
OCCORRE PORTARE LE PERSONE ALLA TORÀ E NON LA TORÀ ALLE PERSONE!!!

link di questa lezione:
video: https://vimeo.com/29390222
audio: https://www.virtualyeshiva.it/files/11_09_20_vayelekh5771_rotoli_tavole_meir_yehuda.mp3
web: http://www.virtualyeshiva.it/2013/08/25/vayelekh-5771-chi-ha-il-diritto-di-rimpachettare-lebraismo/

Basato su un discorso del Rebbe di Lubàvitch e uno scritto di YY Jacobson N.Y.

MELE O MIELE?
Domanda:
Rosh Hashanà mangiamo mele intinte nel miele come augurio di un nuovo anno dolce.
Durante il rito della sera di Rosh Hashanà facciamo tanti atti simbolici e il più importante e più famoso di tutti è proprio MELE e MIELE.
La domanda è spontanea, perché questa usanza è la più osservata da tutti  e perché si unisce proprio le mele e miele? Ci sono molti cibi dolci. C’è qualcosa di significativo tra di loro?
Risposta:
C’è una differenza tra la dolcezza di una mela e la dolcezza del miele.
La mela è un frutto dolce che cresce su un albero. Non c’è niente di sorprendente: molti frutti sono dolci per cui è una dolcezza NATURALE e SCONTATA.
Ma il miele deriva da un’ape un insetto che non solo è immangiabile ed amaro, ma ancora peggio delle volte ci può pungere e fare male.
Tuttavia il miele che produce è dolce, addirittura il miele è più dolce delle mele!!!
Allo stesso modo, ci sono due tipi di dolcezze nella nostra vita: abbiamo momenti di celebrazione familiare, successi nelle nostre carriere, trionfi personali e relazioni armoniose. Questi sono momenti dolci che diamo per scontati, proprio come la mela che è dolce, perché un frutto è dolce.
Poi c’è un diverso tipo di dolcezza, una dolcezza che proviene nei tempi di ostacoli e prove: quando le cose non vanno nel modo in cui vorremmo; quando ci colpisce una tragedia; quando il nostro lavoro rischia di saltare; quando non riusciamo a raggiungere gli obiettivi che ci proponiamo; quando i nostri rapporti con gli altri divengono tesi e sono messi a dura prova; o quando ci sentiamo abbandonati.
Nel momento in cui affrontiamo queste sfide queste ci sembrano amare e insormontabili, come la puntura di un’ape che non ha niente di buono e ci provoca solo dolore.
Ma se siamo forti e sopportiamo i tempi difficili con la forza interiore che abbiamo e superiamo gli ostacoli per trasformarli in felicità, riveleremo gli strati nascosti della nostra personalità. Aspetti che non avremmo mai saputo di avere se non fossimo stati messi alla prova. Come avere un motore di una Ferrari e andare a 50km all’ora. Senza un autodromo con dei lunghi rettilinei, non scopriremmo mai il potenziale della nostra “Ferrari”.
Qualcosa di più profondo viene estrapolato quando siamo testati. La tensione in una relazione è dolorosa, ma non c’è niente di meglio che riconciliarsi dopo quella tensione.
Perdere un lavoro è degradante, ma spesso troviamo cose più grandi e migliori per andare avanti: SI CHIUDE UNA PORTA E SI APRE UN PORTONE!
La solitudine può intristirci, ma ci può aprire i livelli più alti di conoscenza di sé.
Abbiamo tutti passato degli eventi negativi nelle nostre vite che in quel momento erano MOLTO dolorosi, ma in retrospettiva abbiamo detto: “Grazie a Dio per i tempi difficili, immaginate dove saremmo senza di loro!”
Così mangiamo mele e miele il primo giorno del nuovo anno: due parole molto simili, ma il miele ha la lettera “I” in più, che ha qualcosa in più da darci.
Ci si benedice l’un l’altro e ci si augura che nel prossimo anno le mele ci porteranno tanta dolcezza (tanti eventi felici) e che le api con i loro pungiglioni (prove della vita) diventino ancora più dolci delle mele e che potremo vedere il bene nascosto in tutti gli ostacoli e prove delle vita e uscirne più forti di prima!
LA DOLCEZZA DEL MIELE È SUPERIORE ALLE MELE, SOLO SE NELLE PROVE VIENE FUORI LA NOSTRA “FERRARI NASCOSTA”!
SHANA TOVA UMETUKA – ANNO FELICE E “MOLTO” DOLCE

La nona sezione del libro del Deuteronomio continua con la descrizione del terzo e ultimo discorso di addio di Moshè a Israèl. Moshè inizia con il racconto di come “andò” (vayèlekh, in ebraico) a nominare Yehoshù’a come suo successore. Poi continua con il racconto di come Moshè ha scritto la Torà e ordinato al popolo di radunarsi ogni sette anni per ascoltarlo leggere nel Santuario.

Moshè informa il popolo che questo giorno, il 7 di Adàr, il suo centoventesimo compleanno, sarà anche il giorno della sua morte.

CONDURRE UNA VITA PIENA

וַיֹּאמֶר אֲלֵהֶם בֶּן מֵאָה וְעֶשְׂרִים שָׁנָה אָנֹכִי הַיּוֹם וגו׳: (דברים לא, ב)
[Moshè disse al popolo] «Oggi ho esattamente 120 anni». (31, 2)

Hashèm ha assicurato che Moshè sarebbe vissuto letteralmente fino all’ultimo giorno, per insegnarci che la sua vita è stata vissuta al massimo, senza mai perdere un attimo, e che egli non ha lasciato incompiuto nessuna parte del compito che gli era stato dato in carico.
Il fatto che la vita fisica di Moshè rispecchiasse perfettamente la sua vita spirituale, indica non solo che ha superato con successo la divisione tra lo spirito e la materia, ma che la sua perfezione spirituale si rispecchiava nella manifestazione della sua perfezione fisica.
La vita di Moshè dovrebbe ispirarci a vivere la nostra vita al massimo con la consapevolezza della nostra missione divina che permea ogni minuto e ogni elemento della nostra esistenza. Quando lo facciamo, dissolviamo la divisione artificiale dello spirituale e del fisico, rivelando l’innata Divinità che sta alla base di tutta la realtà .

Tratto dal nuovo libro Saggezza Quotidiana

Ci troviamo alla vigilia di Shabbat Shuva o Shabbat Teshuvà che è il Shabbat tra Rosh Hashanà e Yom Kippur.

Shabbat vuole dire gioia e allegria e teshuvà vuole dire pentimento e pianto per gli errori passati per cui come possono le due cose conciliare???

Il pensiero della Khassidut insegna che in ogni cosa bisogna trovare il lato felice e allegro. Che bisogna sempre vedere il positivo che c’è in ogni cosa per cui anche nella settimana del pentimento quando arriviamo al giorno allegro dello Shabbat possiamo e dobbiamo trovare il lato positivo e allegro della Teshuvà.

In primis dobbiamo essere felici perché stiamo ritornando al PADRE ETERNO e alle nostre origini ed è la cosa più bella riconciliare con il porprio Padre.
Poi come tutte le mizvòt bisogna farle con allegria anche questa va fatta con allegria, come abbiamo letto nella parashà di Ki Tavò che tutti i problemi arrivano principalmente perché abbiamo servito Hashem senza felicità.

Durante il periodo del comunismo un khassid ha fatto la aliyà in Israele dalla Russia e finalmente ha potuto portare i suoi tefillin da un sofer per farli controllare. Questo sofer come li apre si rende conto che non erano kasher e forse non lo sono mai stati ma non sa come comunicare questo spiacevoloe messaggio al khassid. Quando il nuovo arrivato capisce che i suoi tefillin non sono kasher inizia a ballare di gioia come se avesse vinto la lotteria…
Il sofer molto stupito non capisce la grande gioia e gli chiede: come mai sei così felice? Il khassid risponde: perché adesso sono sicuro che da domani metterò tefillin KASHER.

Anche la peggiore notizia che fino ad ora metteva tefillin non kasher può essere e deve essere ribaltata in positivo e in gioia.

Questo è il modo di servire Hashem Shabbat Shuvà!

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom e Gmar Khatima Tovà

Rav Shlomo Bekhor

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VAYELEKH
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ILLUMINARE IL BUIO

C’era un chassid che, ogni volta che gli si avvicinava con la richiesta di una donazione per beneficenza, si metteva la mano in tasca e tirava fuori alcune monete. Poi, con un borbottio frettoloso, “solo un minuto…”, si sarebbe di nuovo scavato in tasca e avrebbe tirato fuori altre monete.

Qualcuno che notò la sua abitudine una volta gli chiese: “Perché dai sempre due rate? Non potresti prendere l’intera somma che vuoi dare in una sola volta?”
“Ogni atto di carità è una vittoria sulla nostra natura egoista”, rispose il chassid. “Non riesco proprio a resistere all’opportunità di segnare due vittorie al prezzo di una…”.
A proposito di sottomettere il proprio istinto una volta il desiderio più grande era quello dell’idolatria, questo spiega come mai grandi personaggi sono caduti in questo peccato. Al tempo del sinedrio che ha costruito il secondo Santuario, “anshe knesset haghedolà”, per aiutare le persone a non commettere il gravissimo peccato dell’idolatria è stato sostituito questo desiderio fortissimo con il piacere per i soldi, ovvero il “DIO DENARO”. Da quel momento gli uomini riuscivano a domare l’idolatria, ma al suo posto è subentrato l’attaccamento infinito ai soldi. Rabbi Shenur Zalman, fondatore della chasidut chabad, ha detto che forse sarebbe stato meglio che il mondo fosse rimasto come era prima, visto che oggigiorno la missione più importante è fare la zedakà – l’aiuto per il prossimo, come spiegato in Tanya per lungo e per largo.
Il nostro compito nella vita è quello di illuminare il mondo attraverso atti di gentilezza. Tuttavia, a volte occorre saper lottare contro i propri desideri per fare ciò e allora come si può realizzare la nostra missione nonostante le tentazioni terrene?
Questo Shabbàt è noto come “Shabbàt Teshuvà”, il “Sabato del Ritorno”, che intercorre tra le feste di Rosh Hashanà e Yom Kippùr e dove si legge l’esortazione profetica (Oshea 14, 2): “Ritorna, o Israele, ad Hashèm, il tuo Dio …”.
Il periodo da Rosh Hashanà a Yom Kippùr (i Dieci giorni di penitenza) è particolarmente favorevole al “ritorno ad Hashèm”, attraverso il pentimento da qualsiasi trasgressione che possiamo avere compiuto. Periodo dove è opportuno riflettere sul rapporto tra noi e la nostra anima, tra noi e il nostro Padre in Cielo, la nostra missione nella vita, e come sfruttare al meglio l’opportunità concessaci in questi giorni particolarmente favorevoli per rimediare ai torti del passato e ricominciare da capo con una nuova carica.
Inoltre, il versetto sopra citato recita: “Ritorna, o Israèl, ad Hashèm, tuo Dio, perché sei inciampato nella tua iniquità”. L’iniquità – la trasgressione della volontà di Dio – è come un ostacolo che impedisce a un individuo di progredire sul sentiero che rafforzerà la sua relazione con Hashèm. Per capire che cos’è questa relazione e in che modo le trasgressioni la ostacolano, occorre soffermarci sullo “scopo dell’esistenza…”.
Hashèm, ovviamente è onnipresente e onnipotente e se non lo avesse creato diversamente l’universo e tutte le entità sarebbero semplicemente sopraffatte da Lui e smetterebbero di esistere a pieno titolo. È impossibile, infatti visualizzare una luce brillante, più accecante di un milione di stelle, che riempie tutto lo spazio con la sua intensità; a meno che non ci sia un modo per nascondere quella brillantezza, poiché altrimenti nient’altro nell’universo sarebbe distinguibile e definibile. Pertanto, per il nostro bene, Hashèm si nasconde alla nostra percezione in questo mondo, così tanto che una persona potrebbe addirittura nemmeno rendersi conto dell’esistenza di Dio. Infatti, se Hashèm dovesse rivelarsi in tutta la Sua gloria, l’intera creazione sarebbe semplicemente assorbita nella sua onnipresenza e cesserebbe di esistere come la conosciamo.
Ora, in realtà, la necessità di nascondere questa “luce accecante” fa parte del “piano generale” di Hashèm: proprio come una luce brilla di più quando illumina un luogo buio, Dio deliberatamente cela la sua “luce”, ma, al contempo, ci dà anche un modo per rivelare questa luce anche nell’oscurità del mondo fisico.
Ciò si realizza attraverso la Torà e l’osservanza dei suoi precetti in questo buio mondo fisico. Questo è paragonabile a un interruttore che stabilisce una connessione tra una persona e Dio, facendo sì che parte della “luce” di Hashèm possa brillare sia su una persona in particolare, sia sul mondo in generale.
Questa grande rivelazione della bontà divina tramite le nostre azioni positive, anche laddove è stata precedentemente nascosta, è una delle manifestazioni più belle della sovranità di Hashèm sull’universo. Anzi, è una delle ragioni principali per cui Hashèm ha creato l’universo: ILLUMINARE IL BUIO.
Pertanto, questa è la nostra sfida nella vita: essere i “luminari” spirituali di questo mondo oscuro.
Tuttavia è una SFIDA CHE POSSIAMO VINCERE, poiché ognuno ha in sé un potenziale amore inestinguibile per Hashèm profondamente radicato nella sua anima. Risvegliando questo amore possiamo avere la forza per sublimare i nostri desideri meschini e mondani, e addirittura trasformarli completamente in desideri per Hashèm. Questo amore ardente per il Creatore, dovrebbe motivare ogni aspetto della vita di una persona e può essere messo in luce e coltivato dalla profonda riflessione sulla presenza illimitata di Dio, come è scritto (Deuteronomio 4:39): “E saprai questo giorno e lo porrai nel tuo cuore, che il Signore è Dio nei cieli in alto e sulla terra in basso; non c’è nessun altro”.
Uno dei principi fondamentali dell’ebraismo è che Dio è Uno nell’unità più perfetta e assoluta. Il realizzare correttamente che Hashèm pervade l’universo, ed è l’unica vera fonte di esistenza, può stimolare ogni persona all’amore sincero di Lui, e ci consente di superare qualsiasi ostacolo per portare la “luce” di Hashèm nel mondo al fine di rivelare, presto nei nostri giorni, l’era messianica dove la sovranità di Dio sarà manifesta a tutti apertamente.
In memoria di mio padre Yaakov ben Shlomo veRachel
B”H
6 Tishre 5779 – 15 Settembre 2018
parasha di VAYELEKH – KIPPUR inizia martedì sera
il Salmo 130, uno dei più belli e commoventi, lo recitiamo ogni mattina nel periodo che intercorre tra Rosh Hashanà e Yom Kippùr (Dieci giorni di Teshuvà – Pentimento).
Nel verso 4 troviamo una frase molto intensa ma ambigua: “Poiché il perdono è con Te, in tal modo Tu sei temuto”.
Questo verso, apparentemente semplice nella sua bellezza, se analizzato con attenzione risulta essere oltremodo enigmatico!
Come è possibile affermare che chi PERDONA è più TEMUTO? Il senso comune, infatti ci dice proprio l’opposto, chi offre il perdono è MENO temuto e non PIÙ temuto!
Chi si teme maggiormente, il padre buono o quello severo, il capo ufficio affabile o quello esigente? Allora che cosa ci vuole comunicare Re David con questo apparente paradosso??
(coninua sotto)

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Shabbat Shalom e

Khatimà Tovà!
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KIPPUR
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SMETTIAMO DI BALBETTARE

Dopo quattro millenni, gli occhi del mondo sono sempre puntati su Israele!!!
PERCHE’?

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per le altre 8 lezioni di Kippur:
UN GIUSTO RITORNO: L’ESSENZA DI KIPPUR
(continua da sopra)
Due banchieri per due destini
Proviamo a capire meglio con la metafora insegnata dell’Alter Rebbe.
Il mercato immobiliare è in piena espansione! Un ragazzo, di nome Levi, prende un prestito di 100 milioni di Euro dalla banca, per acquistare un enorme palazzo in pieno centro a Milano. All’improvviso, il mercato crolla, la proprietà ora vale la metà. A Levi rimane solo un enorme debito. Il ragazzo incontra il direttore della banca che gli intima con perentoria durezza: “Vogliamo l’intero debito versato, con tutti gli interessi, come da contratto, ENTRO un MESE…!”
Levi avvilito e demoralizzato inizia a pensare che non può fare niente è impossibile trovare i soldi. Quindi d’innanzi all’impossibile, cosa fa il ragazzo? Nulla, si arrende! Stacca il computer, telefono; non risponde alle email, chiamate e notifiche di vario tipo da parte della banca creditrice.
Supponiamo però un altro scenario: il direttore della banca dice, “okay, siamo tutti nella stessa barca, tutti in un grande casino. Lavoriamo in modo equo e collaboriamo assieme per risolvere il problema: tagliamo il prestito del 30%; rimuoviamo ogni interesse; iniziamo a rimborsare ogni mese una piccola quota del debito…
Con questo tipo di approccio, uno sì che si spaventa! Ora Levi si sente in obbligo di trovare i soldi, deve pensare a come fare, può e deve impegnarsi. Non può tradire il direttore della banca, così buono e comprensivo, deve presentarsi ogni mese per il pagamento.
Se Non Sono Mai Abbastanza, Mi Arrendo!
Questo, dice l’Alter Rebbe, è il significato del versetto, “Poiché il perdono è con Te, in tal modo Tu sei temuto”. Se Dio chiedesse il pieno risarcimento per tutti i nostri errori, compresi di interesse e PREZZO PIENO non lo temeremmo; bensì questo ci spingerebbe solo ad allontanarci da Dio, a rinunciare ad avere un rapporto con l’Eterno.
È come un bambino che non può mai piacere ai propri genitori. Qualunque cosa faccia, non è mai abbastanza, ogni errore è evidenziato. Ad un certo punto, il bambino non può fare altro che arrendersi completamente.
Se una persona non ha alcuna speranza di riuscire a fare bene, perché provare? Se sarà sempre criticata, perché preoccuparsi di migliorare? Una qualsiasi persona, se spinto con durezza in una dimensione fatta di cinismo, dolore e disperazione, reagisce mettendo semplicemente in discussione le sue relazioni: con i genitori, con il direttore di una banca, con i suoi amici e anche con Dio!
Nel salmo 130, 4 Re David ci dice che Dio perdona! Che Dio non ci chiederebbe mai di essere perfetti. Lui ci chiede solo di incontrarlo, anche a “metà strada”. Dio vuole, da ciascuno di noi, soprattutto in questi 10 giorni di pentimento, che viviamo nel modo più felice, di successo, potente che possiamo. Dio desidera ardentemente che noi ci impegniamo a rendere la nostra vita una “storia di successo”.
Perciò ora, in questi giorni fino a Kippur, dobbiamo davvero entrare nei nostri cuori, riparare i nostri errori e decidere di vivere un futuro più puro e più santo.
“Poiché il perdono è con Te, in tal modo Tu sei temuto”.
Estratto dagli insegnamenti del Rav Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), noto come Alter Rebbe, la metafora è spiegata nel Maamar del Rebbe di Lubavitch Ani Ledodi 5729 (1969)
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commento di Kippur dell’anno scorso altamente consigliabile:

L’IMPOSSIBILE È POSSIBILE!

ogni giorno dell’anno ha una speciale vitamina che ci può nutrire.
Ci sono vitamine per il fisico, altre per la nostra psiche o anima. Le feste ebraiche sono dei CONCENTRATI di vitamine con una dose maggiore di quella regolare e ogni festa ci nutre TANTISSIMO di una sola vitamina che da più all’anima o alla psiche piuttosto che al corpo.
Ci troviamo alla vigilia della festa di Kippur il giorno del perdono. Per ricevere il perdono in questo giorno solenne Dio ci dice che dobbiamo cambiare, pentirci, chiedere scusa e trasformarci. In altre parole Kippur è la VITAMINA della METAMORFOSI.
Se abbiamo dei vizi storti di ogni genere, se non siamo bravi ad ascoltare i consigli della moglie o i colleghi di lavoro, se non riuscissimo a trovare “spazio” nella nostra vita per il nostro Creatore (che ci chiede di parlare con lui e di seguire il manuale di vita [Torà] che ci ha prescritto per il buon funzionamento della nostra vita), ebbene questo è il giorno dal quale possiamo trarre la VITAMINA per poter cambiare.
Ci sono tantissime spiegazioni sul perché e come mai proprio questo giorno ci da questa forza, ma preferisco condividere la storia di vita di un nostro contemporaneo che può darci un GRANDE esempio di come possiamo cambiare noi stessi e di conseguenza cambiare il mondo e in particolare anche situazioni inguaribili si possono trasformare in bene.
Il professor Reuven Feuerstein (1921-2014) è stato uno psicologo cognitivo dello sviluppo in Israele e fondatore del Centro Internazionale per l’Enhancement of Potential Learning, con sede a Gerusalemme. I suoi sistemi di modificabilità cognitiva strutturale sono stati, a livello mondiale, applicati e implementati in oltre 80 paesi in tutto il mondo.
La sua storia mi lascia sempre ESTEREFATTO ogni volta che la ricordo.
Feuerstein ha avuto una grande stima e amicizia con il mio maestro il Rebbe di Lubavitch. Lui era solito dire che grazie alle benedizioni del Rebbe e il suo incoraggiamento a continuare le sue ricerche, era riuscito a fare tanta strada. Un mio conoscente, che ha parlato con Feuerstein, mi ha raccontato come il professore aveva in tasca sempre un Dollaro del Rebbe di benedizione e successo che portava con orgoglio, poiché diceva che gli dava tanta forza.
È stato intervistato nel giugno del 2011, sei anni fa circa, prima della sua dipartita avvenuta nel 2015:
Come psicologo lavoravo in Israele durante gli anni ‘40. Ho lavorato con i sopravvissuti dell’Olocausto, molti di loro bambini, assolutamente traumatizzati. Per esempio ho visto un ragazzo di 17 anni che pesava solo 34 kg circa e che guardava ogni pezzo di cibo come uno che sta morendo di fame: avrebbe rubato e raccolto ogni cibo possibile.
Naturalmente, le persone chiedevano con stupore: “C’è speranza di guarire per bambini come questo? Saranno mai in grado di costruirsi un futuro? Saranno mai in grado di dimenticare quello che hanno passato?”.
Molti erano del parere che non si poteva fare niente per aiutare questi bambini, perché avevano visto troppe atrocità disumane. Ma ho pensato, “non possiamo permetterci di perdere neanche un figlio”.
Successivamente, sono andato a studiare presso l’Università di Ginevra sotto Jean Piaget e Carl Jung e altri, e nel 1954 ho fondato il Centro Internazionale per l’Enhancement del potenziale di apprendimento (ICELP) a Gerusalemme, dedicato alla teoria che ho sviluppato, che ho chiamato la teoria della “Malleabilità dell’intelligenza”.
Fondamentalmente, ho detto: “Sì, possiamo aiutare questi bambini e tutti i bambini, non importa i loro problemi di sviluppo. Noi possiamo aiutarli a cambiare PERCHÉ SONO ESSERI UMANI CHE HANNO DENTRO DI LORO UNO SPIRITO DIVINO”. L’anima dell’uomo è una parte di Dio. Come Dio è illimitato anche l’uomo è al di sopra dei limiti “apparenti” del suo corpo.
All’epoca ho avanzato questa teoria – che gli esseri umani sono modificabili, che non sono necessariamente limitati dalla loro genetica, ma allora era considerata eresia. La gente semplicemente non credeva che il cervello potesse cambiare, anche se adesso è un dato accettato e confermato che non esiste una parte del corpo così flessibile e modificabile come il cervello.
Il Rebbe sapeva del mio lavoro e lo sosteneva totalmente. Lui spesso mi ha mandato dei bambini, alcuni con problemi di sviluppo, altri più difficili con la sindrome di Down e alcuni che erano epilettici. Ovunque andassi, la gente si avvicinava a me, dicendo: “Il Rebbe vuole che tu vedi il nostro figlio”. Inoltre, io ho ricevuto lettere dal Rebbe su bambini particolari che voleva che vedessi.
Ogni volta che mi ha mandato un caso questo è stato accompagnato dalla sua benedizione, “Zayt matzliach – Che tu possa avere successo”.
Con quella benedizione, ho sempre avuto la sensazione di potere risolvere i casi più estremi e non importava quanto potesse essere difficile in apparenza. Nella mia esperienza o visto che anche le persone con disturbi genetici possono essere trasformati in individui autonomi ed efficienti e di conseguenza hanno potuto avere una vita ebraica regolare e studiare la Torà.
Infatti, è stato dal Rebbe che ho appreso che tale concetto può essere realizzato. Ne ho avuto la conferma con mio nipote che nonostante avesse la sindrome Down ha studiato in yeshiva e ha conseguito gli esami finali nelle scuole superiori (che in Israele chiamiamo bagrut).
Ma, in quel momento sembrava impossibile un risultato simile, perché le persone non credevano a un cambiamento così drammatico. E mi è stato spesso chiesto: “Come puoi dire che questo bambino potrà mai parlare? Come hai il coraggio di dire che questo bambino sarà in grado di leggere o finire la scuola o andare a yeshivà?”
Ho osato dire queste cose a causa delle mie frequentazioni con il Rebbe, che incontravo regolarmente.
Nel 1980, le mie idee erano diffuse dappertutto. Ho pubblicato tre libri e sono stato spesso invitato a tenere conferenze nelle università e sono stato nominato professore a Yale (USA). Ho continuato a sviluppare nuove modalità di formazione che dimostravano come si possono creare nuove sinapsi all’interno del cervello, nuove connessioni che non esistevano prima e in questo modo aiutare i bambini con le condizioni più devastanti.
Vorrei solo dare due esempi.
C’era un ragazzo con una condizione del cervello che gli rendeva difficile concentrarsi e sentire quello che qualcuno gli stava dicendo, la sua capacità di ascolto era molto, molto limitata. Ma il Rebbe mi ha dato la sua speciale benedizione per lui. E malgrado questa condizione del cervello, il ragazzo ha cominciato a imparare e diventare molto più attento nel suo comportamento. I suo progressi furono così importanti che riuscì a far parte del mondo religioso.
Sempre grazie al Rebbe, ho avuto un altro caso, il più difficile di tutta la mia carriera:
a un ragazzo è stato diagnosticato una malattia mentale, nel suo paese di nascita, ed è stato messo in una scuola per bambini problematici. Lì ha vissuto tra i non-ebrei turbati. Influenzato dal loro comportamento il ragazzo è caduto in pessime frequentazioni e di conseguenza è diventato un vero e proprio problema e nessuno credeva che avrebbe mai potuto diventare un essere umano normale e indipendente.
A un certo punto, suo padre è andato a chiedere aiuto al Rebbe che gli ha detto di portarlo da lui.
Grazie all’intervento del Rebbe, Il figlio è venuto qui in Israele ed è stato collocato in una famiglia Chabad. Ha imparato a leggere. Spesso si trovava davanti alla mia porta a leggere Salmi, perché il Rebbe gli aveva detto di leggere il Libro dei Salmi, dall’inizio alla fine, ogni settimana. Cosa che ha fatto per tutti i tre anni che è stato con noi.
Grazie a Dio, tutto è andato molto bene e ho sentito che avevamo fatto quello che il Rebbe ci ha chiesto di fare. Ci siamo sentiti di avere realizzato la nostra missione con successo.
Ma, dopo che questo ragazzo ci ha lasciato ha avuto una ricaduta morale ed è finito in una banda pericolosa, in un luogo da cui poche persone tornano sane. Era coinvolto con persone promiscue, che prendevano droghe; in un mondo dove non ci sono limiti ai peccati.
Quando ho sentito cosa era successo, ho contattato il Rebbe che mi ha risposto: “Non lasciarlo fuori dalle tue mani. Invia qualcuno a trovarlo, riportarlo indietro e continua il tuo grande lavoro: CHI SALVA UNA ANIMA È COME SE SALVASSE IL MONDO INTERO!!!”
Non credevo che uno sforzo di salvataggio avrebbe avuto successo, ma il Rebbe mi aveva insegnato a provare l’impossibile, così ho fatto. Ho mandato qualcuno a prendere questo giovane da queste persone terribili e siamo riusciti a riportarlo a uno stile di vita sano e morale. Era perduto, ma è tornato e oggi è padre di quattro figli, due di loro studiano in yeshivà.
Voglio solo dire che, come psicologo, non avrei mai potuto credere che un miglioramento così esagerato potesse accadere. Di solito, in questi casi, ci arrendiamo, ma il Rebbe non ha rinunciato e ci ha insegnato che non bisogna “MAI DIRE MAI”.
Chiaramente, la psicologia è molto limitata nella sua comprensione dell’altro: spesso è troppo connessa alla comprensione di noi stessi. Questo ci porta a valutare gli altri in base ai nostri canoni.
Ma il modo in cui il Rebbe ha capito la condizione dell’individuo era del tutto diverso. E questo è il motivo per cui diceva: “Sì, fallo. Niente è impossibile”.
Il suo era un modo molto diverso di vedere l’essere umano, non come riflesso del sé, ma come un riflesso dello spirito superiore, una divina sorgente che attinge dall’infinito e non ha LIMITI DI SVILUPPO.

NITZAVIM

NITZAVIM 5765 – UNO PER TUTTI E TUTTI PER UNO!
L’Unità del popolo ebraico: una breve ma interessante lezione su Nitzavim.

NITZAVIM 5768 25 ELUL 5768 CORTA MA LUNGA