Tetzavvé 5784 Purim Shushan Katan: 6 LEZIONI

17 Febbraio 2024 0 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 24 FEBBRAIO 2024, 15 del mese di Adàr Rishon 5784 leggeremo la Parashà di

Tetzavvè Es 27,20 – 30,10 (Shemot Esodo) e

HAFTARÀ
Ezechiele 43, 10-27

La Parashà di Tetzavvè è composta da 146 versetti.

La Parashà di Tetzavvè contiene 4 comandi e 4 divieti.

Il Verme e il Demone Saggio
Midrash racconto sulla parashà di Tetzave
 

Hashèm ordinò che le pietre preziose del khòshen e dell’efòd fossero perfette, senza la minima scalfittura. Siccome non è possibile incidere delle lettere per mezzo di uno strumento, perché questo potrebbe scheggiarle, come si riuscì, dunque, a incidere sulle pietre i nomi delle tribù? Tramite lo shamìr. Lo shamìr era una creatura piccola come un chicco d’orzo ed era stata creata l’èrev Shabbàt dei sei giorni della Creazione. Lo shamìr aveva la capacità straordinaria di fendere anche le rocce più dure. I nomi delle tribù furono scritte sulle pietre preziose con l’inchiostro, poi venne fatto scorrere lo shamìr lungo ciascuna delle iscrizioni e le intagliò con una tale precisione che non andò perduta nemmeno un po’ di polvere delle pietre.
Re Shelomò ricevette in dono da Hashèm una sapienza che nessun altro essere umano possedeva. In virtù di questa saggezza di ispirazione divina, il suo potere non era esteso solo agli uomini e agli animali, ma anche agli shedìm (demoni o spiriti malvagi).
Quando re Shelomò decise di costruire il Bet Hamikdàsh, interrogò i saggi: «Com’è possibile tagliare le pietre del Bet Hamikdàsh senza fare uso di uno strumento?»
Essi risposero: «Per mezzo dello shamìr. Moshè si servì di questa creatura per tagliare le pietre preziose destinate all’efòd».
«Come posso trovare lo shamìr?» chiese re Shelomò.
«Consulta gli shedìm» gli consigliarono i saggi. «È probabile che lo sappiano: costringili a rivelarti il segreto»
Re Shelomò cercò di piegare gli shedìm alla sua volontà, ma essi gli dissero: «Non sappiamo dove si trova lo shamìr. Chiedi ad Ashmadày, il re degli shedìm. Forse lui lo sa».
«E dove vive Ashmadày?» domandò Shelomò. I demoni gli rivelarono il nome della montagna in cui Ashmadày aveva stabilito la sua dimora, e aggiunsero: «Ashmadày ha scavato un pozzo sulla montagna e l’ha riempito d’acqua. Ogni giorno, lo chiude con una pietra (per timore che qualcuno possa prendere l’acqua del suo pozzo), poi vola negli spazi celesti. Egli non beve l’acqua del suo pozzo se non dopo aver controllato la chiusura per essere sicuro che sia rimasto sigillato».
Shelomò incarico il suo saggio consigliere Benayàhu ben Yehoyadà di catturare Ashmadày. A questo scopo, gli consegnò una catena e un anello sui quali vi era inciso il Nome divino; inoltre gli diede della lana e degli otri pieni di vino. Benayàhu si diresse verso la montagna indicata dagli shedìm. Egli trovò il pozzo di Ashmadày, scavò una seconda cavità al di sotto, praticò un foro sul fondo del pozzo e trasferì l’acqua nel secondo pozzo. Poi, riempì di vino il pozzo di Ashmadày e coprì il buco con la lana che gli aveva consegnato Shelomò.
La sera, quando Ashmadày tornò, fu sorpreso di trovare del vino nel suo pozzo, sebbene il sigillo fosse intatto. Egli non bevve per timore di inebriarsi, ma aveva molta sete e il suo desiderio di placarla si faceva sempre più pressante: si chinò, bevve e cadde in un sonno profondo.
Benayàhu scese dall’albero sul quale si era nascosto e attaccò la catena intorno al collo di Ashmidày. Quando si svegliò e si accorse di essere incatenato, egli tentò furiosamente di rompere le sue catene.
«Fermati!» gli gridò Benayàhu. «Il nome di Hashèm, tuo Padrone, è su di te!»
Ashmadày, allora, permise a Benayàhu di condurlo da re Shelomò. Durante il cammino, egli provocò distruzione ovunque: spezzò un albero e demolì una casa. Quando passarono davanti alla capanna di una vedova, ella lo supplicò di risparmiarla. Ashmadày ebbe pietà della donna, ma quando se ne andò si ruppe un osso. «Come sono vere le parole di Shelomò!» esclamò. «Una parola dolce spezza le ossa» (egli ammise che la sua forza era stata spezzata dall’umiltà di una povera vedova).
Alla fine, giunsero a Yerushalàyim. Dopo tre giorni di attesa, Ashmadày venne ricevuto da re Shelomò. Il re dei demoni con un metro misurò quattro amòt, gettò il metro ai piedi di Shelomò e urlò: «Ecco la grandezza della tua tomba! Perché ti ostini a conquistare nuovi territori e mi scomodi dai confini della terra per farmi comparire davanti a te?»
«Io sono venuto a disturbarti» gli rispose Shelomò «perché desidero scoprire il luogo in cui si trova lo shamìr. Voglio costruire il Bet Hamikdàsh secondo il comando di Hashèm».
«Lo shamìr non è stato affidato a me» rispose Ashmadày. «Hashèm ha designato come suo custode l’angelo del mare. Questi l’ha consegnato all’uccello Bor (un tipo particolare di volatile), esortandolo a custodirlo con grande scrupolo».
Shelomò ordinò a uno dei suoi servitori di andare a catturare l’uccello Bor, e gli diede a questo scopo una campana di vetro.
Il servitore trovò il nido dell’uccello Bor, ma l’uccello non c’era. Egli, allora, ricoprì con la campana di vetro il nido con i pulcini. Quando l’uccello tornò, vide che l’avevano separato dai suoi piccoli, allora volò via e ritornò portando nel becco lo shamìr, che mise sulla campana di vetro. Subito il servitore si mise a urlare e l’uccello fuggì, così poté prendere lo shamìr per portarlo al re Shelomò.
Quando l’uccello Bor si accorse di aver tradito il giuramento fatto all’angelo del mare, per non aver custodito lo shamìr, si impiccò (Hashèm non aveva affidato lo shamìr agli umani, perché temeva che lo avrebbero utilizzato per scopi malvagi, tentando di fare il mondo a pezzi. È il motivo per cui l’uccello Bor si tolse la vita quando capì che lo shamìr era caduto nelle mani degli uomini).
Benayàhu, allora, interrogò Ashmadày che insegnò al re e ai suoi consiglieri alcune cose molto sagge:
Che gli uomini gioiscono spesso in momenti in cui farebbero meglio ad affliggersi.
Che gli uomini fanno dei preparativi per vivere una lunga vita invece di predisporsi per la vera vita nell’Olàm Habà.
Che molti uomini trascorrono la loro esistenza a perseguire dei tesori nascosti, senza essere consapevoli di ciò che è alla loro portata.
Il Maharàl, secondo il suo metodo di interpretazione simbolica delle aggadòt khazàl, spiega che lo scambio fra acqua e vino effettuato da Benayàhu, così come il fatto di aver incatenato Ashmadày, sono azioni simboliche. Il loro significato è che Shelomò trasformò l’essenza del demone per metterlo sotto il suo dominio. Allo stesso modo, lo shamìr affidato all’uccello Bor, e l’uccello Bor che si suicida, non sono che simboli di concetti metafisici.

Estratto dal Midràsh Racconta ed. Mamash.

11/02/22 OLIO SAPIENTE Come di consueto vi presentiamo due brani tratti dal libro “Saggezza Quotidiana” che commentano le parashòt della Torà secondo gli insegnamenti chassidici del Rebbe e dei suoi predecessori. L’Abito Fa il Sacerdote Il primo brano ci spiega come servire Hashèm nel modo migliore e più completo. Questo insegnamento ci arriva attraverso due indumenti che componevano l’abito del Sommo Sacerdote, L’Efòd e il pettorale. L’Efòd era un indumento simile a un grembiule; il pettorale era un monile quadrato su cui erano fissate dodici diverse pietre preziose dove erano incisi i nomi delle dodici tribù. Il pettorale veniva legato all’Efòd nei lati inferiori e superiori con corde di lana. L’Efòd pendeva dalla schiena del sommo sacerdote fino ai talloni, mentre il pettorale era posto davanti, di fronte al suo cuore. Il “retro” rappresenta ciò che è esterno e banale: gli aspetti della vita che possono essere necessari, ma che non costituiscono la nostra essenza. Al contrario, il “davanti” significa l’interno e il sublime, il vero cuore del nostro Io. Proprio come il nostro volto che esprime i nostri pensieri e sentimenti interiori è posto sulla parte anteriore del nostro corpo. Non a caso la faccia in ebraico si chiama panim-interiore. Il fatto che il pettorale non deve essere staccato dall’Efòd simboleggia che al Sommo Sacerdote non è stato concesso di lasciare alcuno spazio tra il sublime e il terreno, tra lo spirituale e il materiale. Così, anche noi dovremmo cercare di capire che ogni azione della nostra vita, per quanto possa sembrarci ripetitiva o banale, dovrebbe essere investita e compiuta attraverso la nostra essenza spirituale. Elevare la materia, ossia le cose mondane, svelando la santità che è celata in essa è il vero scopo e fine ultimo della nostra esistenza in questo mondo. Quindi non bisogna credere che vi siano cose su cui vale la pena di investire il nostro essere, la nostra spiritualità, ad esempio quando preghiamo o facciamo un’azione santa ed elevata, mentre altre cose non meritano lo stesso impegno: quando ad esempio mangiamo o stiamo lavorando. Tuttavia, è lecito domandarsi come possiamo ottenere un simile e impegnativo approccio all’esistenza. Il secondo brano ci svela uno dei modi attraverso cui possiamo giungere a un tale risultato. La risposta la troviamo in uno “strano” rituale del Tabernacolo. Olio di Sapienza Moshè doveva ungere Aharòn e i suoi figli con un olio profumato prima di compiere alcuni sacrifici. L’olio era spalmato imitando la forma di una lettera greca, la lambda (Λ), che ha una forma analoga alla lettera ebraica kaf (כ ,(l’iniziale della parola “sacerdote”, cohèn. Come è noto l’olio è il simbolo della sefirà Khokhmà, La Sapienza, che rappresenta la capacità di “collegarsi”, attraverso l’intelletto, all’aspetto “intellettuale” sovra umano di Hashèm. In altre parole, permette di collegare in qualche modo la mente umana con quella di Hashèm, alla Sua volontà. Attraverso questo processo noi possiamo arrivare a comprendere come gli insegnamenti della Torà non pretendono che l’uomo rinneghi le facoltà intellettive che Hashèm gli ha dato. All’opposto, Dio chiede all’uomo di santificare anche la sua mente al fine di renderla uno strumento per compiere la missione divina in questo mondo. Santificare una cosa significa “separarla” da qualcos’altro. Nel nostro caso significa che, attraverso la santificazione del nostro intelletto, dovremmo giungere a comprendere come non esiste un aspetto di questo mondo che non sia Hashèm, che non faccia parte di Lui. In altre parole, attraverso la nostra mente possiamo capire che la realtà “mondana” – le cose apparentemente più banali e futili della vita, come quelle più intellettualmente elevate, come la filosofia greca ad esempio – ha la sua radice in Hashèm. Pertanto, tutto, comprese le nostre conoscenze intellettuali, dovrebbero essere al servizio di Hashèm per rivelare la Sua presenza in ogni aspetto della vita. Questo è uno dei motivi per cui veniva utilizzata nel rito dell’unzione sacerdotale una lettera GRECA che simboleggia una sapienza apparentemente “estranea” al divino. L’ “intelletto” di Hashèm, Sapienza, Khokhmà, come è espresso nella Torà, mira in realtà a santificare, separare, l’intelletto umano dalla percezione che possano esistere delle cose estranee che non devono essere santificate ed elevate. Alla fine di un tale percorso potremmo arrivare a scoprire come tutto nella vita, compresi i nostri pensieri, originano dalla “verità ultima” ed eterna, la Torà. Buona lettura. * Tetzavè I Sacerdoti Esodo da 27, 20 fino a 30, 10 L’ottava sezione del libro dell’Esodo inizia con Hashèm che dice a Moshè di “comandare” (Tetzavè, in ebraico) a Israèl di fornire l’olio d’oliva da utilizzare per fare brillare i lumi del Candelabro del Tabernacolo. Egli continua descrivendo gli indumenti speciali, che i sacerdoti – il fratello di Moshè, Aharòn e i suoi discendenti presenti e futuri – indosseranno ogni volta che officeranno nel Tabernacolo. I figli di Aharòn divennero i primi sacerdoti “semplici” che officiavano con una divisa composta da quattro indumenti; mentre Aharòn divenne il primo “sommo sacerdote” a indossare una divisa composta da otto indumenti e a essere incaricato di oneri e privilegi, oltre a quelli dei normali sacerdoti. Dopo aver descritto le vesti dei sacerdoti, Hashèm comanda a Moshè di eseguire un rituale di una settimana, per insediare suo fratello e i suoi nipoti nel loro ufficio sacerdotale. Questa vicenda è seguita dalla descrizione dell’Altare dell’incenso posizionato nella camera esterna del Santuario, vicino al Candelabro e alla Tavola dei dodici pani. * Seconda Salita Shemòt 28, 13–30 I primi due indumenti che Hashèm descrive sono l’Efòd e il pettorale del sommo sacerdote. L’Efòd è un indumento simile a un grembiule legato intorno alla vita che aveva due cinghie che si sollevavano nella parte posteriore dalla vita, fino alle spalle e sopra di esse. Una pietra preziosa era incassata all’estremità superiore di ciascuna di queste cinghie; su queste due pietre erano incisi i nomi delle dodici tribù di Israele. Il pettorale era un monile quadrato, di vari materiali, su cui erano fissate dodici diverse pietre preziose. I nomi delle dodici tribù erano incisi su ognuna di queste dodici gemme. Il pettorale veniva legato all’Efòd nei lati inferiori e superiori con corde di lana. Non Separare il Sublime dal Mondano [Hashèm dice a Moshè] «Il pettorale non si sposti dall’Efòd». (28, 28) L’Efòd pende dalla schiena del sommo sacerdote fino ai talloni, mentre il pettorale è posto davanti, di fronte al suo cuore. Il “retro” rappresenta ciò che è esterno e banale: gli aspetti della vita che possono essere necessari, ma che non sono al centro del nostro interesse principale. Al contrario, il “davanti” significa l’interno e il sublime, il vero cuore del nostro interesse, proprio come il nostro volto che esprime i nostri pensieri e sentimenti interiori è posto sulla parte anteriore del nostro corpo. Il fatto che il pettorale non deve essere staccato dall’Efòd simboleggia che al sommo sacerdote non è stato concesso di lasciare alcuno spazio tra il sublime e il terreno, gli aspetti essenziali ed esterni della sua vita. Ciò che è vero nei nostri cuori puri e ispirati deve esprimersi anche nei nostri “talloni”, cioè gli aspetti banali e quotidiani delle nostre vite. * Quarta Salita Shemòt 29, 1–18 Hashèm successivamente descrive gli altri indumenti dei sacerdoti. Il Sommo Sacerdote, oltre all’Efòd, al pettorale e alla veste, porta una lamina d’oro sulla fronte; una tunica che indossa sotto la sua veste; una fascia che lega intorno alla sua tunica e al turbante. I sacerdoti ordinari indossano tuniche, fusciacche e cappelli. Sia il sommo sacerdote, sia i sacerdoti ordinari indossano pantaloni di lana fino al ginocchio sotto la loro uniforme. Come parte di questi rituali, Moshè deve ungere Aharòn e i suoi figli e compiere alcuni sacrifici con un olio d’oliva composto di spezie, secondo una formula specifica. La Santità Contro l’Intelletto Secolare [Hashèm dice a Moshè] «Prendi un po’ dell’olio dell’unzione e versalo sul capo di [Aharòn]». (29, 7) L’olio è spalmato con la forma della lettera greca lambda (Λ) che ha la forma dell’angolo della lettera ebraica kaf (כ (l’iniziale della parola “sacerdote”, cohèn. Mentre i greci credevano che l’intelletto umano fosse il giudice della verità più alto, l’ebraismo afferma che l’intelletto sovra-umano di Hashèm è la fonte della verità. Queste due visioni del mondo sono talvolta in disaccordo, poiché le richieste della Torà a volte trascendono l’intelletto umano. Questo è il motivo per cui i seguaci della filosofia greca combatterono gli israeliti e la Torà nella lotta che portò al miracolo di Khanukkà. Sembrerebbe, quindi, poco appropriato introdurre un simbolo greco nei riti di insediamento del Tabernacolo, il centro spirituale dell’ebraismo! Il motivo è che l’intelletto di Hashèm, come è espresso nella Torà, mira a santificare l’intelletto umano. Questa è la spiegazione per cui la particolare forma greca della lettera kaf era usata nei riti inaugurali del Tabernacolo.

Un caro Shabbàt Shalom 

Rav Shlomo Bekhor

PURÌM: UNA RIFLESSIONE “MIRACOLOSA”

C’era una Volta,
Nelle comunità ebraiche, un tempo, quando iniziava il lieto mese di Adàr, era in vigore un’usanza particolare. In attesa di Purìm, sceglievano una persona spiritosa e la nominavano “governatore” della città in occasione di quella festa. Un momento in cui si celebrava un tempo in cui nulla è veramente ciò che sembra. Inoltre, venivano nominati alcuni poliziotti, giudici e altri funzionari che eseguissero gli ordini del “governatore della provincia” per un giorno.
Un volta, i chassidìm del rebbe Tzvi di Zhidachov nominarono il giovane e estroverso nipote dello tzaddìk, Koppel, come governatore della provincia, e gli dissero di emettere alcune leggi divertenti. Egli istituì un “consiglio” formato da studiosi della Torà locali, membri di rilievo della comunità che, nel corso dell’anno, si erano distinti per la loro saggezza e la loro serietà.
Quando, infine, arrivò Purìm, questi sommi cittadini mostrarono al giovane Koppel il dovuto onore e il rispetto adeguati alla sua alta carica. Dopo parecchi giri di liquore, accompagnati da gioiosi brindisi, tutta l’allegra brigata si recò verso la casa del rebbe ballando e festeggiando.
Dopo aver sorriso accogliente e divertito, anche lo tzaddìk fece mostra di grande deferenza nei confronti del personaggio incarnato da suo nipote. Poi, chiese rispettosamente al “governatore” di cancellare le tasse oppressive e antisemite sulle candele e sulla carne kashèr che la sua controparte reale (il vero governatore della zona) aveva imposto nel corso di quell’anno. Il “governatore” esaudì volentieri la petizione come richiesto dal rebbe.
Poi, il rebbe chiese a “sua Altezza” di abrogare la legge che imponeva agli ebrei di essere arruolati nell’esercito, ma, sorprendentemente, a questa richiesta suo nipote scosse il capo duramente. Il rebbe lo implorò più volte, con sempre maggior compostezza ed eloquenza, ma il “governatore” continuò a opporsi fermamente.
Infine, il rebbe mostrò di essere molto infastidito dal rifiuto. Cambiando tono, ordinò a suo nipote di dichiarare l’intenzione di abrogare la legge della leva immediatamente. Nonostante ciò, il giovane ubriaco non diede ascolto al suo santo zio.
Il sorriso scomparì dal volto degli altri chassidìm, quando capirono che il rebbe stava prendendo sul serio la questione, e implorarono Koppel di cedere, ma nemmeno il loro intervento servì a qualcosa. Litigarono con lui, ma non si smosse. «Non c’è niente da fare», insisteva compiaciuto.
Lo tzaddìk se ne andò dalla stanza adirato, e si rifiutò persino di guardare suo nipote per il resto della festa.
Il giorno successivo, quando tutti erano nuovamente sobri, i chassidìm si rivolsero incuriositi a Koppel, chiedendogli: «Che cosa ti è preso per opporti a tuo zio, il rebbe, con tale testardaggine?».
Il giovane impallidì: «Che cosa intendete? Non farei mai una cosa simile! D’altra parte – confessò imbarazzato – ammetto che non mi ricordo nulla di ciò che è accaduto ieri, dopo che siamo andati a casa del rebbe, avevo bevuto troppo».
Quando gli dissero tutto ciò che era accaduto, ne fu mortificato. Nonostante tutti i testimoni, faceva fatica a credere di aver agito con tale sfacciataggine nei confronti di suo zio.
Quell’anno, le autorità provinciali revocarono veramente le imposte sulle candele e sulla carne, ma la crudele legge che costringeva gli ebrei ad arruolarsi nell’esercito polacco rimase in vigore. Allora, i chassidìm compresero che, durante quel Purìm, avevano assistito a qualcosa che andava al di là della loro comprensione: il loro rebbe non stava scherzando, e ciò che era stato attribuito all’ebbrezza di un giovane, in verità, avrebbe avuto ripercussioni miracolose. Il rebbe, grazie all’intervento divino, era riuscito a capire l’importanza che aveva in mano il “governatore” in quel giorno.

Bisogna Fare Affidamento sui Miracoli?
Si può fare affidamento sui miracoli? Oppure ognuno deve prestare attenzione e non correre rischi inutili nella speranza che gli accada un miracolo?
Una risposta la possiamo trovare nel Talmud Yerushalmi (Shekalìm 6, 3): uno dei dieci miracoli avvenuti nel Santuario era che i Pani di presentazione rimanevano freschi per una settimana, dal momento in cui venivano portati fino alla loro consumazione. Il Talmud aggiunge che il tavolo sul quale erano posati i Pani era fatto di marmo e non d’argento, affinché non si deteriorassero, perché il marmo è un materiale freddo e l’argento è un materiale caldo. A questo punto chiede il Talmud: “Siccome questo è uno dei miracoli che venivano compiuti nel Bet Hamikdàsh (così come riponevano i Pani caldi, li ritrovavano), perché non potevano riporli sul tavolo d’argento? Comunque non si sarebbero deteriorati, essendo miracolosi!”. La risposta del Talmud è che “Non bisogna fare affidamento sui miracoli, bisogna fare il possibile affinché le cose vadano secondo natura e non si deteriorino”. Anche ove è avvenuto un miracolo, come per i Pani del Santuario, prima dobbiamo fare il possibile affinché non si deteriorino e, solo dopo, può avvenire il miracolo!

Però… i Miracoli Quotidiani?
Rabbi Yitzkhàk Arama spiega in riferimento all’affermazione halachica “non fare affidamento sui miracoli” (Kiddushìn 39a): questo non contraddice il fatto che noi assistiamo nelle nostre vite a continui miracoli quotidiani; anzi, chiunque rifiuti tale evidenza nega l’onnipresente bontà divina e potrebbe addirittura venire punito per aver ignorato la miracolosa fondatezza della Provvidenza divina.
D’altro canto, tale punto di vista coinvolge enormemente la nostra condotta giornaliera. “Non fare affidamento sui miracoli” significa che noi dobbiamo fare del nostro meglio, ma solo Dio decide autonomamente quali saranno i risultati delle azioni in base al nostro livello spirituale e ai nostri meriti.
Quindi ben sapendo che benché non dobbiamo fare affidamento sui miracoli e anzi, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per compiere ciò che è opportuno, Dio, nella Sua infinita bontà, certamente dirige il mondo in modo miracoloso, “ki le’olàm khasdò”, perché eterna è la Sua benevolenza!

Quando Vediamo un Miracolo, Vediamo Dio
Viviamo la nostra esistenza al buio. Ci viene detto di credere, ma più delle volte non riusciamo a percepire la presenza di Dio nelle nostre vite.
Dunque, la “strada della fede” spesso può essere dura. In una simile situazione è normale chiedersi: “Perché siamo qui? Dov’è Dio nel mondo?”. Queste o domande simili possono a volte entrare nelle nostre menti e nelle nostre vite. A volte ci può sembrare di essere nella stessa condizione di una persona che fatica  molto per un lavoro, senza vedere i frutti del suo impegno. Quindi, possiamo arrivare a dubitare che ci sia veramente qualcuno dietro alla porta dell’ufficio con su scritto “Direttore Generale”.
E poi, accade l’inaspettato! Riusciamo anche solo per un momento di vedere “l’ombra del Grande Capo” uscire dalla Sua stanza. Allora ci esaltiamo di questo. Vedere Dio è in fondo il desiderio a volte nascosto di ognuno di noi, la nostra meta. Il solo pensare di poter assistere alla manifestazione della Sua infinità (Or En Sof), il miracolo, ci infonde una scarica di adrenalina. Possiamo arrivare a sentirci sopraffatti da una tale grandezza. Tutto il resto si dilegua e rimane solamente la nostra anima che si alza davanti all’infinita grandezza di Dio.
Ora, i miracoli rivelati di questa portata non si verificano ogni giorno… In effetti, una rivelazione come questa, a un livello incredibilmente alto di Or En Sof, è avvenuta soltanto due volte in tutta la nostra storia. Una volta è accaduto in occasione della divisione del Mar Rosso e, in seguito, quando è stata data la Torà. E ora vediamo quale influenza hanno avuto queste rivelazioni su di noi. Sono passati 3333 anni e ancora ne parliamo! Ci aggrappiamo in ogni modo possibile a questa esperienza. Come se fosse il cibo per un corpo e una mente affamata o il salario per un lavoratore.
Ma 3333 anni sono un lungo tempo di attesa e noi oggi cosa possiamo fare?
Dobbiamo cercare di avvertire la luce infinita – Or En Sof altrove, come vedere i miracoli insiti nelle storie di Purìm e di Khanukkà. C’è un solo problema, su cui dobbiamo lavorare: il miracolo rivelato, non sempre basta, poiché c’è ancora bisogno della nostra fede. A volte anche se assistiamo a un evento miracoloso è possibile comunque pensare che “Sarebbe potuto succedere comunque…”.
Oltretutto ci sono miracoli che vengono chiamati “caso” o “coincidenze”. Perdiamo un autobus e il corso della nostra vita cambia per sempre; sbagliamo il numero di telefono e troviamo così un amico che abbiamo perso di vista da tempo: miracoli talmente insondabili che neppure le persone a cui accadono riescono a capire completamente che cosa sia veramente successo.
Uno dei messaggi importanti di Purìm è la vittoria contro il più grande nemico di Israèl che Amalèk dalla quale discende Hamàn. L’arma più forte di Amalèk per negare l’esistenza di Hashèm viene espressa nella Torà ‘karkhà’ che viene anche dalla parola ‘mikrè’ casuale. La prima cosa da fare per negare la mano del Creatore dietro la natura è la casualità ovvero succede ogni giorno per cui non è un miracolo. Il sole è la sua natura di sorgere ogni mattina è una cosa normale. Questo pensiero è opposto alla Torà perciò dicono i maestri:
COINCIDENZA NON E’ UNA PAROLA KASHER –IDONEA!
Le manifestazione naturali, anche se sono sempre presenti nelle nostre vite non sono scontate. Proviamo a riflettere sul fatto che il sole sorge e tramonta ogni giorno, la rugiada è sempre presente nella terra, la vegetazione, i prodotti della terra crescono anche in luoghi totalmente inospitali, almeno apparentemente. Eppure queste e molti altri fenomeni “naturali” spesso sono considerati come “scontati”. Senza soffermarsi sul fatto essenziale che ogni cosa e quindi anche ogni fenomeno naturale esiste e si perpetua solo perché Dio permette che sia così.
Ma assistere a questo tipo di miracoli è come la divisione del Mar Rosso? Certamente No! Tuttavia è necessario applicare il nostro intelletto e meditarvi sopra. Potremmo pensare che “Ok, tutto questo è miracoloso, ma devo faticare per capirlo. E anche a questo punto, il concetto è al di sopra della mia portata. Che gusto c’è? Non è come vedere il Profeta Elia o la manna che scende dal cielo o un altro fatto strabiliante. Non mi lascia sopraffatto. Non mi appaga”.
E quindi continuiamo a vivere nella speranza di un’altra rivelazione “veramente miracolosa”. Vogliamo vederla, ci proviamo, ma spesso non la vediamo. Andiamo avanti a vivere, desiderando cose che non possiamo ottenere, o nel migliore dei casi, possiamo avere solo per una frazione di secondo, e poi sparisce.

Il Futuro
Solo quando ci sarà la imminente Redenzione avremo esperienza di Or En Sof tutto il tempo. La vedremo, la sentiremo, la assaggeremo, la respireremo. Non importerà se Or En Sof dividerà il mare, farà girare la terra sul suo asse, ci procurerà un parcheggio in una strada trafficata, o ci farà aprire un libro ad una pagina che si rivolge a noi consigliandoci proprio su un argomento urgente nella nostra vita; vedremo Or En Sof ovunque. Non dovremo meditare su di essa, non dovremo crederci, né convincere noi stessi. Il velo verrà sollevato e saremo pronti a riceverla.
In quel tempo non ci limiteremo a vedere i miracoli, ma riusciremo a comprendere e percepire la presenza di Dio in questo mondo fino al punto di diventare tutt’uno con essa.

Questo ci insegna il “miracolo di Purìm”: quando sembra che non ci sia speranza, che Dio sia svanito nelle nostre vite e nel mondo, proprio quando tutto sembra buio e disperazione; la verità è che Dio è SEMPRE qui con noi. Solo che avevamo i paraocchi. C’è un solo modo di vederlo anche ora. Come, ci chiediamo? Dobbiamo soltanto aprire gli occhi.

In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת אבי מורי ורבי ועטרת ראשי
יעקב בן שלמה ורחל
TESTARDI E QUI PER RESTARE!
Siamo in prossimità della festività di Purim che ci ricorda la vittoria del popolo ebraico su coloro che tentarono di distruggerlo, il voltafaccia dalla sconfitta alla vittoria nell’arco di un breve lasso di tempo. Tuttavia, per quanto possiamo sentire di essere una minoranza, pochi numericamente, dobbiamo nondimeno realizzare che il nostro destino è di prevalere su coloro che preferirebbero piuttosto vederci scomparire.
Come vediamo una volta e ancora dalla storia, imperi così grandiosi sono sorti – i Greci, Romani, il Terzo Reich, l’Unione Sovietica ecc. – e hanno voluto spazzare via il popolo ebraico. Chi è ancora qui?!? Quegli imperi non ci sono più, invece il “popolo testardo”, gli Ebrei, continua a vivere.

Ti riporto i link delle lezioni on line su virtualyeshiva.it della parashà di questa settimana.

Shabbat Shalom
Rav Shlomo Bekhor
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Purim
LA PROVA DELL’ESILIO

Quando il Dolce è Molto Amaro
La Meghillà di Estèr inizia con le parole: “Avvenne all’epoca di Akhashveròsh…” e prosegue descrivendo il grandioso banchetto organizzato dal re Akhashveròsh per celebrare la sua ascesa al trono. Il Talmùd commenta il versetto spiegando che nella Torà il termine Vayehì-avvenne si riferisce sempre a un periodo di sofferenza per il popolo ebraico.
Il malvagio Hamàn, la causa di tutte le disgrazie, non è però ancora salito al potere, per quale ragione allora l’ascesa al trono di Akhashveròsh viene considerata un fatto penoso per Israèl? I membri del popolo di Israèl erano molto influenti nel paese e occupavano posizioni di prestigio. Mordekhày, capo della comunità ebraica, sedeva al cancello reale (Estèr 1, 21) ed era uno dei cortigiani di maggior spicco, consultato dal re stesso riguardo alle questioni più importanti dello Stato. Egli, e tutti gli ebrei con lui, godevano della libertà di studiare la Torà e di osservare le mitzvòt.
Perché quindi viene usato il termine vayehì-avvenne, che significa che questo periodo è molto problematico?
L’esilio è sempre un periodo di difficoltà in qualunque situazione. Ecco perché l’epoca di Akhashveròsh è di per sé sinonimo di problemi. Il paese di cui l’ebreo è ospite può assicurare libertà, agi, opportunità di successo e prosperità ma, fino all’arrivo di Mashìach, l’esilio resta sempre un limite ed è pieno di insidie, dato che è in fondo una estraniazione dalla propria terra natia e una acquisizione di un diverso stile di vita e di valori. Finché ci troviamo in esilio non ci è possibile infatti vivere pienamente la vita ebraica, ma come si può descrivere l’ascesa al trono del re di Persia un momento cosi triste?

Confusione fra Luce e Buio
La conseguenza più distruttiva dell’esilio è però la mancanza di consapevolezza dell’esilio stesso. Quando si è consapevoli di una malattia da essa si può guarire chiedendo aiuto alla medicina, ad esempio. Invece, quando non sappiamo neanche di avere una malattia essa rimane molto difficile da scoprire e quindi da curare. Così è anche per l’esilio dove l’aspetto più pericoloso è proprio la sua completa accettazione. Se l’ebreo in esilio si sente comunque a suo agio, a casa, non si rende conto che in realtà sta giocando “fuori casa” in una situazione che lo costringe a rinunciare al suo ideale “habitat spirituale”.

Ovviamente ognuno di noi deve essere grato a Dio per la libertà e deve apprezzare la prosperità di cui gode. Tuttavia, dobbiamo anche renderci conto che lo scopo della nostra esistenza non è mirato alla mera prosperità materiale. Dobbiamo mirare a un’esistenza basata su un legame totale con Dio. Solo così saremo in grado di sentirci veramente realizzati. Fino all’epoca della redenzione in cui ciò avverrà in maniera completa, noi saremo comunque limitati a un’esistenza innaturale e non potremo realizzarci pienamente.

Coinvolgimento Sociale e Distacco
Ciò non deve portare a isolarci e a staccarci dalle questioni del paese in cui risiediamo. Al contrario tale coinvolgimento è più che positivo. Hashèm infatti ha di certo uno scopo in questo, perché – come disse il Rebbe precedente: «Non siamo andati in esilio volontariamente e per nostro desiderio, ma vi siamo stati mandati per decreto Divino».
Mandandoci in esilio, Hashèm ci ha affidato infatti una missione ben precisa: quella di migliorare ed elevare spiritualmente i paesi in cui risiediamo. Per portare a termine questa missione, dobbiamo essere perciò parte della società che ci circonda. Come insegnano i saggi (Shemòt Rabbà su Estèr 47, 5): quando arrivi in una città, seguine gli usi. Ciò richiede fra l’altro di operare nel contesto della società allo scopo di trasformarla, perché essa possa realizzare i valori della Torà e i suoi principi di bontà e giustizia.
Alla luce di questo possiamo capire perché Mordekhày, membro del Sanhedrìn (Talmùd Meghillà 13b), è addirittura desideroso di privarsi del tempo che generalmente dedicava allo studio e all’insegnamento della Torà per prestare servizio alla corte di Akhashveròsh. Egli aveva capito che l’impero persiano era il mezzo scelto da Dio per fare “nascere” il ritorno degli ebrei in Israèl e portare alla costruzione del secondo Santuario. Era quindi una sua precisa volontà quella di investire tempo e sforzi al servizio del sovrano persiano.

Fieri Della Propria Identità Ebraica
La condotta di Mordekhày in quell’epoca è quanto mai istruttiva per noi, oggi. C’è un giudeo a Shushàn, la capitale, il cui nome è Mordekhày (Estèr 2,5). Prima ancora di dirci il nome di Mordekhày, la Meghillà ci fa notare che egli si identifica innanzi tutto come ebreo. Non sta a corte per motivazioni egoistiche o ambizioni politiche, ma al fine di salvaguardare gli interessi dei suoi fratelli. I suoi compiti di consigliere infatti lo distaccano dall’adempimento delle pratiche esteriori del suo servizio divino, mai però, nella sua anima, dallo spirito più profondo di esse.
Mordekhày rappresenta quindi una sintesi di opposti: egli è coinvolto nella vita persiana e allo stesso tempo è distaccato da essa; benché presti servizio a corte ne rigetta i valori pagani e la promiscuità sessuale. Accetta il fatto di vivere in esilio, ma solo per le questioni materiali; a livello spirituale egli sa che in esilio non vi sono cadute anche le nostre anime, perché esse stanno saldamente legate al Creatore anche in quella triste situazione.
La condotta e il pensiero di Mordekhày non sono perciò in contraddizione. Egli non ottiene certo la sua posizione influente a corte soltanto per le sue eccellenti qualità, ma grazie alla benedizione divina. È però per i suoi meriti e a causa delle necessità del popolo ebraico che Hashèm lo sceglie come mezzo per la salvezza degli ebrei. La posizione a cui Dio lo ha innalzato gli permette infatti di usare il potere dell’impero persiano in funzione della Torà.

Priorità
Fu proprio la reazione di Mordekhày al decreto di Hamàn che definisce il legame fra il suo successo materiale e il servizio divino. Non contando soltanto sul potere politico per annullare il decreto, egli reagisce indossando un sacco di canapa e mettendosi addosso della cenere (Estèr 4, 1). Incita quindi il popolo ebraico a rivolgersi a Dio e a fare teshuvà e raduna ventiduemila bambini ebrei insegnando loro la Torà (Estèr 4, 16). Il suo sforzo di annullare il decreto punta innanzitutto sul servizio divino necessario per invocare la misericordia di Hashèm. Solo in un secondo tempo chiede a Estèr di presentarsi al re.
Le stesse priorità sono presenti però anche in Estèr: ella chiede a Mordekhày di radunare tutti gli ebrei affinché non mangino e bevano per tre giorni, promettendo di digiunare essa stessa con le sue ancelle.
Il digiuno potrebbe mettere in pericolo la sua vita e compromettere seriamente il successo della missione. É infatti un mese che Akhashveròsh non la convoca e un prolungato e ferreo digiuno sminuirebbe di certo la sua bellezza. Presentandosi per di più senza essere interpellata, rischia la morte!
Estèr però ha capito che la grave situazione in cui si trovano gli ebrei non è casuale, ma è la conseguenza dei loro sbagli. Intuendo che il decreto reale avviene per volontà divina, decide che prima di fare appello ad Akhashveròsh deve annullarne le cause spirituali con la teshuvà. Soltanto con il pentimento di tutti gli ebrei, Estèr si sente sicura nel presentarsi ad Akhashveròsh per chiedergli di annullare il decreto reale.
Proprio perché non sono mai stati tentati dai piaceri della corte persiana, Mordekhày ed Estèr non tengono in nessun conto il potere politico come unico mezzo di salvezza.
La storia di Purìm rivela quindi tutta la loro devozione all’identità ebraica e il loro profondo riconoscimento di Dio come Signore del loro destino.
(vedi questo fantastico video per capire meglio
https://youtu.be/1cA9ri3Vc68)

Dall’esilio Alla Redenzione
Fu proprio questo atteggiamento interiore che consente il grandioso miracolo, rovesciando l’intera situazione: tutti i poteri mobilitati contro il popolo ebraico sono usati alla fine a loro beneficio.
Purìm è quindi un esempio eterno di come l’ebreo debba considerare l’esilio e come, con il suo impegno, possa trasformarlo in una forza positiva.
Questa lezione è quanto mai rilevante ora, negli ultimi momenti dell’ultimo esilio. In attesa della rivelazione messianica, dobbiamo seguire l’esempio datoci da Mordekhày ed Estèr e diffondere il bene, la giustizia e i valori della Torà nelle società in cui viviamo. I valori spirituali sono sempre più sommersi davanti all’avanzata del culto del corpo, della bellezza fisica e del “dio denaro”, che è simboleggiato da Amalèk e che dobbiamo annullare di Purìm e Shabbàt Zakhòr (che è lo Shabbat prima di Purìm, ovvero stasera).
Ciò affretterà l’avvento della redenzione finale, una redenzione che non permetterà mai più alcun esilio, Amen.

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Midrash racconto sulla parashà di Tetzave

Il verme e il demone saggio
Hashèm ordinò che le pietre preziose del khòshen e dell’efòd fossero perfette, senza la minima scalfittura. Siccome non è possibile incidere delle lettere per mezzo di uno strumento, perché questo potrebbe scheggiarle, come si riuscì, dunque, a incidere sulle pietre i nomi delle tribù? Tramite lo shamìr. Lo shamìr era una creatura piccola come un chicco d’orzo ed era stata creata l’èrev Shabbàt dei sei giorni della Creazione. Lo shamìr aveva la capacità straordinaria di fendere anche le rocce più dure. I nomi delle tribù furono scritte sulle pietre preziose con l’inchiostro, poi venne fatto scorrere lo shamìr lungo ciascuna delle iscrizioni e le intagliò con una tale precisione che non andò perduta nemmeno un po’ di polvere delle pietre.

Re Shelomò ricevette in dono da Hashèm una sapienza che nessun altro essere umano possedeva. In virtù di questa saggezza di ispirazione divina, il suo potere non era esteso solo agli uomini e agli animali, ma anche agli shedìm (demoni o spiriti malvagi).

Quando re Shelomò decise di costruire il Bet Hamikdàsh, interrogò i saggi: «Com’è possibile tagliare le pietre del Bet Hamikdàsh senza fare uso di uno strumento?»
Essi risposero: «Per mezzo dello shamìr. Moshè si servì di questa creatura per tagliare le pietre preziose destinate all’efòd».
«Come posso trovare lo shamìr?» chiese re Shelomò.
«Consulta gli shedìm» gli consigliarono i saggi. «È probabile che lo sappiano: costringili a rivelarti il segreto»
Re Shelomò cercò di piegare gli shedìm alla sua volontà, ma essi gli dissero: «Non sappiamo dove si trova lo shamìr. Chiedi ad Ashmadày, il re degli shedìm. Forse lui lo sa».
«E dove vive Ashmadày?» domandò Shelomò. I demoni gli rivelarono il nome della montagna in cui Ashmadày aveva stabilito la sua dimora, e aggiunsero: «Ashmadày ha scavato un pozzo sulla montagna e l’ha riempito d’acqua. Ogni giorno, lo chiude con una pietra (per timore che qualcuno possa prendere l’acqua del suo pozzo), poi vola negli spazi celesti. Egli non beve l’acqua del suo pozzo se non dopo aver controllato la chiusura per essere sicuro che sia rimasto sigillato».
Shelomò incarico il suo saggio consigliere Benayàhu ben Yehoyadà di catturare Ashmadày. A questo scopo, gli consegnò una catena e un anello sui quali vi era inciso il Nome divino; inoltre gli diede della lana e degli otri pieni di vino. Benayàhu si diresse verso la montagna indicata dagli shedìm. Egli trovò il pozzo di Ashmadày, scavò una seconda cavità al di sotto, praticò un foro sul fondo del pozzo e trasferì l’acqua nel secondo pozzo. Poi, riempì di vino il pozzo di Ashmadày e coprì il buco con la lana che gli aveva consegnato Shelomò.
La sera, quando Ashmadày tornò, fu sorpreso di trovare del vino nel suo pozzo, sebbene il sigillo fosse intatto. Egli non bevve per timore di inebriarsi, ma aveva molta sete e il suo desiderio di placarla si faceva sempre più pressante: si chinò, bevve e cadde in un sonno profondo.

Benayàhu scese dall’albero sul quale si era nascosto e attaccò la catena intorno al collo di Ashmidày. Quando si svegliò e si accorse di essere incatenato, egli tentò furiosamente di rompere le sue catene.
«Fermati!» gli gridò Benayàhu. «Il nome di Hashèm, tuo Padrone, è su di te!»
Ashmadày, allora, permise a Benayàhu di condurlo da re Shelomò. Durante il cammino, egli provocò distruzione ovunque: spezzò un albero e demolì una casa. Quando passarono davanti alla capanna di una vedova, ella lo supplicò di risparmiarla. Ashmadày ebbe pietà della donna, ma quando se ne andò si ruppe un osso. «Come sono vere le parole di Shelomò!» esclamò. «Una parola dolce spezza le ossa» (egli ammise che la sua forza era stata spezzata dall’umiltà di una povera vedova).

Alla fine, giunsero a Yerushalàyim. Dopo tre giorni di attesa, Ashmadày venne ricevuto da re Shelomò. Il re dei demoni con un metro misurò quattro amòt, gettò il metro ai piedi di Shelomò e urlò: «Ecco la grandezza della tua tomba! Perché ti ostini a conquistare nuovi territori e mi scomodi dai confini della terra per farmi comparire davanti a te?»
«Io sono venuto a disturbarti» gli rispose Shelomò «perché desidero scoprire il luogo in cui si trova lo shamìr. Voglio costruire il Bet Hamikdàsh secondo il comando di Hashèm».
«Lo shamìr non è stato affidato a me» rispose Ashmadày. «Hashèm ha designato come suo custode l’angelo del mare. Questi l’ha consegnato all’uccello Bor (un tipo particolare di volatile), esortandolo a custodirlo con grande scrupolo».

Shelomò ordinò a uno dei suoi servitori di andare a catturare l’uccello Bor, e gli diede a questo scopo una campana di vetro.
Il servitore trovò il nido dell’uccello Bor, ma l’uccello non c’era. Egli, allora, ricoprì con la campana di vetro il nido con i pulcini. Quando l’uccello tornò, vide che l’avevano separato dai suoi piccoli, allora volò via e ritornò portando nel becco lo shamìr, che mise sulla campana di vetro. Subito il servitore si mise a urlare e l’uccello fuggì, così poté prendere lo shamìr per portarlo al re Shelomò.
Quando l’uccello Bor si accorse di aver tradito il giuramento fatto all’angelo del mare, per non aver custodito lo shamìr, si impiccò (Hashèm non aveva affidato lo shamìr agli umani, perché temeva che lo avrebbero utilizzato per scopi malvagi, tentando di fare il mondo a pezzi. È il motivo per cui l’uccello Bor si tolse la vita quando capì che lo shamìr era caduto nelle mani degli uomini).

Benayàhu, allora, interrogò Ashmadày che insegnò al re e ai suoi consiglieri alcune cose molto sagge:
Che gli uomini gioiscono spesso in momenti in cui farebbero meglio ad affliggersi.
Che gli uomini fanno dei preparativi per vivere una lunga vita invece di predisporsi per la vera vita nell’Olàm Habà.
Che molti uomini trascorrono la loro esistenza a perseguire dei tesori nascosti, senza essere consapevoli di ciò che è alla loro portata.

Il Maharàl, secondo il suo metodo di interpretazione simbolica delle aggadòt khazàl, spiega che lo scambio fra acqua e vino effettuato da Benayàhu, così come il fatto di aver incatenato Ashmadày, sono azioni simboliche. Il loro significato è che Shelomò trasformò l’essenza del demone per metterlo sotto il suo dominio. Allo stesso modo, lo shamìr affidato all’uccello Bor, e l’uccello Bor che si suicida, non sono che simboli di concetti metafisici.

Estratto dal Midràsh Racconta ed. Mamash.
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Lezione di Purim bomba:
SEGRETO DELLA GUERRA DELL’OPPIO TRA CINA E GRAN BRETAGNA
https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10155987323095540

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COME LEGGERE IL GIORNALE!
Al seguente link la pagina web della lezione della nostra parashà in formato mp3:

PURIM COME LEGGERE IL GIORNALE!

Al seguente link potrai scaricare la lezione della Parashà di questa settimana:

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PURIM: REALTÀ MASCHERATA!
Gli ebrei invitati alla “Casa Bianca” persiana, dimenticarono il vero RE!
Al seguente link troverai la lezione sulla nostra parashà con il link a scaricare il file audio:

PURIM: REALTÀ MASCHERATA!

dal seguente link si può scaricare immediatamente senza aprire la pagina web:
www.virtualyeshiva.it/files/11_03_15_purim5771low_natura_maschera_nome_persiano.mp3
(chi volesse ricevere il link della lezione tramite whatsapp e scaricare sul cellulare può mandarmi la richiesta)
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Per ascoltare le altre lezioni sulla parashà:
http://www.virtualyeshiva.it/2020/03/01/tetzavve-5774-tre-lezioni/
Per ascoltare le altre lezioni su Purim:
http://www.virtualyeshiva.it/2019/03/20/purim-5774-cinque-lezioni/

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Lo Shabbàt che cade prima di Purìm è chiamato anche Shabbàt Zakhòr – Shabbàt del Ricordo. Si tratta del secondo dei quattro speciali Shabbatòt, il cui nome deriva dalla lettura aggiuntiva di Torà tratta da Devarìm 25, 17-19 dove viene comandato “di ricordare” cosa ‘Amalèk ha fatto a Israèl. La credenza tradizionale è che Hamàn fosse un diretto discendente di Agàg, il re degli amalekiti.
Tutti, uomini e donne, siamo pertanto tenuti ad andare al tempio Shabbàt mattina per ascoltare la lettura della Torà, nonostante il corona virus.
A Purìm si usa offrire denaro ai poveri (matanòt laevyonìm), come menzionato nella storia della Meghillà, e consumare un pasto festivo (Seudà) durante il giorno (quest’anno martedì 10 Marzo).
L’ultima delle mitzvòt di Purìm è quella dei mishlòakh manòt che consiste nell’inviare doni agli amici. La fonte si trova nella Meghillà dove si dice che Mordekhày ed Estèr istituirono questa pratica. Essi desideravano ricordare agli ebrei che anche durante la celebrazione della loro miracolosa salvezza devono pensare agli altri. Bisogna mandare un dono almeno a un amico contenente due generi di cibi o bevande pronti da consumare.

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La Parashà di Tetzavvè tratta in sintesi i seguenti argomenti:

HaShèm impartisce a Moshè le istruzioni concernenti il confezionamento degli indumenti del Sommo Sacerdote e dei sacerdoti semplici, che presteranno il culto ne Tabernacolo.
Il Sommo Sacerdote indosserà otto indumenti: l’efòd, il pettorale, la veste, il diadema, la tunica, il turbante e la fascia. Il vestiario del sacerdote semplice sarà, invece, limitato a quattro capi: La tunica, la fascia, il copricapo e i calzoni.
HaShèm istruisce Moshè sul rituale di investitura che renderà Aharòn e i suoi figli sacerdoti, per l’eternità.Il rituale consiste nell’esecuzione di determinate offerte farinacee e di particolari sacrifici, nell’immersione rituale e nella vestizione degli abiti sacerdotali.

MIDRASHIM

Donare per elevarsi.
(a pagina 685 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Il significato simbolico del Mishkàn.
(a pagina 689 del volume Shemòt edizioni Mamash).

APPROFONDIMENTI KHASSIDICI

Singolarità e peculiarità.
(a pagina 754 del volume Shemòt edizioni Mamash).

HaShèm risiede fra noi.
(a pagina 758 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Uno per tutti.
(a pagina 750 del volume Shemòt edizioni Mamash).

TETZAVVE 5771 – ATTIVARE LA GIOIA + MOLTO RUMORE PER QUALCOSA!
Come far nascere le emozioni? Un insegnamento che deriva dagli abiti del Cohen gadol. Stare nascosti o fare rumore? La via giusta per la nostra generazione.

TETZAVVE 5769 – L’AMORE NON È BELLO SE NON È LITIGARELLO!
Che cosa significa essere orfani spiritualmente? I tipi di unione tra Hashem e l’uomo legati ai sacrifici: quella del korban e quella dell’incenso. Due matrimoni diversi. Le interpretazioni Talmudiche e i significati profondi legati ai sacrifici.

TETZAVVE 5768 – IL SILENZIO DELL’OLIO CHE BRUCIA!
Quando c’è un contrasto, consegue rumore. Quando c’è vicinanza, c’è silenzio. Hitpaalut e dvekut, due stati emozionali diversi della preghiera, due condizioni per unirsi a D-o.