Shabbàth VAYIKRÀ Zachor vigilia di Purìm 5784: 9 LEZIONI

16 Marzo 2024 0 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 23 Marzo 2024, 13 del mese di ADÀR Shenì 5784 leggeremo la Parashà di Vayikrà:

I° Sefer Lev 1-5, 26

e la Parashà di Zachor:

II° Sefer Deut. 25: 17-19

Si leggerà l’HAFTARÀ:

Italiani /Sefarditi: I Sam. 15: 1-34
Milano/Torino/Ashkenaziti: I Sam. 15: 2-34

Vigilia di Purìm

Anche quest’anno ci avviciniamo alla gioiosa festa di Purìm (sabato sera – domenica, mentre il digiuno è stato giovedì 21/03). Tuttavia, la storia di Purìm quest’anno, dopo i dolorosi eventi che hanno seguito il 7 ottobre, assume un “sapore” particolare. Il rivolgimento delle sorti accaduto a Purìm non è un fatto relegato agli albori di un lontano passato. Questa è una delle “promesse” e speranze della vicenda di Purìm, anche per noi oggi.
In questo scritto, il Rebbe ci consente di comprendere meglio l’attualità di questo giorno e dei suoi insegnamenti. Per prima cosa nella Meghillà di Ester vi è in realtà una potente presenza di Hashèm, ma in una forma, anch’essa pienamente coerente con Purìm, ossia nascosta. Per giunta l’allusione ad Hashèm e in particolare alla sua immanente regalità avviene attraverso uno dei protagonisti della Meghillà, il re Akhashveròsh (spiegato in seguito).
Dopo aver rifletto su questo si potrà trarre un importante insegnamento che dal passato arriva fino ai nostri giorni. Buona lettura!

UNA LEZIONE DAL PASSATO

Oggi come Ieri
I nostri Saggi, nel versetto “Oggi il Signore, il tuo Dio, te lo comanda”, dicono che tutte le questioni della Torà, anche gli eventi del passato “dovrebbero essere nuovi ogni giorno ai nostri occhi, come se fossimo comandati oggi” (Meghillà 2a). Quindi, non solo le questioni della Torà forniscono una lezione per il presente, ma lo fanno con la stessa forza di quando sono avvenuti nel passato, come se accadessero per la prima volta adesso, oggi.
Una delle cose che sottolinea l’idea che questi fatti “passati” in realtà sono “nuovi” è proprio Purìm. La Meghillà afferma (9, 28) “Questi giorni saranno ricordati e osservati per ogni generazione, ogni famiglia, ogni provincia e ogni città; e che questi giorni di Purìm non si allontaneranno dai Giudei, né il loro ricordo perirà dalla loro discendenza”. Vediamo quindi che oltre all’insegnamento innovativo consueto, riguardante tutte le questioni della Torà, quello di Purìm ha un’enfasi particolare tanto da essere considerato “nuovo” ogni anno.
Il Baal Shem Tov interpreta la sentenza della Mishnà (Meghillà 2,1) in questo modo: “Chiunque legge la Meghillà al contrario non ha adempiuto al suo obbligo”, cioè chiunque legge la Meghillà, pensando che sia un evento del passato, “al contrario”, non ha adempiuto al suo dovere, perché ogni anno si ripete la luce che si è rivelata il primo Purìm quindi la festa deve essere vissuta come “nuova” – come in origine. Tuttavia, qui sembrerebbe che a una persona venga chiesto di eseguire un comportamento contraddittorio: da un lato, deve comprendere il significato di ciò che legge nella Meghillà, dove si afferma chiaramente che ciò accadde “ai giorni di Akhashveròsh” migliaia di anni prima; dall’altro lato, gli viene chiesto di rendersi conto che, sebbene sia un evento accaduto nel passato, esso deve essere letteralmente “nuovo” per lui. Come può una persona fare entrambe le cose?

Il Sovrano dei Tempi
La risposta viene dal nome “Akhashveròsh”. Il Talmùd spiega che Akhashveròsh è un acronimo di due parole: akharìt vereshìt, la fine e l’inizio; ovvero colui al quale gli appartiene l’“inizio” e “fine”. L’idea di regalità su questa terra deriva dal concetto di Regalità in Alto, il concetto di Re d’Israele deriva dal concetto del Re dei Re, ossia Dio; mentre il concetto di un Re non ebreo deriva dall’idea di un re tra gli ebrei. Quindi, la regalità di Akhashveròsh deriva dal livello della Regalità Superiore: Colui al quale appartengono “l’inizio” e la “fine”.
“L’inizio” si riferisce all’inizio del tempo (cioè il passato) e la “fine” si riferisce a tutto il tempo successivo (cioè presente e futuro). Dio è alluso e “compreso” nel nome Akhashveròsh, perché “l’inizio e la fine” appartengono a Lui: Dio è l’unico Maestro del tempo e pertanto sia l’inizio che la fine del tempo (passato, presente e futuro) sono Uno. Questo lo si può comprende poiché le due parole, “Reshìt” e “Akharìt”, sono all’interno di una stessa parola, Akhashveròsh, e ciò indica che i loro concetti separati (passato, presente e futuro) sono uniti.
Pertanto, dato che la Meghillà allude al fatto che il nome di Dio è Akhashveròsh, ne consegue che tutti i concetti della Meghillà sono legati a questa idea, ossia che passato, presente e futuro sono Uno. Anche un evento che è avvenuto nel passato, “Reshìt”, si applica al presente e al futuro “Akharìt”; e poiché sono scritti come una sola parola “Akhashveròsh”, deve applicarsi al presente e al futuro esattamente nello stesso modo in cui lo era in origine, all’”inizio”. Quindi non c’è contraddizione tra leggere e comprendere la Meghillà letteralmente (che racconta un evento nel lontano passato) e leggere la Meghillà come se fosse “nuova”. Perché nonostante accada “all’inizio” (passato), l’evento si estende anche alla “fine” (presente e futuro), come è accaduto originariamente: la sintesi di “inizio” e “fine” in un’unica parola, Akhashveròsh.
Questa è il significato della frase “questi giorni sono ricordati e conservati”. Quando leggiamo la Meghillà e “ricordiamo” tutti gli eventi del passato, dovremmo capire che si tratta di un modo per “conservarli”: il loro effetto è nuovo, come lo era in origine. In parole povere, ciò significa che proprio come Purìm in origine segna la trasformazione della guerra, il 13 di Adàr, in “luce e gioia, felicità e onore”, con la celebrazione di Purìm il 14 di Adàr, così avviene anche oggi. Ciò viene effettuato mediante il servizio di Purìm: la lettura della Meghillà e delle altre mitzvòt della giornata.
Quindi, quale evento del passato possiamo e dobbiamo preservare e ricordare come se fosse accaduto oggi?

Lezioni Eterne
Il miracolo di Purìm sembra iniziare dal capitolo relativo all’ira di Hamàn contro Mordekhai, che fu la ragione del suo decreto contro tutti gli ebrei, che portò al miracolo di Purìm. Perché allora la Meghillà ci racconta (in modo così dettagliato) gli eventi precedenti: il motivo dell’elezione di Ester a regina e la storia di Mordekhai “seduto alla porta del re”. A quei tempi questo non era un evento insolito. Troviamo altri esempi di ebrei, prima del tempo di Mordekhai, che erano consiglieri reali. Ad esempio, Daniel era il consigliere di Nabucodonosor.
Pertanto, dato che la Torà è scritta nello stile più conciso possibile, dobbiamo dire che questi eventi raccontati in grande dettaglio ci insegnano (oltre alla catena degli eventi raccontati nella Meghillà) lezioni di halakhà. Come spiegato sopra, la lettura della Meghillà è una lezione eterna.

La Festa del Re
Una delle lezioni della Meghillà viene dalla festa preparata dal re Akhashveròsh, durante la quale egli si assicurò che tutto fosse fatto “secondo il desiderio di ogni uomo”. Vale a dire che se Mordekhai l’Ebreo, o chiunque del suo popolo, fosse venuto alla festa, avrebbe avuto cibo e bevande kosher. Nonostante la potenza e la grandezza di Akhashveròsh e, nonostante, la posizione degli ebrei di essere “sparsi tra le nazioni” del suo regno, egli voleva assicurarsi che ci fosse cibo kosher per gli ebrei che volevano venire al banchetto.
La lezione che ne deriva a noi oggi è la seguente: un ebreo può pensare che quando si trova nella capitale di un paese, alla “porta del re”, cioè una posizione di influenza nel governo, non dovrebbe mostrare apertamente il suo essere ebreo. Non dovrebbe, chiedendo cibo kosher, dimostrare che la sua condotta è diversa da quella delle altre persone. Perché dovrebbe permettersi di “distinguersi”? Dato che in esilio il popolo ebraico è solo una piccola minoranza, dispersa tra le nazioni, perché ad esempio, per quanto riguarda la kasherùt, dovrebbe mostrare il suo ebraismo chiedendo cibi kosher, dimostrando così che non mangia il cibo di tutti gli altri. Perché toccare la sensibilità dei non ebrei mostrando che “la religione ebraica è diversa da quella di tutti i popoli?!”
La Meghillà ci insegna diversamente: anche quando un ebreo è nella capitale e sa che uno dei ministri è “Hamàn” che desidera fare del male agli ebrei, deve comunque mostrare apertamente la sua ebraicità e chiedere cibo kosher, “secondo il desiderio di ogni uomo!”.
Il desiderio di ogni uomo, infatti, è quello di dimostrare di essere un uomo integro. Se si vergogna di essere un “uomo”, si vergogna della sua identità. Lo stesso vale nel nostro caso: un ebreo deve essere orgoglioso della sua identità e non deve cercare di nasconderla.

Il Vincente Orgoglio Ebraico Ovunque
Dio lo ha creato ebreo, e quindi non si può mettere in discussione la sensibilità di nessuno agendo in conformità con il modo in cui è stato creato. E poiché i non ebrei sanno comunque che è ebreo, cercare di nasconderlo non servirà a nulla. Non solo non riceverà onore dai non ebrei, così facendo, ma questi lo considereranno un “truffatore” che cerca di nascondere la verità. In effetti, se il proprio desiderio è entrare nei “circoli giusti” e quindi avere successo “alla porta del re”, il modo per farlo è mostrare il proprio giudaismo. Quindi, anche quando si è seduti alla “tavola del re”, si deve chiedere che gli venga dato cibo kosher. Dio, il Re dei re, ha decretato che quando un ebreo agisce in questo modo, alla fine le sue richieste verranno soddisfatte.
La condotta sopra descritta è applicabile a tutti gli ebrei, indipendentemente dal fatto che si trovi nella “porta del re” della capitale o di un’altra città, o se sia semplicemente la “porta del re” di casa sua, il suo quartiere ecc. Un detto ben noto è che “la casa di una persona è il suo castello (palazzo)” – e quindi esiste una “porta del re” che riguarda la sua casa privata, scuola, quartiere, affari ecc. La Meghillà ci insegna che ovunque egli si trovi, un ebreo dovrebbe comportarsi apertamente secondo la sua religione. Solo, in questo modo egli avrà maggior successo in tutte le sue questioni, trovando anche il favore dei non ebrei.

Anima vs Corpo
Quanto sopra vale non solo per coloro che vedono la sua condotta, ma anche per la persona stessa. Ci sono alcune cose che una persona può cambiare, ad esempio, il suo aspetto esteriore, cambiando i vestiti; ma ve ne sono altre che è impossibile cambiare: la sua stessa essenza, la sua anima. Nonostante i suoi pensieri, le sue parole o le sue azioni, la sua anima donata da Dio rimane la sua essenza per tutta la vita.
È vero, una persona ha libera scelta nella condotta concreta (nel pensiero, nella parola e nelle azioni). Ma scegliere di comportarsi in modo sbagliato equivale a lottare contro la propria anima. L’anima è sempre in uno stato di purezza e di per sé non può sopportare cibo non kosher e comportamenti antitetici allo spirito dell’ebraismo. Quindi, se un ebreo sceglie la strada sbagliata e combatte contro la sua anima, sta creando una crisi di personalità: la sua anima lo tira da una parte e il suo corpo dalla parte opposta, il che causerà danni alla sua anima. E poiché l’uomo non può cambiare la sua essenza, la sua condotta deve essere consona alla sua anima, e allora l’anima lo aiuterà in tutte le sue attività. Avrà allora una personalità sana e armoniosa.

Contro Hamàn? No, per Hashèm
Coloro che sostengono che è impossibile ottenere qualcosa con i non ebrei se allo stesso tempo si mostra una condotta diversa dalla loro, dicono la stessa cosa del malvagio Hamàn! Hamàn sosteneva che gli ebrei non potevano comportarsi in modo tale che “la loro religione fosse diversa da quella di tutti i popoli”, pur essendo “diffusi e dispersi tra le nazioni”.
Questo è un paradosso, perché se ci riflettiamo bene, il pensiero di Hamàn è contraddittorio, poiché afferma da un lato che il popolo ebraico non poteva comportarsi in modo tale che “la loro religione fosse diversa da quella di tutti i popoli”; dall’altro che se il popolo si comporta in questo modo, non ha il diritto di vivere nel paese.
Ciononostante, ci dice la Meghillà, gli ebrei si comportarono come Mordekhai: “non si inchinò né si prostrò”, nemmeno alla “porta del re”. Gli ebrei, infatti, non si comportarono così solo per combattere contro Hamàn, ma per agire come ebrei in consonanza con la direttiva di Dio. E, pertanto, ogni volta che gli israeliti continueranno a comportarsi così, tutti gli incitamenti contro gli ebrei saranno solo temporanei e alla fine la verità trionferà. Come leggiamo nella Meghillà, che la condotta orgogliosa di una sola persona Mordekhai, questo gli fece guadagnare onore al punto che “il re tolse il suo anello ad Hamàn e lo diede a Mordekhai”.

Possa essere la volontà di Dio che la suddetta lezione della Meghillà permea la condotta di ogni ebreo. Ciò garantisce che anche in esilio ogni ebreo diventi un “deputato del Re”, ciascuno al proprio livello.
Che tutti noi possiamo ottenere le benedizioni di Dio, un aumento di “luce e gioia, letizia e onore” in questa festa di Purìm. E, come afferma il Talmud (Meghillà 6b), “un periodo di redenzione si avvicina a un altro” – immediatamente dopo la redenzione di Purìm, verrà la redenzione futura, di cui si afferma “come nei giorni della tua uscita da Egitto, ti mostrerò meraviglie”.

Tratto dai discorsi del Lubavitcher Rebbe, Rabbi Menachem M. Schneerson Purìm, 5742 (1982) 

LADRI SINCERI
Anche oggi vi proponiamo due brani estratti dal Libro “Saggezza Quotidiana”. La saggezza
chassidica del Rebbe e dei suoi predecessori permette a tutti noi di riuscire, con una certa facilità, ad
“assaggiare” l’aspetto nascosto della Torà.
I brani scelti per voi trattano alcuni insegnamenti che possiamo apprendere dai “sacrifici”. Agli occhi
dei più, il concetto stesso di “sacrificio”, inteso come offrire un animale, può sembrare una pratica
che poco o nulla a che fare con un percorso spirituale. Invece, la chassidut ci spiega come, anche oggi,
possiamo comprendere dal complicato sistema delle offerte del Tabernacolo molti insegnamenti utili
nella nostra quotidiana lotta per rivelare il divino in noi e in questo mondo di materia.
Conoscere il Nostro Animale Interiore
Il primo brano tratta di un concetto forse poco noto. Spesso siamo portati a credere che compiere
volontariamente, quindi consapevolmente, una azione sbagliata sia più grave di compierla
intenzionalmente. Spesso, infatti, siamo portati a credere che mettendo la nostra consapevolezza in
un determinato comportamento inappropriato, in qualche modo, lo rendiamo “più grave”. Questa idea,
da un certo unto di vista, è indubbiamente vera. Tuttavia, la Torà ci insegna che ogni cosa nella vita
andrebbe vista sotto diversi aspetti.
Compiere inconsapevolmente un’azione sbagliata, denota una mancanza di consapevolezza di quello
che esiste dentro di noi: una persona avara, che non sa di esserlo, potrebbe addirittura credere,
illudendosi, di essere generosa; oppure una persona poco rispettosa del prossimo, potrebbe illudersi
di essere fin troppo gentile ed educato con i colleghi di lavoro o con i membri della sua famiglia, ad
esempio.
Pertanto, la gravità dei misfatti involontari non consiste tanto nel fatto che l’azione commessa sia più
grave di una consapevole e volontaria, ma nel fatto di non conoscere una determinata mancanza o
difetto da cui scaturisce quel determinato comportamento sbagliato. Quindi, come possiamo
correggere qualcosa di cui non conosciamo l’esistenza?
Per questo la Torà prescrive un sacrificio appositamente destinato ad espiare i cosiddetti “peccati
intenzionali”, l’offerta di espiazione. La logica di questo è che non abbiamo bisogno di espiare il
misfatto stesso, poiché è stato fatto involontariamente. Invece, quello di cui abbiamo veramente
bisogno è espiare tutta la precedente condotta e il lassismo che ha plasmato il nostro sé interiore in
“qualcosa” i cui interessi sono contrari alla volontà di Hashèm e che spontaneamente e
involontariamente Lo respingono. Non a caso la parola ebraica utilizzata per indicare “il sacrificio”
o “offerta” è korbàn che significa “avvicinarsi”.
Restituire Cosa?
Il secondo brano è intimamente legato a quanto detto sopra. La Torà prevede che attraverso un certo
tipo di offerta, quella di “colpevolezza”, è possibile espiare il furto. Affinché questo sacrificio possa
espiare il peccato è necessario che il ladro restituisca prima l’oggetto che ha rubato. Questo gesto, la
restituzione del “malloppo” rubato, simboleggia il “pentimento”, la teshuvà che è indispensabile per
rettificare le nostre mancanze.
Restituire le cose rubate al loro legittimo proprietario, significa riorientare tutto ciò che è stato dato
alla “causa del male” e indirizzarla, restituirla, verso il Divino. Questa è l’essenza del pentimento:
riportare il mondo al suo naturale stato divino.
Tuttavia, questo fatto spiega più chiaramente la problematicità di quanto detto sopra, circa i “peccati”
involontari. Come possiamo, infatti, pentirci, ossia “restituire il mal tolto” se non sappiamo di essere
dei “ladri” di aver rubato qualcosa, ossia di aver peccato?
Da ciò possiamo imparare come uno dei lavori più importanti che dovremmo fare, per rettificare noi
stessi, è quello della conoscenza di noi: tirare fuori dal nostro subconscio tutto ciò che nascondiamo.
Occorre, infatti, riuscire ad essere sinceri e “leali”, prima di tutto con noi stessi, per quanto possa
essere doloroso e difficile ricordarci dei nostri limiti e mancanze. Solo in questo modo possiamo
veramente avvicinarci ad Hashèm attraverso la teshuvà.
Buon proseguo di lettura e un caro saluto a tutti voi.
Vayikrà
Sacrifici
Levitico da 1, 1 fino a 5, 26
Il Levitico, il terzo libro della Torà, contiene pochissima “azione”; poiché è principalmente dedicato
alle norme che regolano il rapporto tra Hashèm, Israèl e ogni singola persona. I primi due capitoli e
mezzo descrivono le procedure per offrire sacrifici. La prima parashà (sezione) del libro di Levitico
si apre con Hashèm che “chiama” (vayikrà in ebraico) Moshè, chiedendogli di entrare nel Tabernacolo
in modo da insegnargli alcune regole.
Vayikrà 4, 1–26
Successivamente alle procedure per le offerte di ascensione e di pace, Hashèm insegna a Moshè anche
quelle per le offerte di espiazione. Questi ultimi sacrifici sono destinati principalmente per i misfatti
non intenzionali.
Peccati Involontari
[Hashèm disse a Moshè] «Se una persona trasgredisce involontariamente». (4, 2)
La ragione per cui i sacrifici erano offerti per i misfatti non intenzionali è perché i nostri interessi e le
aspirazioni più profonde – così come le nostre aspirazioni e preoccupazioni più intime – sono rivelate
in modo specifico dalle nostre azioni impulsive. Attraverso queste azioni il nostro sé, “il subconscio”,
emerge involontariamente. Pertanto, non abbiamo bisogno di espiare il misfatto stesso, poiché è stato
fatto involontariamente. Invece, quello di cui abbiamo veramente bisogno è espiare tutta la precedente
condotta e il lassismo che ha plasmato il nostro sé interiore in “qualcosa” i cui interessi sono contrari
alla volontà di Hashèm e che spontaneamente e involontariamente Lo respingono.
In questa prospettiva, i nostri misfatti involontari giustificano una maggiore espiazione, rispetto a
quelli intenzionali, poiché i primi indicano che abbiamo un profondo attaccamento nel nostro
subconscio a un genere di comportamento contrario alla volontà di Hashèm. Invece, i misfatti
intenzionali e non quelli involontari, al contrario di quello che parrebbe logico, indicano che non
risentiamo di questo difetto nascosto.
*
Uno dei peccati espiati dall’offerta di colpevolezza è il furto. Affinché questo sacrificio possa espiare
il peccato, tuttavia, è necessario che il ladro restituisca prima l’oggetto che ha rubato.
Restituzione delle Merci Spiritualmente Rubate
[Hashèm disse a Moshè che se un ladro vuole espiare il suo peccato, offrendo un sacrificio per
espiare la sua colpa] Dovrà [prima] restituire l’oggetto che ha rubato. (5, 23)
Gli “articoli rubati” dal punto di vista spirituale sono tutto ciò che abbiamo “rubato” ad Hashèm con
il peccato a beneficio delle forze del male, sia che si tratti di un oggetto fisico, di un momento del
nostro tempo o di un nostro talento.
Il nostro compito nella vita è quello di restituire tutte le cose rubate in tutto il mondo al loro legittimo
proprietario, ossia riorientare tutto ciò che è stato dato alla “causa del male” verso il Divino; a
cominciare da ciò che noi stessi abbiamo “rubato” ad Hashèm con i nostri misfatti. Questa è l’essenza
del pentimento: riportare il mondo al suo naturale stato divino. Attraverso il pentimento è
ulteriormente possibile raggiungere livelli ancora più elevati di quelli che avevamo prima di peccare.

לעילוי נשמת אבי מורי ורבי ועטרת ראשי
יעקב בן שלמה ורחל
In memoria di mio padre Yaakov ben Shelomo

SACRIFICIO CON AUTOSTIMA

Andare Oltre Il SÉ

Un uomo d’affari di grande successo incontra il suo nuovo genero. “Amo mia figlia e ora ti do il benvenuto in famiglia”, disse l’uomo. “Per mostrarti quanto ci prendiamo cura di te, ti faccio socio con il 50%, della mia attività. Tutto ciò che devi fare è andare in fabbrica ogni giorno e controllare l’attività”.
Il genero lo interruppe dicendo: “Ma io odio le fabbriche, non sopporto il rumore”.
“Capisco!”, rispose il suocero. “Bene, allora lavorerai in ufficio e ne diventerai il responsabile.”
“Odio i lavori d’ufficio”, disse il genero. “Non posso sopportare di rimanere bloccato dietro una scrivania tutto il giorno”.
“Aspetta un minuto”, disse il suocero. “Ti ho appena fatto diventare comproprietario di un’attività per farti fare tanti soldi, ma tu cosa mi rispondi… che non ti piacciono le fabbriche e non vuoi lavorare in un ufficio. Che cosa dovrei fare di te?”.
“Facile”, disse il giovane, “dammi direttamente i soldi…”.
—–

Da Parte Di Te
La porzione della Torà di questa settimana, Vayikrà, regola le leggi dei sacrifici che costituivano una parte essenziale del servizio nel Tabernacolo e successivamente nel Tempio Santo di Gerusalemme. Sono passati quasi 2000 anni da quando il Tempio fu distrutto e i sacrifici animali terminarono, tuttavia il loro messaggio rimane senza tempo e pertinente, anche oggi.
E come spesso accade nello studio biblico, un apparente difetto grammaticale nasconde dimensioni psicologiche ed esistenziali inaspettate e stupefacenti.
“Parla ai figli d’Israele (Dio dice a Mosè all’inizio di Vayikrà) e dì loro: Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio; da una mucca, da un toro, e dalle pecore offrirai la tua offerta” (Vayikrà 1, 2).
La costruzione della frase sembra scorretta. Nella Torà avrebbe dovuto scrivere: “Un uomo tra voi che porterà un sacrificio a Dio”. Non: “Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio”!!!
Il rabbino Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), il primo Rebbe di Chabad e uno dei grandi giganti del Talmud e della Khassidùt e mistica ebraica, offrì la seguente toccante interpretazione: la Torà sta tentando di insegnarci, attraverso questa frase grammaticalmente “imperfetta”, che il sacrificio più importante che Dio ama non è quello che viene dagli animali o le offerte farinacee; ma piuttosto quello derivante dalla persona stessa: SACRIFICHERÀ TRA DI VOI. La volontà divina ci chiede principalmente di offrire qualcosa di PERSONALMENTE NOSTRO.
Il versetto, quindi, deve essere inteso in questo modo: “Un uomo che si sacrifica”, quando un individuo desidera di fare un sacrificio e avvicinarsi al Creatore, continua il verso, “in mezzo a te, un sacrificio a Dio”, lui o lei deve ricordare che il sacrificio primario deve essere portato da LUI STESSO: offrire un pezzo del proprio cuore e dell’anima ad Hashèm.

Un’Arte Dimenticata
Il sacrificio, inteso come il coraggio di abbandonare qualcosa di veramente prezioso per un ideale o una persona al di fuori di se stessi, è diventato, soprattutto ai nostri giorni, veramente inconcepibile. Nella mente di molti è una sorta di ‘parolaccia’ che evoca un dogma o un abuso. Il concetto di sacrificare qualcosa di sé è spesso visto come un ‘acerrimo nemico’ delle presunte virtù che sono diventate rilevanti per i nostri tempi: autoespressione, autoaffermazione e indipendenza emotiva.
Il sacrificio, ci viene spesso esposto come una stampella per le vittime insicure e dipendenti che eclissano la loro disfunzione emotiva attraverso il “mito eroico” del sacrificio. La base della psicologia moderna insegna che la felicità viene dal dare libertà e sfogo ai sentimenti interiori. Infatti, è importante combattere le forme di sacrificio che intaccano, e affermare le qualità della propria vita e la stima di sé. Il sacrificio che alimenta l’abuso e la tirannia non è una virtù. Una moglie maltrattata non dovrebbe tollerare il comportamento immorale del coniuge, come un dipendente maltrattato non dovrebbe tollerare il comportamento del proprio datore di lavoro in nome del sacrificio.
Dall’altra parte, nonostante la nostra ipersensibilità verso il perseguimento della libertà individuale e dell’autoaffermazione, il piano Superiore è di educare noi stessi e i nostri figli. Educazione che deve possedere la consapevolezza essenziale che VIVERE significa anche SACRIFICARE qualcosa di noi stessi per la verità, per Dio, per un altro essere umano, per il matrimonio, per i nostri valori, per rendere il mondo un posto migliore.
Nella dialettica secolare contemporanea, nessuno ci chiama a sacrificare qualcosa di veramente valido per qualcuno o per qualsiasi altra cosa. Ci è stato insegnato a essere gentili e cordiali, tolleranti e rispettosi, a dare qualche euro a un senzatetto per strada ed essere sensibili ai sentimenti degli altri. Tutte cose belle, ma che non ci insegnano a fare i VERI SACRIFICI, quelli che sfidano i nostri piaceri e che ci costringono a uscire dalle nostre zone di comfort e che, inevitabilmente, richiedono impegni profondi e incrollabili.
Eppure quando non combattiamo per qualcosa, per qualsiasi cosa, come facciamo a sapere chi siamo veramente? Quando non sentiamo il bisogno di rinunciare a nulla, di noi stessi, in che modo possiamo acquisire la profondità, la dignità e la maturità che sono fondamentali per raggiungere un obiettivo con sacrificio?
Quando guardiamo dentro alle scuole, alle università, alle istituzioni educative e persino in molte yeshivòt o famiglie di oggi, ci chiediamo se riescono a tirare fuori e coltivare la nobiltà d’animo, l’idealismo dei nostri giovani? Chi sta dando loro qualcosa per cui possono combattere? Stanno riscoprendo le loro profondità interiori o piuttosto le loro qualità più superficiali?
Quando viviamo una vita che non ha alcun sacrificio, la nostra umanità diminuisce. Diventiamo, ogni giorno, più superficiali e timidi. L’intero libro di Vayikrà, che tratta dei sacrifici, è la via ebraica per affermare che VIVERE, significa VIVERE per QUALCOSA.

Un ALTARE In Lacrime
Nessuna area della società è stata così profondamente influenzata da questo vuoto come l’unità familiare. In un passato, non molto lontano, il legame familiare era considerato come un qualcosa per cui valeva la pena sacrificarsi. Oggi, invece, questa idea è facilmente scartata quando è in conflitto con le nostre comodità personali. Le coppie, spesso, non sentono che il matrimonio è un’istituzione così ideale e sacra da dover fare dei veri sacrifici, perché funzioni e fiorisca. Spesso i giovani cercano “l’amore facile” e non quello solido e duraturo che nasce e cresce anche dalla nostra disponibilità al sacrificio.
1700 anni fa, il trattato del Talmud che disciplinava le leggi ebraiche per il divorzio fu trascritto. I saggi dell’antichità hanno scelto di inserire nel libro queste parole:
“Ogni volta che qualcuno divorzia dalla sua prima moglie, anche l’Altare del Santuario versa lacrime. Come afferma la Torà: “Tu hai causato che l’Altare di Dio sia coperto di lacrime, di pianto e di sospiri; così che Dio non si rivolge più alle offerte con buona volontà. E potresti chiedere: perché? Perché Dio ha reso testimonianza tra te e la moglie della tua giovinezza, che hai tradito, sebbene sia la tua compagna e la moglie della tua alleanza”.
Non si parla di tradimenti o simili, bensì solo di divorzio… ma perché un divorzio provoca lacrime nell’Altare del tempio? Il Tempio Santo di Gerusalemme aveva molti arredi e recipienti, come il candelabro, il tavolo dei pani, e naturalmente l’Arca Santa in cima alla quale erano scolpiti i volti di un bambino e una bambina che si guardavano l’un l’altro, a simboleggiare il rapporto tra Dio e l’uomo. Perché era SOLO l’Altare che piangeva e non gli altri oggetti del Santuario?
La spiegazione potrebbe essere questa:
L’Altare era il luogo nel Tempio dove venivano offerti tutti i sacrifici quotidiani di grano, vino e animali. L’Altare rappresentava l’assioma profondo, ma spesso dimenticato, che la relazione con Dio esigeva sacrificio di sé e della propria ricchezza. Per secoli, l’Altare è stato testimone silenzioso della profondità e dignità che caratterizzavano le vite fatte d’impegno e sacrificio. Giorno dopo giorno, l’Altare interiorizzava la VERITÀ ASSOLUTA: solo il sacrificio di sé conduce verso la realizzazione personale.
Quando l’Altare “osserva” un matrimonio in cui l’uomo e la donna non hanno il coraggio di fare sacrifici l’uno per l’altro, PIANGE, per la più grande delle opportunità perdute, per sempre.
Ci sono, naturalmente, delle eccezioni. A volte il divorzio è una tragica necessità. Quando gli abusi e le disfunzioni pervadono un matrimonio e non è possibile trovare alcun rimedio, la risposta giusta potrebbe essere il divorzio. Purtroppo, nella nostra epoca, molti divorzi avvengono, non a causa di una situazione impossibile, ma a causa della nostra riluttanza a trascendere il nostro ego, a sfidare le nostre paure e trascendere la nostra natura egoista. Per questo è proprio l’ALTARE a piangere.
Questa semplice verità così ben nota all’Altare è stata dimenticata da molti. Abbiamo paura di fare sacrifici, poiché temiamo che ci privino della nostra ILLUSORIA FELICITÀ. La nostra autostima è così fragile che sentiamo disperatamente il bisogno di proteggerla da qualsiasi intrusione esterna per paura che svanisca?
Ma la felicità è un “Altare”. PIÙ DAI, PIÙ RICEVI, non come la società moderna che vuole farci credere PIÙ RICEVI E PIÙ DAI.
L’anima è più in pace con se stessa quando si unisce profondamente con un’altra anima.
Perciò quando rinunciamo a tutte le forme di sacrificio, ci priviamo del raggiungimento delle nostre POTENZIALITÀ PIÙ PROFONDE.

SEDER DI PESACH A DACHAU!
Come Un “Rebbe” Ha Creato La Speranza Nelle Circostanze Più Difficili
27 MARZO 1945.
Sopravvissuto all’olocausto Solly Ganor, residente a Herzelia, Israele, ha scritto una storia favolosa su un seder di Pasach che ha vissuto 70 anni fa. Il seder ha avuto luogo il 27 marzo 1945 a Dachau, il famigerato campo di concentramento dei nazisti יש”ו.
All’epoca era un giovane, uno schiavo che lavorava nel campo della morte dove morirono centinaia di migliaia di ebrei.
Ecco come Solly ha raccontato la storia:
È la storia di un uomo che ha fatto la differenza anche mentre abitava nell’inferno nazista. Non sapevamo come si chiamava questo santo uomo. Lo conoscevamo solo come “Rebbe” (guida, maestro) che veniva dal Ghetto di Lodz e che prima di arrivare a Dachau era stato ad Auschwitz. Non abbiamo mai scoperto se era davvero un rabbino, ma comunque tutti noi lo chiamavamo: “Rebbe”. Forse, perché conosceva a memoria tutte le preghiere e ci aiutava sempre a mantenere la fede nel Creatore anche a Dachau.
Questo Maestro di Lodz organizzò la festa di Purim e quasi ci fece uccidere dalle guardie tedesche. Una sera, il “Rebbe” venne a trovarci nella nostra baracca.
Burgin, il responsabile ebreo di tutti i Kapò, gli diede il compito di seppellire i morti, una mansione molto impegnativa, poiché morivano sempre più prigionieri. Era un lavoro terribile, ma era meglio che portare cento sacchi di cemento sulle spalle ogni giorno. Il “Rebbe” si faceva chiamare “Chevra Kadishà” (organizzazione ebraica di uomini e donne che si prendono cura della preparazione e sepoltura di salme secondo la tradizione ebraica), poiché si occupava delle salme e diceva il “Kaddish” dopo ogni sepoltura, cosa che gli è valsa il nostro rispetto.
Tutti lo consideravano strano, ma era un uomo gentile e sorrideva sempre e in quel contesto tragico, era un motivo per pensare che fosse un po’ matto.
Nelle ultime settimane, la nostra situazione si era deteriorata. La zuppa acquosa che di solito ci preparavano a pranzo era diventata ancora più acquosa, la porzione giornaliera di pane era diventata ancora più sottile e sempre più di colore verde muffa. Più gli alleati si avvicinavano e più i sorveglianti tedeschi diventavano nervosi e crudeli, ci picchiavano in ogni occasione. Sapevamo che gli alleati erano da qualche parte in Germania, ma non sapevamo se saremmo riusciti a resistere fino alla liberazione del campo. Una sera, mentre eravamo seduti intorno alla piccola stufa di ferro della nostra baracca, cercando di riscaldarci, il “Rebbe” entrò. Puzzava di morto e noi conoscevamo bene quell’odore. Improvvisamente ci disse “Yidden, peisach kumt in tzvelf teg un men darf baken matze” – “Ebrei, Pesach arriverà tra dodici giorni, dobbiamo preparare le matzot” (ha parlato in un dialetto yiddish diverso dal nostro consueto yiddish con accento lituano, quindi a volte era difficile capirlo. Aveva anche la strana abitudine di chiamarci “Yidden”, invece che con il nostro nome).
Lo abbiamo guardato molto stupiti per questa pericolosa iniziativa. In realtà, dopo l’incidente avvenuto con il “Rebbe” a Purim, non eravamo troppo sorpresi del fatto che sarebbe venuto fuori con un’altra idea pazza.
Poi, dopo uno sguardo furbo, agitò l’indice verso di noi e ci disse: “Lasciate che vi dica Yidden; presto celebreremo non solo Yetziat Mitzraim MA ANCHE Yeztiat Deutschland” (“Presto celebreremo non solo l’esodo dall’Egitto, ma anche l’esodo dalla Germania”). Disse questo e poi fece una breve risata acuta.
Abbiamo pensato che la sua affermazione “Esodo dalla Germania”, invece della liberazione, fosse parte del suo strano comportamento. “Dalla tua bocca alle orecchie di Dio, ma come diavolo sai che Pesach è tra dodici giorni?” Chiese mio padre sorpreso.
“Lo so perché sono quattro giorni prima della fine di marzo!” Disse trionfante! La sua precisa conoscenza delle festività ebraiche per noi non aveva alcun senso. Noi che sapevamo a malapena che giorno fosse, figuriamoci se ricordavamo le date delle feste.
“E dov’è questo esodo che ci porterà dalla Germania, attraverso il Mar Rosso, verso la terra promessa?” Chiese Chaim ironicamente. “No, attraverseremo il Mediterraneo verso la terra promessa, giovanotto,” rispose tranquillamente il “Rebbe”. Ci siamo guardati l’un l’altro. Forse le sue idee non erano così pazze. Tutti noi pensavamo che, se fossimo sopravvissuti a quel purgatorio, l’unico posto rimasto per noi era la terra di Israele (conosciuta all’epoca come Palestina).
“Allora, che ne dici di un po’di farina? Preparerò le matzot e farò la benedizione giusta per renderle kosher “, disse, sfregandosi le mani. “Per l’amor di Dio, Rebbe, dove ti aspetti che prendiamo la farina? Qui siamo tutti affamati e per di più ci porti le tue idee folli”, disse uno dei prigionieri con voce irritata.
“Senti, se vuoi avere un esodo dalla Germania, dobbiamo avere le matzot”, disse, testardamente. “O non ci sarà un esodo dalla Germania,” disse, alzando il mento. Poi improvvisamente mi puntò il dito contro e disse: “Tu che lavori nelle cucine, portaci la farina!”
Lo guardai stupito. Mio padre si era davvero arrabbiato con lui e gli urlò contro. “Vuoi che mio figlio rischi la sua vita per rubare la farina dai tedeschi per le tue Matzot?”
“Per le nostre matzot”, disse il “Rebbe” con calma. “Tuo figlio è l’unico che può ottenere la farina.” Pensai alla cantina della cucina tedesca, dove erano conservati i prodotti alimentari. Non era solo chiusa a chiave, ma il cuoco era sempre in giro. Non potevo entrare in cantina, ma se avessi avuto questa possibilità, avrei “rubato” del cibo, per sopravvivere.
Il “Rebbe”, come se percepisse i miei pensieri, alzò la mano e disse: “Ho qualcosa che può aiutarti a ottenere la farina”, e tirò fuori da sotto l’ascella un piccolo straccio legato con un filo. Lo slegò con cura e tirò fuori due oggetti. Li mise sul palmo sinistro e me lo infilò sotto il naso. Mi ritrassi disgustato. Erano due denti maleodoranti con un po’ d’oro attaccato.
Eravamo tutti sbalorditi. Sapevamo tutti che seppelliva i morti. Quando vide i nostri sguardi sorrise. “Non è quello che pensate. Non ho preso nessun dente dai morti. Fu Zundel a darmelo prima che morisse. Gli ho promesso che avrei scambiato i denti con farina per fare le matzot per il Seder di Pesach. Non volete che io rispetti la promessa che ho fatto a un ebreo morente?” disse con sguardo forte.
“Non capite? Pesach è la festa della nostra libertà dalla schiavitù… non dobbiamo più essere schiavi dei nazisti. Sapete benissimo che questa potrebbe essere la nostra salvezza e la porta per il nostro esodo dalla Germania”.
Ottenere la Farina
Fino ad oggi, non so come ho accettato la pazza idea del Rebbe. Allora la religione era l’ultima cosa che passava nelle nostre menti, date le circostanze. In una certa misura, abbiamo accusato Dio di ciò che è successo agli ebrei in Europa. C’era una frase nell’Haggadà nel paragrafo VEHI SHEAMDA che ci irritava: “In ogni generazione i nostri nemici si alzano per distruggerci, ma l’Onnipotente ci salva sempre dalle loro mani.” Di certo, ora, non ci stava salvando tutti …
Il giorno dopo, ho portato i denti d’oro con me nella cucina tedesca, dove lavoravo. Il cuoco era un vecchio tedesco meschino che ogni giorno ci malediva mentre ci colpiva con il suo mestolo di ferro. Ma non ci ha mai fatto davvero del male. Come dovrei avvicinarmi a lui? Cosa dovrei dirgli? “Qui ci sono due denti d’oro estratti da un ebreo morto. Potresti darmi un po’ di farina per preparare alcune matzot per Pasach? “Probabilmente mi avrebbe consegnato alle SS per essere fucilato.
Più ci pensavo, più sembrava folle. Alla fine, ho deciso di abbandonare l’idea. Quando il cuoco mi ha visto mi ha detto: “Puoi iniziare a pulire la sala mensa e poi il bagno.” Il suo tono di voce era molto più mite del solito. Ho sentito una differenza nella sua voce. Mentre mi parlava, continuava a guardare il cielo. Improvvisamente uno squadrone di aerei da caccia americani tuonò sui tetti. Li ho visti girare verso i binari della ferrovia e ho sentito i loro cannoni sparare, seguiti da forti esplosioni. Devono aver attaccato un bersaglio vicino. È stato uno spettacolo incredibile e mi ha fatto saltare il cuore dalla gioia. Il cuoco quasi svenne per lo spavento e corse giù nella cantina dove era conservato il cibo. Gli corsi dietro, ma iniziò a gridare: “Fuori! Esci! Esci! Ti ho visto gongolare quando gli aerei sono arrivati”. Mi ha urlato.
Sono uscito rapidamente dalla cantina sperando che si calmasse un po’. Ho fatto un grosso errore facendolo arrabbiare. Poi l’ho chiamato e gli ho detto: “Avevo paura degli aerei, per favore perdonami”, ci siamo guardati l’un l’altro. Potevo vedere nei suoi occhi che entrambi stavamo pensando la stessa cosa: “Presto gli americani saranno qui”.
Fu allora che, improvvisamente, tirai fuori la storia della festa di Pesach e della farina per preparare le matzot. Era come se il “Rebbe” avesse preso il controllo della mia lingua e mi avesse fatto dire quelle cose. Poi aprii lentamente lo straccio che il “Rebbe” mi aveva regalato e gli allungai i due denti d’oro.
Per un po’ il cuoco mi guardò come se fossi impazzito. Poi ho intravisto come della gratitudine nei suoi occhi e improvvisamente mi domandò: “Era durante la Pasqua che il nostro salvatore Yashke (il fondatore del cristianesimo) sedeva con i suoi discepoli e mangiava il pane non lievitato nell’ultima cena? Il pane non lievitato è ciò che voi ebrei chiamano matzot?”.
È stato il mio turno di essere sorpreso. Sapevo che era un cattolico osservante dato che portava al collo sempre una croce e che gli ho visto fare il segno della croce più volte, quando gli aerei americani sono arrivati. Questa è stata una svolta del tutto inaspettata degli eventi.
Il cuoco continuò e disse: “Da bambini ci è stato insegnato che Yashke era sempre associato ai problemi del popolo ebraico. Ma se Yashske può aiutarci a ottenere la farina, la prenderemo…”
Stavo cominciando a sperare. Per un po’ guardò i denti d’oro, ma non li prese. Non mi ha detto altro, se non di ripulire la mensa e il lavatoio.
Prima di tornare al campo, è uscito dalla cucina e mi ha dato un piccolo sacchetto di carta pieno di farina bianca. “Penso che il nostro signore vorrebbe che tu abbia le matzot per le tue feste. Dopotutto era uno del vostro popolo. A volte lo dimentichiamo”.
“Non so perché mi ha dato la farina, forse avrebbe voluto che dicessi una buona parola per lui, all’arrivo degli americani, o forse lo fece solo per convinzioni religiose. Sta di fatto che non ha preso i denti d’oro. Qualunque fosse la ragione, il “Rebbe” aveva la sua farina e sulla piccola stufa di ferro e ora poteva cucinare dei piccoli wafer bianchi che ricordavano vagamente le matzot. Avevano dei piccoli buchi ed erano leggermente bruciati.
Il Seder Inizia
Era il 27 marzo 1945, quando il Rebbe portò le matzot e dichiarò che il Seder di Pesach avrebbe avuto inizio.
“Dei sette ingredienti necessari per condurre il Seder, ora ne abbiamo solo due. matzot e maròr, ma l’Onnipotente capirà” disse il nostro strano Maestro.
“Rebbe, dov’è il Maròr (erba amara) che hai menzionato?” Gli abbiamo chiesto. Ci ha guardato. “Le nostre vite in questo campo sono il maròr se non di più; tutte le nostre vite sono abbastanza amare per uscire d’obbligo del maròr”. Poi divise la matzà, ha diede a ciascuno di noi un pezzo e ci fece dire le benedizioni.
“Dato che sei il più giovane del gruppo, farai le quattro domande di ‘Ma nishtanà’. Con mia sorpresa, ne ricordai la maggior parte e cantai le domande con l’aiuto degli altri. Non abbiamo nascosto l’Afikomen, perché nel nostro campo non c’erano più i bambini. Tutti i fanciulli erano stati mandati ad Auschwitz nelle camere a gas, una immane tragedia, per noi, come vedere morire il futuro e la speranza, d’avanti ai nostri occhi.
Dovevamo andare a lavorare il giorno dopo, eravamo affamati e stanchi morti, ma quella notte di Pesach, ci unimmo al “Rebbe” con una specie di Seder. Ricordava a memoria la maggior parte dell’Haggadà; così ha fatto mio padre che aveva studiato in una yeshiva quando era un ragazzo. Alcuni partecipanti conoscevano alcune parti della Haggadà. Tutti si unirono per dire le benedizioni, ma eravamo addormentati prima che il “Rebbe” finisse di cantare l’Haggadà. Mi sono ricordato vagamente di aver cantato Chad Gadyà.
Alla fine, fece una breve preghiera in yiddish: “Per favore, perdonaci, Oh Signore dell’Universo, per aver condotto un servizio di Pesach così povero, ma era il meglio che potevamo fare, e per favore liberaci, o Signore, dalle mani dei nostri nemici che si sono levati, ancora una volta, in questa generazione per distruggerci”.
Che cosa devo dirvi? Ci siamo sentiti tutti come se fossimo lì a “Yetziat Mitzraim” (l’Esodo egiziano) e abbiamo creduto al “Rebbe” che saremmo stati anche noi nell’ “Yetziat Deutschland” (l’esodo tedesco).
Mi ha svegliato prima che se ne andasse e mi disse: “Meriti una benedizione speciale per aver portato la farina per le matzot. Sarai tra coloro che celebreranno presto l’esodo dalla Germania alla Terra Santa”.
Circa un mese dopo, la guerra era finita e siamo stati salvati dall’esercito americano. Era il 2 maggio 1945.
Seder Veste Moderna
Viviamo oggi in tempi molto diversi. Eppure continuiamo a raccontare la stessa storia del “Rebbe” e degli ebrei di Dachau. La loro storia, la nostra storia collettiva, ci ispira ancora.
Ogni anno, quando arriva Pesach, mi pongo la domanda: come posso trasformare il mio Seder in un’esperienza così significativa da provocare un cambiamento radicale, come dovrebbe essere?
La festa di Pesach, che commemora l’esodo del popolo ebraico dalla terra d’Egitto, 3.329 anni fa (nell’anno 1313 a.C.), riflette la liberazione dell’anima dai vincoli psicologici ed emotivi rappresentati dall’Egitto.
Cos’è l’Egitto? Il termine ebraico per l’Egitto (Mitzrayim) può essere tradotto come “inibizioni” o “restrizioni”. Tutti noi lottiamo con varie inibizioni interne ed esterne che soffocano la nostra crescita e ci impediscono di massimizzare il nostro potenziale. Potremmo essere paralizzati dalla paura, dalla vergogna, dalla colpa, dal risentimento, o dalle varie dipendenze. Ci può mancare la capacità di amare, di sognare, di piangere e di lasciare andare le nostre difese, o possiamo essere schiavizzati da impulsi insalubri e sentimenti di invidia, animosità e amarezza.
Spesso, la nostra ebraicità interiore, la RELAZIONE INTIMA e assoluta con il Padrone dell’universo, è ridotta in schiavitù. È ancora lì, ma non sappiamo come accedervi.
In questo senso, siamo tutti, chi più chi meno, in un altro tipo di “Egitto” e l’esperienza del Seder presenta, a ciascuno di noi, l’opportunità di lasciare il nostro Egitto personale e intraprendere la strada verso la redenzione.
Durante il Seder, dobbiamo aprire i nostri cuori e accogliere l’energia divina della liberazione che inizia a vibrare nel cosmo dalla vigilia di Pesach. Al fine di diventare pienamente NOI STESSI, pienamente umani, completamente ebrei.
Reclamare I Propri Genitori
Il Talmud dice, ed è citato nell’Haggadà, che “Una seconda coppa viene versata e ora il bambino domanda il Ma Nishtanà”.
Le parole talmudiche “ora il bambino domanda” (“Vekan Haben Shoel”) possono anche essere tradotte come “ora il bambino può prendere in prestito”.
Non tutti hanno avuto il privilegio di crescere con dei genitori. Alcuni sono rimasti orfani in giovane età; altri potrebbero aver avuto genitori fisici, ma psicologicamente instabili. Alcuni di noi hanno avuto il privilegio di avere genitori amorevoli che sono passati “all’altro mondo”.
In tutti i casi sopra riportati i bambini sono stati lasciati indietro, con un “vuoto” nei loro cuori. Ecco che durante il Seder vi è un momento in cui “il bambino può prendere in prestito” un padre e una madre.
In questo momento della vita, nostro padre in cielo apre la camera dell’amore incondizionato e della crescita sconfinata, attraverso la quale possiamo rivendicare la fiducia e la sicurezza di cui abbiamo disperatamente bisogno. Ora il bambino ha il permesso di fare tutte le domande, che normalmente non potrebbe mai chiedere, può dichiarare: “Padre, voglio farti quattro domande”.
GLI SCHIAVI NON FANNO DOMANDE. SOLO GLI UOMINI E DONNE LIBERI possono domandare. Non solo perché sentono di avere il diritto di chiedere, ma anche perché non temono risposte che possano metterli alla prova e magari anche trasformarli.
Dachau Oggiogiorno
Oggi per Maròr usiamo vere erbe AMARE. Grazie a Dio non abbiamo la vita amara come a Dachau!!! Purtroppo quando le cose vanno bene, spesso tendiamo a sentirci a nostro agio e pensiamo che siamo autosufficienti .
Il Talmud paragona la vita alla ruota che sale e scende. Al giorno d’oggi possiamo paragonare la vita alle montagne russe, dove si sale e si scende. Anche la discesa non è così grave perché è un modo per prendere velocità per risalire di nuovo.
Sicuramente al Seder di Dachau i partecipanti hanno mangiato la più gustosa e fragrante matzà della loro vita.
Sicuramente gran parte dei nostri problemi di autostima e depressione loro non li avevano, perché avevano problemi di sopravvivenza da superare in ogni istante.
Quando mangiamo il maròr che ci sembra amaro ricordiamoci che c’è un “VERO AMARO” molto più bruciante e che grazie a Dio non dobbiamo sfidare in ogni istante…
Quando nella vita ci capitano delle apparenti amarezze, non lasciamoci dominare da esse e farci rovinare la nostra felicità CHE È IL PIÙ GRANDE DONO CHE DIO CI HA DATO.
La nostra vita è come le montagne russe dove anche le discese servono per salire di nuovo da un’altra parte. Solo la discesa ci può far maturare, attraverso il bisogno e la spinta di una nuova salita.
Anche la nostra storia ha avuto delle montagne russe e delle cadute penose come in Egitto o a Dachau ma adesso stiamo salendo e saliremo sempre di più. Non possiamo permettere che nostri, relativamente piccoli, problemi del terzo millennio ci rubino il sorriso o ci distolgano dalla nostra missione in questo mondo.
Ogni anima in questo mondo deve riflettere sul fatto che se è stata mandata qui solo per migliorare questo mondo e renderlo idoneo alla rivelazione infinita di Hashem.
Come dice il Rebbe YHM che il giorno del mio compleanno è il giorno dove DIO HA DECISO CHE IL MONDO NON PUÒ SOPRAVVIVERE SENZA IL MIO CONTRIBUTO, per questo il Padre Eterno mi ha mandato qui per perfezionarlo.
Speriamo presto di vedere il frutto del nostro operato e la imminente rivelazione di Mashiach presto nei nostri giorni, amen.
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Dedicato in onore del compleanno del Rebbe di Lubavitch YH 11 di Nissan 5781 mio maestro e la guida della nostra generazione, che cade il prossimo mercoledì 24 Marzo.
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Strada Lunga Ma Corta
La vita è fatta di tanti bivi. Come la famosa storia Talmudica di Rabbi Yehoshua che chiede a un bambino quale fosse la strada più corta per raggiungere la città.
Il bimbo gli dice: la strada a sinistra è corta ma più lunga, mentre quella a destra è lunga ma più corta.
Il grande maestro prende la via corta, ma viene bloccato da un muro di spine. Perciò torna indietro e chiede al ragazzino come mai gli aveva indicato che quella era la strada più corta? Questo gli risponde in effetti è più corta, ma anche più lunga, perché è molto difficile raggiungere la meta per via degli ostacoli.
Mentre l’altra strada è più lunga e bisogna scalare la montagna, ma si arriva sani e salvi alla meta. Perciò è una strada PIÙ LUNGA MA CHE È PIÙ CORTA.
La nostra strada è fatta di continui bivi, la società ci spinge, sempre di più, verso le “scorciatoie” che in realtà sono strade bloccate che non portano a destinazione.
Questa parabola dovremmo inciderla nella nostra mente e ricordarci sempre che spesso la strada più lunga è quella più corta. Ad esempio quando ci sacrifichiamo per la pace coniugale, non dobbiamo vedere questa cosa come una perdita di autostima e debolezza personale. Mettere da parte se stessi per un “bene superiore”, come il matrimonio significa avere una forza dello spirito che ci fa ottenere l’armonia in casa. Mettere da parte il proprio ego che, la causa di tutti i problemi, è solo APPARENTEMENTE la STRADA PIÙ LUNGA e faticosa, ma invece è la strada più corta per avere una vita equilibrata e serena.

La parashà di questa settimana ci invita a fare questa domanda: quando è stata l’ultima volta che ho fatto un VERO sacrificio?

Un aneddoto del Rebbe può aiutarci a capire meglio.
Una volta un ebreo osservante andò a chiedere aiuto e consiglio al Rebbe e gli disse: “Quando studio la Torà, prego o faccio le mitzvòt, soffro, perché non ho voglia e spesso sono distratto e penso ad altro”. Il Rebbe sorprendentemente gli rispose: “Beato te! A me invece piace studiare la Torà e fare le mitzvòt…!”.
L’uomo ovviamente rimase molto sorpreso di questa risposta. Tuttavia il Rebbe, come sempre, gli ha e ci ha dato un insegnamento di vita importantissimo. Sacrificarsi per qualcosa, vincere il nostro “istinto al male” è un modo per servire Hashem, per offrire in sacrificio il nostro “animale interiore”, per elevare il male in bene. Attraverso lo studio della Torà le mitzvòt e più in generale adempiendo i precetti, acquisiamo quei buoni tratti del carattere che ci permettono di sottometterci a una volontà superiore, quella divina. Questo può accadere solo attraverso l’offerta del nostro SÉ, fatto di tante grandi e piccole abitudini, vizi e piccoli egoismi.
Quando l’uomo dimentica le regole del mondo e non si educa con le buone allora va educato con le “cattive maniere” purtroppo. Ci troviamo in un periodo strano ma molto istruttivo dove impariamo a valorizzare la famiglia, a fare dei sforzi per stare insieme chiusi in casa e imparare che l’amore non bisogna cercarlo fuori casa e che bisogna sacrificarci per lasciare spazio alla famiglia.
Speriamo che questo periodo difficile sia “l’ultimo esame per la maturità” che ci manca per completare la rettificazione di questo mondo e permettere l’arrivo di Mashìakh presto ai nostri giorni, Amen.
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Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.
Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
Virtual Yeshiva
se il talmid non va dal rabbi, il rabbi va dal talmid!

500 Shiurim online divisi per argomenti.
Non perdere l’appuntamento con la parash・ mistica e psicologia nella Tora
Per informazioni: www.virtualyeshiva.it
VAYIKRA
Al seguente link troverai la lezione sulla nostra parashà in formato mp3:
Dal seguente link si scarica il file audio immediatamente, senza aprire la pagina web:

www.virtualyeshiva.it/files/11_03_08_vayikra5771_anima_corpo_zoppo_cieco.mp3

per vedere il video della lezione cliccare qui:
https://vimeo.com/20879022

LA KABBALÀ DEGLI SCACCHI

Perché solo il “pedone”, il pezzo maggiormente limitato,

può raggiungere il massimo e diventare regina?

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Virtual Yeshiva non ha nessun finanziatore pubblico.
Virtual Yeshiva non fa pagare nessuna iscrizione al sito perche’ vogliamo che la Tora sia accessibile a tutti. Aiutando Virtual Yeshiva potrete diventare soci nella diffusione della Tora. Sul seguente link puoi trovare come mandare una donazione
http://www.virtualyeshiva.it/voglio-aiutare/La lezione approfondisce questi punti, attingendo da fonti midrashiche, testi di mistica ebraica e khassidici, in una cornice unica, chiara e comprensibile per tutti, alla luce degli insegnamenti dei grandi Maestri dell’ebraismo.
Per sentire le altre lezioni sulla parashà:
http://www.virtualyeshiva.it/2016/03/13/vayikra-5773-sette-lezioni/

AMORE NON PLATONICO!

Qual è l’errore di Platone che è agli antipodi della fede ebraica?

L’occidente e la visione ebraica: due pianeti opposti!

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Per sentire le altre lezioni sulla parashà:
http://www.virtualyeshiva.it/2016/02/28/vayakhel-5774-sei-lezioni/
TELEFONO DI 3000 ANNI FA
“Quando un uomo tra di voi offre un sacrificio – korbàn ad Hashèm…” (Lev. 2)
Rabbi Shimshon Rephael Hirsch commentava così questo versetto: È estremamente spiacevole che noi non disponiamo di una parola che sia davvero in grado di riprodurre il concetto sotteso al termine ebraico “korbàn”. L’infelice utilizzo della parola italiana “sacrificio” implica, infatti l’idea di rinunciare a qualcosa, che per qualcuno rappresenta un valore, a beneficio di un altro. Inoltre, la sottintesa idea di “offerta” non rende affatto tale parola un’espressione adeguata per tradurre il termine “korbàn”. L’idea di un’offerta, infatti presuppone piuttosto un desiderio da parte di colui al quale è condotta che viene soddisfatto da essa, la quale è come un dono.
Più in generale la parola ebraica viene usata esclusivamente in riguardo alla relazione dell’uomo con l’Onnipotente e il suo significato può essere compreso solo prendendo in considerazione la sua radice “karòv”, che significa approssimarsi, avvicinarsi e anche instaurare un rapporto stretto con qualcuno.
Lo scopo della hakravà, “avvicinarsi” è il raggiungimento di una sfera di vita più alta. Colui che porta il korbàn desidera che qualcosa di sé divenga in relazione più stretta con l’Onnipotente e la procedura attraverso la quale questa maggiore vicinanza all’Onnipotente si può realizzare è chiamata “hakravà”.
La vicinanza ad HASHÈM è l’unica e la più alta concezione di cosa è “buono” (cf. Tehillìm, Salmi 73, 28). La vera felicità nella vita dipende dalla vicinanza all’Onnipotente, nei cui vestiboli i problemi esistenziali si risolvono da soli. La gioia di vivere cresce e diminuisce in proporzione alla nostra vicinanza o lontananza rispetto a Lui. Ogni ricchezza perde la sua attrattiva se implica estraniamento dall’Onnipotente, mentre persino la sofferenza stessa può divenire felicità elevata in Sua prossimità per coloro che hanno raffinato le loro menti nelle camere del Santuario, al fine di acquisire la consapevolezza della vera felicità.
“Hot Line” A Porte Chiuse
Da quanto sopra riportato (Rabbi Shimshon Rephael Hirsch), la parola korbanòt, contiene la parola karòv, che significa “vicino”. Un korbàn, quindi è un mezzo per avvicinarsi a Hashèm, supplicando il perdono divino o dimostrando apprezzamento per l’aiuto ricevuto e, di conseguenza, portando la persona più vicina alla santa Shekhinà (Presenza Divina).
Tuttavia, adesso che abbiamo capito quale è il significato reale dei korbanòt, “sacrifici”, dovremmo chiederci qual è il loro scopo? A cosa servono? E soprattutto come ci aiutano, in concreto, nella nostra vita di tutti i giorni, in questo turbolento mondo?
Un carrettiere trasportava sul suo carro un maestro di Torà in direzione della città. Il cielo si faceva buio quando il carrettiere si arrestò improvvisamente. Il saggio lanciò un’occhiata fuori dal finestrino e notò che il guidatore era sceso dal carro e si stava avvicinando a un campo vicino. Incontrando lo sguardo del saggio, il guidatore disse: “Per favore, avvertimi se vedi che qualcun altro guarda”.
Poi camminò in punta di piedi verso il campo e, davanti agli occhi esterrefatti del saggio, cominciò a raccogliere frutti che appartenevano al proprietario del campo.
Il carrettiere aveva appena cominciato ad ammucchiarli quando udì il saggio che lo chiamava insistentemente: “Torna indietro! Svelto, veloce! Qualcuno ti sta guardando!”
Il carrettiere, allarmato, lasciò cadere la frutta e si affrettò a tornare al carro. Uscì dalla scena il più velocemente possibile. Dopo alcuni minuti trascorsi senza fiato, si rivolse verso il saggio e sorrise: “Grazie per avermi messo in guardia.
Se il proprietario mi avesse colto sul fatto, per me sarebbe stata la fine”.
“Oh, il fittizio proprietario del campo non stava guardando, ma il VERO proprietario lo stava facendo” spiegò il saggio rivolgendo il dito verso il cielo, “e se tu avessi preso la frutta, ti saresti certamente cacciato in un bel guaio!”.
Oggi, dal momento che ci troviamo tragicamente a essere privi del Santuario, non siamo in grado di offrire korbanòt sfortunatamente. Tuttavia ci è stato concesso un metodo alternativo per esprimere il nostro contributo e la nostra gratitudine si realizza attraverso la preghiera. Le nostre preghiere oggi sostituiscono, in tutto e per tutto, gli scopi principali per i quali, un tempo, erano stati istituiti i korbanòt.
Esse servono come testimonianza per il fatto che noi riconosciamo il dominio di Hashèm sul mondo e ci permettono di chiedere il Suo aiuto. Grazie alle preghiere, quando ci rivolgiamo ad Hashèm, lo facciamo con la consapevolezza che Egli è dovunque e che le sentirà a prescindere da dove noi possiamo trovarci. Le nostre preghiere – tefillòt ci forniscono un collegamento spirituale diretto con il Creatore e ci conferiscono la nostra personale “hot-line” con l’Onnipotente.
Questa era la teoria già esposta da quel saggio al quale, un secolo fa, fu riferito di una nuova invenzione chiamata telefono, tramite cui uno può parlare con un altro anche se si trova molto distante e senza nemmeno vederlo.
“Cosa c’è di così innovativo in questo?” commentò il saggio. “Io sono in contatto con Hashèm allo stesso modo da anni e anni attraverso le mie preghiere”.
Ricordandoci sempre, attraverso le nostre preghiere, che Hashèm si trova dovunque, possiamo risparmiare a noi stessi le insidie di molti peccati, poiché non esistono porte chiuse o luoghi che possano sottrarci alla vista di Hashèm! Come ci ricordano gli splendidi versetti del Salmo 139:
 “Dove posso andare lontano dal tuo spirito? E dove posso fuggire dalla Tua presenza? (7)
Se salgo in cielo, Tu sei là; se giaccio nella tomba, ecco, ti trovo là! (8)
Se prendessi le ali dell’aurora, se dimorassi al di là dell’oceano, (9)
anche laggiù mi guiderebbe la Tua mano e la Tua destra mi afferrerebbe. (10)
Se io dicessi ‘Le tenebre sicuramente possono nascondermi’, allora attorno a me la notte diverrebbe luce. (11)
Neppure l’oscurità può nascondermi da Te: la notte sarebbe luminosa come il giorno, il buio e la luce sarebbero la stessa cosa. (12)
Speciale Purìm
Siamo in prossimità di Purìm. Questa festa ci ricorda la vittoria del popolo ebraico su coloro che tentarono di sterminarlo, la svolta repentina dalla sconfitta alla vittoria, nell’arco di un breve lasso di tempo. Per quanto possiamo sentirci una minoranza, poco numerosa, dobbiamo nondimeno realizzare che il nostro destino è di prevalere su coloro che preferirebbero piuttosto vederci scomparire.
Come ci dimostra la storia, imperi grandiosi sono sorti – i Babilonesi, Greci, Romani, il Terzo Reich, l’Unione Sovietica ecc. – che hanno voluto spazzare via Israèl. Ma chi è ancora qui?! Quegli imperi non ci sono più al massimo è rimasta la Russia ma non la dittatura comunista, invece il “popolo testardo”, gli Ebrei, continuano a vivere in ogni tempo e in ogni luogo.
Secondo la halakhà, se una persona legge la Meghillà (la storia di Purìm) “al contrario” dalla fine all’inizio, non adempie alla mitzvà .
Il Baal Shem Tov, fondatore del chassidismo, spiega che chi la legge al rovescio – ovvero come se fosse solo un libro di storia, qualcosa del passato – non esce d’obbligo. Questo perché, come tutte le parti della Torà, la Meghillà è rilevante per ogni tempo e ogni luogo.
Qual è la lezione che impariamo dalla Meghillà?
La lamentela di Hamàn contro gli Ebrei era che “c’è un popolo che, benché disperso tra i popoli del mondo… le sue leggi sono differenti da quelle degli altri popoli”,
ossia “nonostante sia disperso in tutto il mondo, il popolo ebraico ha sempre preservato, e continuerà a preservare, la sua identità distintiva tramite il mantenimento delle tradizioni e delle proprie leggi”.
Hamàn usò quest’argomentazione contro di noi, invece è questa grande qualità che ha lavorato a nostro favore, permettendoci di sopravvivere. Inoltre, come può testimoniare la nostra generazione, più viviamo alla “luce del sole” la nostra identità ebraica, più rispettiamo la nostra particolare e unica eredità – possibilmente condividendola anche con gli altri – più siamo rispettati dalla società.
C’è un interesse senza precedenti oggi per tutte le cose ebraiche, sia negli ambienti ebraici, che al di fuori di essi.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare mai, quali sono le nostre più importanti fondamenta per il presente e per il futuro: nostri figli.
Nel Midràsh è scritto che quando Mordekhai sentì del perfido piano di Hamàn, egli riunì i bambini e cominciò ad istruirli. Solo attraverso l’educazione dei nostri figli, noi garantiamo la nostra continuità.
Il Midràsh ci racconta che quando la Torà fu data sul Monte Sinai, il popolo fece un voto che “i bambini sarebbero stati i nostri garanti”. Quando Mordekhai insegnò ai bambini al tempo di Purìm, egli stava realizzando questa promessa. Ora, anche oggi, attraverso l’educazione dei bambini, quella “garanzia” ridiventa una realtà, la nostra realtà.
È tutta questione di “Conoscenze”; nella storia di Purìm Ester diventa la Regina e Mordekhai raggiunge una posizione di influenza. Tuttavia essi non si sono affidati solo a queste conoscenze nella loro ricerca della salvezza. Ester invitò, infatti gli Ebrei a digiunare e pregare. Noi vediamo che non c’è niente di male nel ricercare influenza e “conoscenze”, ma dobbiamo sempre ricordarci che davvero ogni cosa dipende da Hashèm, Egli è la “conoscenza ultima”, la più importante, come ci dimostra la storia.
Questa consapevolezza, alla fine annullò il decreto di sterminio: Mordekhai prima ed Ester poi, compresero come dietro alla figura del Malvagio Hamàn, l’Amalèk di quella generazione, c’era – come in tute le cose in questo universo – la mano di Hashèm. Come dice il Talmùd: nessuno può alzare la mano qui in basso, se non gli è stato consentito dal cielo di fare questo.
Quindi dove si rivolse il loro agire? Ovviamente cercarono di contattare e parlare con il “capo”. Come un uomo d’affari che va in un’azienda a concludere un affare cerca il titolare, quello che decide – poiché sa benissimo che sarebbe inutile parlare con l’usciere – cosi è nella storia di Purìm. Essi si rivolsero direttamente al “Capo dell’azienda” HASHÈM attraverso lo strumento da Lui creato per “contattarlo”, LA PREGHIERA, il nostro korbàn odierno.
Così come allora, anche oggi dovremmo cercare tutti i giorni di avvicinarci a Dio. Possiamo e dobbiamo chiedergli tante cose: sostentamento, salute, felicità per i nostri figli, nostra moglie, marito amici, ecc. ma riserviamo anche un momento nella giornata per chiedere un qualcosa a beneficio nostro e per tutta l’umanità:
l’arrivo di Mashìakh che è imminente, ora ai nostri giorni, Amen.
Usanze di Purìm:
Meghillà di Estèr: la storia che si legge a Purìm, sia la sera (quest’anno mercoledì sera 20 marzo) sia durante il giorno (giovedì mattina 21 marzo).
Donare denaro ai poveri: come menzionato nella storia della Meghillà
Seudà: consumare un pasto festivo durante il giorno (quest’anno venerdì 21 marzo). Mishlòakh Manòt (mandare doni agli amici): la fonte si trova nella Meghillà dove si dice che Mordekhai e Ester istituirono questa pratica. Essi desideravano ricordare agli Ebrei che anche durante la celebrazione della loro miracolosa salvezza devono pensare agli altri. Bisogna dare un dono almeno ad un amico di almeno due generi di cibi o bevande pronti da consumare.

La porzione della Torà di questa settimana, Vayikrà, regola le leggi dei sacrifici che costituivano una parte essenziale del servizio nel Tabernacolo e successivamente nel Tempio Santo di Gerusalemme. Sono passati quasi 2000 anni da quando il Tempio fu distrutto e il sistema sacrificale finì, tuttavia il loro messaggio rimane senza tempo e pertinente, anche oggi.
E come spesso accade nello studio biblico, un apparente difetto grammaticale nasconde dimensioni psicologiche ed esistenziali inaspettate e stupefacenti.
“Parla ai figli d’Israele (Dio dice a Mosè all’inizio di Vayikrà) e dì loro: Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio; da una mucca, da un toro, e dalle pecore offrirai la tua offerta” (Vayikrà 1, 2).
La costruzione della frase sembra scorretta. Nella Torà avrebbe dovuto scrivere: “Un uomo tra voi che porterà un sacrificio a Dio”. Non: “Un uomo che sacrificherà tra di voi un sacrificio a Dio”!!!
Il rabbino Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), il primo Rebbe di Chabad e uno dei grandi giganti del Talmud e della Khassidut e mistica ebraica, offrì la seguente toccante interpretazione: la Torà sta tentando di insegnarci, attraverso questa frase grammaticalmente “imperfetta”, che il sacrificio più importante che Dio ama non è quello che viene dagli animali o dal grano; ma piuttosto quello derivante dalla persona stessa: TRA DI VOI. La volontà divina ci chiede principalmente di offrire qualcosa di PERSONALMENTE NOSTRO, qualcosa di VERO.
Il versetto, quindi, deve essere inteso in questo modo: “Un uomo che sacrifica”, quando un individuo cerca di fare un sacrificio, continua il verso, “di mezzo a te un sacrificio a Dio”, lui o lei deve ricordare che il sacrificio primario deve essere portato da LORO STESSI: offrire un pezzo del loro cuore e della loro anima a Dio.

Il sacrificio, inteso come il coraggio di abbandonare qualcosa di veramente prezioso per un ideale o una persona al di fuori di se stessi, è diventato, soprattutto ai nostri giorni, una “razza in via di estinzione”. Nella mente di molti è una parolaccia che evoca un dogma e abuso. Il concetto di sacrificare qualcosa di sé è spesso visto come un acerrimo nemico delle presunte virtù che sono diventate rilevanti per i nostri tempi: autoespressione, autoaffermazione e indipendenza emotiva.
Il sacrificio, ci viene spesso esposto come una stampella per le vittime insicure e dipendenti che eclissano la loro disfunzione emotiva attraverso il “mito eroico” del sacrificio. La base della psicologia moderna insegna che la felicità viene dal dare libertà e sfogo ai sentimenti interiori.
È ovviamente importante combattere le forme di sacrificio che intaccano, piuttosto che affermano, le qualità della propria vita e la stima di sé. Il sacrificio che alimenta l’abuso e la tirannia non è una virtù. Una moglie picchiata o un dipendente maltrattato non dovrebbe tollerare il comportamento immorale del coniuge o del datore di lavoro in nome del sacrificio.
Dall’altra parte, nonostante la nostra ipersensibilità, verso il perseguimento della libertà individuale e dell’autoaffermazione, educhiamo noi stessi e i nostri figli nella consapevolezza vitale che VIVERE significa anche SACRIFICARE qualcosa di noi stessi per la verità, per Dio, per un altro essere umano, per il matrimonio, per i nostri valori, per rendere il mondo un posto migliore.
Nella contemporanea dialettica secolare, nessuno ci chiama a sacrificare qualcosa di veramente valido per qualcuno o per qualsiasi altra cosa. Ci è stato insegnato a essere gentili e cordiali, tolleranti e rispettosi, a dare qualche euro a un senzatetto per strada ed essere sensibili ai sentimenti degli altri. Tutte cose belle, ma non ci insegnano a fare i VERI SACRIFICI, quelli che sfidano i nostri piaceri che ci costringono a uscire dalle nostre zone di comfort e che, inevitabilmente, richiedono impegni profondi e incrollabili.
Eppure quando non combattiamo per qualcosa, per qualsiasi cosa, come facciamo a sapere chi siamo veramente? Quando non sentiamo il bisogno di rinunciare a nulla, di noi stessi, in che modo possiamo acquisire la profondità, la dignità e la maturità che sono fondamentali per raggiungere un obiettivo con sacrificio?
Quando guardiamo dentro alle scuole, alle università, alle istituzioni educative e persino in molte yeshivot o famiglie di oggi, ci chiediamo se riescono a tirare fuori e coltivare la nobiltà d’animo, l’idealismo dei nostri giovani? Chi sta dando loro qualcosa per cui possono combattere? Stanno riscoprendo le loro profondità interiori o piuttosto le loro qualità più superficiali?
Quando viviamo una vita che non ha alcun sacrificio, la nostra umanità diminuisce. Diventiamo, ogni giorno, più superficiali e timidi. L’intero libro di Vayikrà, che tratta dei sacrifici, è la via ebraica per affermare che VIVERE, significa VIVERE per QUALCOSA.
Un ALTARE In Lacrime
Nessuna area della società è stata così profondamente influenzata da questo vuoto come l’unità familiare. In un passato, non molto lontano, il legame familiare era considerato come un qualcosa per cui valeva la pena sacrificarsi. Oggi, invece, questa idea è facilmente scartata quando è in conflitto con le nostre comodità personali. Le coppie, spesso, non sentono che il matrimonio è un’istituzione così ideale e sacra da dover fare dei veri sacrifici, perché funzioni e fiorisca. Spesso i giovani cercano “l’amore facile” e non quello solido e duraturo che nasce e cresce anche dalla nostra disponibilità al sacrificio.
1700 anni fa, il trattato del Talmud che disciplinava le leggi ebraiche per il divorzio fu trascritto. I saggi dell’antichità hanno scelto di culminare il libro con queste parole:
“Ogni volta che qualcuno divorzia dalla sua prima moglie, anche l’Altare del Santuario versa lacrime. Come afferma la Bibbia, “Tu hai causato che l’Altare di Dio sia coperto di lacrime, di pianto e di sospiri; così che Dio non si rivolge più alle offerte con buona volontà. E potresti chiedere: perché? Perché Dio ha reso testimonianza tra te e la moglie della tua giovinezza, che l’hai tradita, sebbene sia la tua compagna e la moglie della tua alleanza.”
Perché un divorzio provoca lacrime nell’Altare del tempio? Il Tempio Santo di Gerusalemme aveva molti arredi e recipienti, come il candelabro, la tavola di pane, e naturalmente l’Arca Santa in cima alla quale erano scolpiti i volti di un ragazzo e una ragazza che si guardavano l’un l’altro, a simboleggiare il rapporto tra Dio e l’uomo. Perché era SOLO l’Altare che piangeva e non gli altri oggetti del Santuario?
La spiegazione potrebbe essere questa:
L’Altare era il luogo nel Tempio dove venivano offerti tutti i sacrifici quotidiani di grano, vino e animali. L’Altare rappresentava l’assioma profondo, ma spesso dimenticato, che la relazione con Dio esigeva sacrificio di sé e della propria ricchezza. Per secoli, l’Altare è stato testimone silenzioso della profondità e dignità che caratterizzavano le vite fatte d’impegno e sacrificio. Giorno dopo giorno, l’Altare interiorizzava la VERITÀ ASSOLUTA: solo il sacrificio di sé conduce verso la realizzazione personale.
Quando l’Altare “osserva” un matrimonio in cui l’uomo e la donna non hanno il coraggio di fare sacrifici l’uno per l’altro, PIANGE, per la più grande delle opportunità perdute, per sempre.
Ci sono, naturalmente, delle eccezioni. A volte il divorzio è una tragica necessità. Quando gli abusi e le disfunzioni pervadono a un matrimonio e non è possibile trovare alcun rimedio, la risposta giusta potrebbe essere il divorzio. Purtroppo, nella nostra epoca, molti divorzi avvengono, non a causa di una situazione impossibile, ma a causa della nostra riluttanza a trascendere il nostro ego, sfidare le nostre paure e trascendere la nostra natura egoista. Per questo è proprio l’ALTARE a piangere.
Questa semplice verità così ben nota all’Altare è stata dimenticata da molti. Abbiamo paura di fare sacrifici, poiché temiamo che ci privino della nostra ILLUSORIA FELICITÀ. La nostra autostima è così fragile che sentiamo disperatamente il bisogno di proteggerla da qualsiasi intrusione esterna per paura che svanisca?
Ma la felicità è un “Altare”. PIÙ DAI, PIÙ RICEVI. E non come la società moderna vuole farci credere: PIÙ RICEVI E PIÙ DAI.
L’anima è più in pace con se stessa quando condivide se stessa con un’altra anima.
Perciò quando rinunciamo a tutte le forme di sacrificio, ci priviamo di raggiungere le nostre POTENZIALITÀ PIÙ PROFONDE.
Strada Lunga Ma Corta
La vita è fatta di tanti bivi. Come la famosa storia Talmudica di Rabbi Yehoshua che chiede a un bambino quale fosse la strada più corta per raggiungere la città.
Il bimbo gli dice: la strada a sinistra è corta ma lunga, mentre quella a destra è lunga ma corta.
Il grande maestro prende la via corta, ma viene bloccato da un muro di spine. Perciò torna indietro e chiede al ragazzino come mai gli aveva indicato che quella era la strada più corta? Questo gli risponde in effetti è più corta, ma anche più lunga, perché è molto difficile raggiungere la meta per via degli ostacoli.
Mentre l’altra strada è più lunga e bisogna scalare la montagna, ma si arriva sani e salvi alla città di destinazione. Perciò è una strada PIÙ LUNGA MA CHE È PIÙ CORTA.
La nostra strada è fatta di continui bivi, la società ci spinge, sempre di più, verso le “scorciatoie” che in realtà sono strade bloccate che non portano a destinazione.
Questa parabola dovremmo inciderla nella nostra mente e ricordarci sempre che spesso la strada più lunga è quella più corta. Ad esempio quando ci sacrifichiamo per la pace coniugale, non dobbiamo vedere questa cosa come una perdita di autostima e debolezza personale. Mettere da parte se stessi per un “bene superiore”, come il matrimonio significa avere una forza dello spirito che ci fa ottenere l’armonia in casa. Mettere da parte il proprio ego che, la causa di tutti i problemi, è solo APPARENTEMENTE la STRADA PIÙ LUNGA e faticosa, ma invece è la strada più corta per avere una vita equilibrata e serena.
La parashà di questa settimana ci invita a fare questa domanda: quando è stata l’ultima volta che ho fatto un VERO sacrificio?
Un aneddoto sul Rebbe può aiutarci a capire meglio.
Una volta un ebreo osservante andò a chiedere aiuto e consiglio al Rebbe e gli disse: “Quando studio la Torà, prego o faccio le mitzvòt, soffro, perché non ho voglia e spesso sono distratto e penso ad altro”. Il Rebbe sorprendentemente gli rispose: “Beato te! A me invece piace studiare la Torà e fare le mitzvòt…!”.
L’uomo ovviamente rimase perlomeno sorpreso di questa risposta. Tuttavia il Rebbe, come sempre, gli ha e ci ha dato un insegnamento di vita importantissimo. Sacrificarsi per qualcosa, vincere il nostro “Istinto al male” è un modo per servire Hashem, per offrire in sacrificio il nostro “animale interiore”, per elevare il male in bene. Attraverso lo studio della Torà le mitzvòt e più in generale adempiendo i precetti, acquisiamo quei buoni tratti del carattere che ci permettono di sottometterci ad una volontà superiore, quella divina, attraverso l’offerta del nostro SÉ, fatto di tante grandi e piccole abitudini, vizi e piccoli egoismi. Grazie a ciò possiamo contribuire a rettificare questo mondo e permettere l’arrivo di Mashiakh presto ai nostri giorni, Amen.
Ricordo che quando Vajjikrà è anche Shabbàt Zakhòr (non quet’anno) è molto speciale: Shabbàt Zakhòr lo ”Shabbàt del Ricordo” di quello che voleva fare Amalèk. In questo giorno è obbligatorio andare al tempio per sentire la lettura dello Zakhòr, Ricordo: secondo la halakhà addirittura chi abita fuori città deve trasferirsi per sentire questa lettura, poiché non dobbiamo mai dimenticare che abbiamo dei nemici che ci vogliono annientare. Questo è il secondo dei quattro Shabbatòt “speciali” del mese di Adar.
Il nome deriva dalla lettura aggiuntiva di Torà presa da Devarìm 25, 17-19 il cui tema è il dovere “di ricordare” cosa Amalèk ha fatto ad Israèl. La credenza tradizionale è che Hamàn fosse un diretto discendente di Agag, il re degli Amaleciti per questo si usa adempire all’obbligo di ricordare Amalèk, in questo Shabbàt.

Shabbat Shalom

Rav Shlomo Bekhor

VAYIKRA 5771 – LA KABBALÀ DEGLI SCACCHI
Perché solo il pedone limitato può raggiungere il massimo e diventare regina?

VAYIKRA 5770 – FILO SOTTILE TRA EGOCENTRISMO E ANNULLAMENTO!
Un viaggio nell’approfondimento del divieto di offrire lievito e miele sull’altare.

VAYIKRA 5769 – LA VITA È BELLA COME UNA STELLA!!!
Come mai su ogni sacrificio bisognava mettere il sale?

VAYIKRA 5768 – L’ESTERNO DI UN UOMO È UNO SPECCHIO
Quando lo specchio è sporco vuol dire che la persona è sporca!

VAYIKRA 5767 – IL FUOCO SULL’ALTARE ANCHE OGGI!
Il valore e il significato spirituale dei sacrifici, attraverso le diverse regole che ne normano la corretta attuazione.

VAYIKRA 5766 – PIGRIZIA ED ENTUSIASMO + RESTITUIRE GLI OGGETTI RUBATI
Diverse prospettive con cui analizzare il tema dei sacrifici.

VAYIKRA 5765 – IL RISPETTO DELLA VOLONTÀ DIVINA!
Talvolta sembra che deviare leggermente da ciò che ci è stato prescritto possa migliorare il valore di quello che facciamo.