Panoramica di Pinekhàs
La Parashà di Pinekhàs si apre con la continuazione della storia, che ha avuto inizio alla fine della precedente parashà di Balàk. Come abbiamo già sottolineato, il racconto di Pinekhàs è una parte della più ampia storia dell’incontro del popolo ebraico con l’alleanza moabita-midyanita, alla vigilia del suo ingresso nella Terra di Israele.
Dopo aver descritto la ricompensa di Pinekhàs per aver fermato sia l’improvviso declino morale del popolo ebraico che la piaga divina che ne derivò, la Torà procede a descrivere il censimento causato dalla decimazione generata dal flagello. Questo censimento funge da prologo alla successiva discussione di questioni pertinenti alla conquista della Terra Promessa, in quanto la terra deve essere divisa in base ai risultati del conteggio.
Dopo il censimento, la Torà discute:
• le leggi dell’ereditarietà,
• il passaggio del comando da Moshè a Yehoshù’a,
• i sacrifici pubblici giornalieri e quelli festivi supplementari da offrire nel Santuario.
Sappiamo che il nome di una parashà si applica a tutto il suo contenuto, non solo alla sua parte iniziale. Quindi la domanda è: che cosa hanno a che fare il censimento, le leggi dell’ereditarietà, il passaggio del comando e le offerte quotidiane e festive con Pinekhàs? Inoltre, perché la storia di Pinekhàs si divide tra la fine della parashà precedente e l’inizio di questa? Sarebbe stato più logico concludere la storia (che richiede solo pochi versi, dopo tutto) alla fine della parashà di Balàk e iniziare la successiva parashà con il censimento. È vero, il censimento è stato reso necessario dagli eventi della storia di Pinekhàs, ma esso è collegato con l’imminente conquista di Israèl e quindi si inserisce bene con questo argomento successivo.
Per capire questo, ricordiamo che nella panoramica della precedente parashà, la Torà descrive dettagliatamente la storia di Balàk perché ci sono lezioni da imparare che sono essenziali per gli ebrei prima che essi entrino nella Terra di Israèl (in particolare, queste erano le profezie messianiche e l’idea che l’imperativo messianico dovesse essere applicato anche agli aspetti più bassi del creato). Allo stesso modo, la Torà descrive il secondo atto del dramma della vicenda di Moàb – Midyàn e la storia di Pinekhàs, per trasmettere una lezione essenziale che gli ebrei imparino prima di entrare nella Terra di Israele (e che noi impariamo per riuscire a entrare nelle nostre “terre promesse” personali su piccola scala), così anche per accelerare l’ingresso definitivo nella Terra Promessa con l’avvento del Messia.
Qual è questa lezione?
Ironicamente si potrebbe dire, e forse inizialmente anche in modo preoccupante, è che la nostra devozione a Hashèm non deve essere limitata dalla Torà. Quando Pinekhàs uccide Zimrì e Kozbì, si consulta prima con Moshè, il quale gli dice che sebbene la Torà permetta, a chi è sopraffatto dallo zelo, di uccidere qualcuno sorpreso nell’atto di un rapporto intimo immorale
[1], questa è “una legge che non viene insegnata”, cioè nessuno può essere istruito a fare questo
[2]. In realtà, i saggi disapprovano un simile atto. Inoltre, il colpevole è autorizzato a uccidere l’uomo zelota (colui che è zelante, geloso per una cosa) per autodifesa
[3]. In altre parole, uccidendo Zimrì, Pinekhàs stava facendo qualcosa che non gli era richiesto dalla Torà, che era disapprovata dai saggi ed egli ha messo a rischio anche la sua stessa vita.
Tuttavia, agendo per zelo e ignorando la voce della prudenza, Pinekhàs mise fine al comportamento peccaminoso del popolo, sospese la piaga che lo stava decimando e guadagnò il sacerdozio per se stesso e la sua progenie. Chiaramente egli ebbe ragione.
Per comprendere appieno le implicazioni di ciò, dobbiamo esaminare più da vicino la triplice connessione tra Dio, la Torà e Israèl.
La Torà, lo sappiamo, è il libro di istruzioni di Hashèm per il creato in generale e per il popolo ebraico in particolare. Ci insegna come relazionarci con il mondo e realizzare qui il nostro scopo.
La Torà ci trasmette queste lezioni attraverso il nostro intelletto. Leggiamo la Torà, comprendiamo ciò che dice e la seguiamo. Se non capiamo parti di essa, continuiamo a studiarla e a cercare istruzioni dai suoi insegnanti finché non la comprendiamo. Eppure sicuramente il legame con Hashèm è superiore al legame che possiamo filtrare attraverso il nostro intelletto. Come abbiamo notato in precedenza, esiste una dimensione spirituale della relazione tra Hashèm e Israele, trasmessa attraverso la Torà, che trascende, oltrepassa ed è completamente al di sopra della dimensione dell’intelletto. L’essenza interiore dell’ebreo è legata soprarazionalmente a Dio, e se le conseguenze di questo legame non sembrano sempre razionali, questo non deve sorprenderci o scoraggiarci.
In altre parole, la Torà parla al nostro intelletto, ma allo stesso tempo apre le finestre alla dimensione sovra-intellettuale della nostra relazione con Hashèm. Le Sue richieste su di noi sono esteriormente razionali, ma sublimemente sovrarazionali.
Apparentemente, la Torà richiede che sacrifichiamo le nostre vite solo in certi casi. Se qualcuno minaccia di ucciderci se non commettiamo un atto di adulterio, idolatria o omicidio, siamo costretti a rinunciare alle nostre vite piuttosto che compiere queste colpe. Oppure anche nel caso in cui il regime al potere ha dichiarato una guerra totale alla Torà e vieta di osservare i suoi precetti, allora siamo tenuti a rischiare la vita in qualsiasi modo pur di osservarli. In tutti gli altri casi, tuttavia, non siamo tenuti a sacrificare le nostre vite e, di fatto, dobbiamo trasgredire le leggi della Torà per rimanere in vita. Quando la Torà richiede che sacrifichiamo le nostre vite, è perché in questi casi è ragionevole: in queste circostanze il sacrificio di sé è razionale.
Pertanto, finché l’ebreo esegue le regole a livello razionale, sacrificherà la sua vita solo in queste circostanze. In tutti gli altri casi, egli sa che la Torà preferisce che egli trasgredisca le Sue leggi piuttosto che rinunciare alla propria vita e, quindi, questo è ciò che farà.
Quando, tuttavia, un ebreo si sente così fortemente connesso ad Hashèm che la ragione e i fondamenti logici non hanno effetto su di lui, quando la sua coscienza è stata oltrepassata dalla sua essenziale, intrinseca e sovrarazionale legame con Hashèm, non gli importa se la Torà gli richiede di sacrificare la sua vita in qualche caso particolare. La sua unica preoccupazione sarà per Dio: egli agisce spinto dalla sua sfrenata passione per le cause di Hashèm, senza valutare le conseguenze per la sua stessa vita. Quando, in una tale situazione, l’individuo sente che il programma di Hashèm nel mondo è in qualche modo minacciato, non c’è dubbio su cosa farà. Questa intensità della coscienza di Hashèm mette costantemente la persona pronta al sacrificio di sé.
Lo scopo della vita è rendere questo mondo (e noi stessi) una casa per Hashèm, riempendo ogni angolo della creazione con la realtà di Dio. Quindi, questa prontezza al sacrificio di sé simboleggia l’intensità della coscienza Divina che caratterizzerà il futuro messianico. Più di questo: il sacrificio di sé è proprio ciò che porterà il futuro messianico, poiché per raggiungere una completa coscienza divina, che è l’obiettivo della creazione, dobbiamo uscire dai limiti della razionalità ed entrare in un livello di unione con Hashèm che supera i limiti della dimensione della logica.
Questo, quindi, è il motivo per cui la lezione di Pinekhàs è stata così cruciale per Israèl mentre stava per entrare nella Terra Santa. Questa è la prima volta che la Torà ha indicato che è necessario andare oltre i suoi dettami. Avendo sentito parlare delle profezie messianiche di Bil’àm e avendo messo gli occhi sul vero scopo della loro imminente conquista, il popolo ebraico deve ora rendersi conto che questo obiettivo può essere raggiunto solo se mostra la vera identificazione interiore con Hashèm e i Suoi obiettivi e non limita se stesso alla mera letteralità della legge.
Lo stesso vale per ognuno di noi nelle nostre vite personali. Ogni volta che siamo in procinto di raggiungere un grande obiettivo per il quale stiamo lottando, dobbiamo prima mettere a tacere le voci interne della negatività e dell’opposizione. Ma in aggiunta, dobbiamo essere consapevoli che in questo momento non è il tempo di porre limiti alla nostra dedizione. La prova di una vera devozione ai nostri ideali è la nostra volontà di dare tutto in quello in cui crediamo.
Ancora, lo stesso vale adesso per noi tutti, mentre ci troviamo sulla soglia della Redenzione finale e dell’ingresso nella Terra di Israele. Ciò che ci è richiesto ora è la disponibilità a mettere da parte tutto il resto e a “schierare in campo” ciò che abbiamo di migliore e di più grande, per poter vedere la storia concludersi verso il suo destino messianico.
E proprio come con Pinekhàs, Hashèm aiuterà coloro che dimostrano il sacrificio di sé di fronte alle avversità; Egli benedirà i loro sforzi con il successo. La storia ha dimostrato che coloro che non si piegano alle minacce dei nemici dell’ebraismo alla fine prevalgono. Questo è il motivo per cui la storia di Pinekhàs è divisa tra due parashòt, quella Balàk e quella di Pinekhàs, lasciando l’auto sacrificio nella precedente
parashà e concentrandosi ora sulla sua ricompensa: per insegnarci che il sacrificio di sé ha successo e ci porterà fino alla Redenzione finale
[4].
Dimensioni Profonde
Nella terminologia cabalistica, il sacrificio completo di sé (Pinekhàs) manifesta il livello di yekhidà (unica), il più alto dei cinque livelli dell’anima, dove l’anima è unica con Hashèm, senza tramiti. Yekhidà è l’interfaccia tra l’anima e Hashèm, in cui l’individuo è consapevole di se stesso solo come una “parte di Dio”. In questo livello si è, paradossalmente, consci dell’esistenza di se stessi (come parte di Hashèm) e allo stesso tempo consapevoli del fatto di non esistere (cioè, totalmente dissolti nella realtà di Hashèm).
I quattro livelli inferiori dell’anima – nèfesh, ruàkh, neshamà e khayà – si esprimono attraverso i “poteri” o le facoltà che l’anima da vitalità al corpo: rispettivamente l’azione fisica (es. mani e piedi), l’emozione (cuore), l’intelletto (testa) e la volontà (tutto il corpo). Al contrario, Yekhidà è troppo sublime per esprimersi in qualsiasi facoltà o immagine, ma dall’altra parte le comprende tutte.
In questo livello l’anima è nella sua essenza che è parte del Creatore e la sua unione è senza tramiti perché la Yekhidà è l’essenza dove è unica con Hashèm.
Oggigiorno non siamo consapevoli di questo aspetto profondo dell’anima che raramente si manifesta (es. nel giorno di Kippùr), ma in futuro questo livello diventerà l’aspetto dominante della nostra coscienza. Questo quinto livello rifletterà il cambiamento generale nella creazione che si verificherà allora: la “luce” divina, che ora è troppo intensa per essere rivelata nel mondo, si rivelerà nella realtà creata e il mondo rifletterà un’altra apparenza quella vera, che oggi il creato nasconde: la mano di Hashèm che è rivestita dietro un guanto chiamato “natura”.
Proprio come i quattro livelli dell’anima saranno pervasi con la luce infinita di Yekhidà, così anche i quattro mondi spirituali di Atzilùt, Berià, Yetzirà e Assiyà saranno infusi con la “luce” divina trascendente.
A un livello più profondo, la dinamica tra la privazione ed essere permissivi esiste solo negli stati mentali di un percorso creativo – razionale. La forza iniziale dell’intuizione creativa, Khokhmà lo mette in uno stato di auto-trascendenza, in cui il suo ego è temporaneamente sospeso (bitùl) dalla lampo di luce che lo ha illuminato. Nella fase successiva dello sviluppo razionale, entra in scena il secondo livello dell’anima di Binà: la nuova intuizione viene analizzata nelle sue componenti e integrata nella struttura mentale. Questa è un’esperienza inversa, in cui l’individuo è piuttosto consapevole di se stesso e cerca di comprendere la nuova intuizione alla luce di ciò che già sa.
Quando una persona viene catapultata nella trascendenza divina di Khokhmà, non ha bisogno di preoccuparsi dell’autocontrollo detto “privazione”. Finché l’auto-annullamento di Khokhmà esiste, il suo ego non cercherà di farlo deragliare nell’indulgenza con se stesso. Ma per comprendere deve per forza passare nell’ambito di Binà, e analizzare e valutare la nuova intuizione in relazione alla sua consolidata percezione mentale, deve invocare il potere protettivo della privazione; deve stare attento alla propensione del proprio ego a enfatizzare eccessivamente i propri interessi personali.
È necessario che una persona discenda dal suo stato trascendente di Khokhmà – illuminazione, al fine di integrare la nuova visione nella propria vita. Altrimenti, la sua intuizione gli sfuggirà e scomparirà. Quindi, il processo di Binà è necessario per la crescita e lo sviluppo.
Tuttavia, al fine di mantenere lo sviluppo dell’idea fedele all’intuizione iniziale che lo ha generato, l’individuo deve periodicamente rivivere qualcosa dell’esperienza di Khokhmà. Facendo questo, la sua Binà non lo porterà fuori strada.
Questo concetto di rivivere l’intuizione di
Khokhmà per proteggere lo sviluppo di
Binà è simile al processo in cui un giudice annulla i voti a una persona che altrimenti sarebbero prescritti. Questo avviene perché si eleva colui che fa il voto a un livello in cui il voto non è più necessario di essere rispettato
[5], similmente al processo dell’elevazione di
Binà in
Khokhmà.
Allo stesso modo la storia della parashà di Pinekhàs simboleggia l’elevazione di Binà in Khokhmà: Pinekhàs trascendendo ogni logica razionale acquisisce il sacerdozio. Questo simboleggia il nuovo rapporto e la nuova consapevolezza, che vi sarà nel futuro messianico tra l’uomo e Hashèm.
(estratto dal nuovo libro della Torà Bemidbàr che ha bisogno di tanti soci per essere pubblicato)
[1] Talmùd
Sanhedrin 81b;
Shulkhàn Arùkh,
Khoshèn Mishpàt 425:4.
[2] Talmùd S
anhedrìn 82a. Una volta che il colpevole si è separato dalla donna, non può essere processato da un tribunale terreno e la sua punizione è lasciata al tribunale celeste. Pertanto chiunque lo uccida, a quel punto, è egli stesso passibile di pena di morte.
[3] Questo è il motivo per cui le autorità rabbiniche non possono ordinare all’uomo molto zelante di uccidere il peccatore, perché così facendo metterebbe in pericolo la sua stessa vita, quando non è obbligato a farlo. Al massimo possono riconoscergli il permesso di ucciderlo (e rischiare per conto suo la propria vita)
[4] Likuté Sikhòt vol. 18, pp. 319 e segg.
[5] Likuté Sikhòt vol. 4, pp. 1078-9