TERUMÀ 5784: 9 LEZIONI

11 Febbraio 2024 0 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 17 Febbraio 2024, 8 Adàr Rishon 5784, leggeremo la Parashà di

Terumà Es. 25,1-27,19

Si legge l’Haftarà di:

I Re 5:26-6:13

La Parashà di Terumà è composta da 146 versetti.

La Parashà di Terumà contiene 2 comandi e 1 divieto.

Seguendo una progressione storica e temporale ben definita, la nostra epoca è caratterizzata dal prevalere dell’agire umano sulla speculazione intellettuale e sulla ricerca mistica. Questa particolare condizione, si basa sugli insegnamenti del Ari Zal che paragona tutte le generazioni a un corpo. Le prime sono intellettuali, poiché corrispondo alla testa. Infatti la prima generazione si chiama Dor Deà (generazione intellettuale), poiché avevano la manna e potevano dedicarsi solo allo studio della Torà. Mentre la nostra generazione è paragonata ai piedi, ovvero all’azione: oggi siamo più capaci di fare concretamente il bene che di raggiungere le profondità del pensiero o le vette elevate della preghiera.
E nonostante di primo acchito possa non sembrare così, la parashà di questa settimana, Terumà, quando descrive i doni che il popolo ebraico ha dovuto portare per costruire il santuario, parla proprio della “generazione dei piedi…”, la nostra.

La parashà che leggiamo questa settimana inizia con la parola terumà, che significa offerta o donazione e viene ripetuta per tre volte. Queste ripetizioni corrispondono ai tre tipi di offerta:
a) la terumà dei shekalìm, per cui ogni ebreo al di sopra dei vent’anni dava una moneta di mezzo shèkel come partecipazione a tutti i sacrifici del Santuario per tutto l’anno;
b) la terumà degli adamìm, per le incavature-base in argento del Mishkàn (Santuario) nel deserto che era sempre una moneta di mezzo shèkel;
c) la terza è la terumà “generale” per qualsiasi altra cosa, per cui ogni uomo, donna e bambino donavano tutto ciò che il loro cuore desiderava per il Santuario senza limiti. Erano inclusi il legno di cedro per i muri, stoffa e pellame per i tendaggi, oro, argento rame e altri materiali.
L’offerta di mezzo shèkel simboleggia l’idea che possiamo ottenere tanto da soli, ma arriva il momento in cui abbiamo bisogno di unirci a qualcun altro per andare avanti insieme e diventare una cosa sola.
Le prime due offerte hanno il valore fisso di mezzo shèkel per gli adanìm, le incavature che formavano la base dell’intero Santuario. Anche se gli adanìm costituivano la parte più bassa del Santuario, tuttavia erano il fondamento su cui tutta la costruzione poggiava. Questo può alludere al fatto che, allo stesso modo, ogni uomo ha dentro di sé il desiderio di adempiere alla Volontà Divina, basato sul fatto che a livello di anima deriviamo tutti dalla stessa Essenza. Ecco il motivo per cui questa offerta non tiene in considerazione il livello economico di ognuno, poiché tutti sono uguali. Proprio come per gli adanìm, nella vita di ognuno di noi, questo è la base che costituisce il fondamento di tutto ciò che “gli viene messo sopra”.
La terza categoria è legata a ciò che “il cuore desiderava” dare, ossia qualsiasi genere di donazione al Santuario. Per fare ciò era necessario “trovare la chiave”, l’area più adatta nella quale ogni persona poteva contribuire. Per questo la Torà ci dice che chi poteva dare oro, dava oro; chi poteva dare argento, dava argento e così via.
Dio ci dà ricchezze materiali con lo scopo di trasformarle in ricchezze spirituali. Per fare ciò il nostro “dare” deve essere proporzionato alle nostre abilità e ai nostri talenti personali. La nostra essenza è uguale a quella di tutti gli altri ma, in relazione ai nostri talenti specifici, ognuno di noi ha un percorso particolare che il cuore “desidera”. Ovviamente diamo il contributo migliore nell’area in cui primeggiamo. La Torà riconosce queste nostre forze personali e ci istruisce affinché possiamo utilizzarle al massimo. Operando nella materia per fare del bene, senza necessariamente essere degli asceti o santoni. Fare concretamente il bene anziché raggiungere le profondità del pensiero o le vette elevate della preghiera, è questo che Hashèm chiede alla nostra generazione, quella “dei piedi”.

Trascendere l’Intelletto 
Il Tabernacolo
Parasha di Teruma: Esodo da 25, 1 fino a 27, 19

 

Come la Torà racconterà più tardi, Israèl commette il peccato del Vitello d’Oro quando si convince che Moshè ritarda (secondo un conteggio errato) dal scendere dal monte Sinày. Alcune persone adorano questo vitello come un idolo, conseguentemente Hashèm ritira la sua presenza dal popolo nel suo insieme.  Per ristabilire la Sua presenza tra gli israeliti, Egli comanda loro di costruire un “alloggio” trasportabile, per la Sua presenza, costituita da un santuario – tenda (il “Tabernacolo”), un cortile circostante e vari arredi collocati in posizioni specifiche all’interno di questo santuario e nel suo recinto. La settima sezione del libro dell’Esodo si apre con il comando di Hashèm a Israèl di contribuire (Terumà in ebraico) alla costruzione di questo Tabernacolo.

*

Shemòt 26, 15–30
Hashèm, successivamente, istruisce Israèl su come costruire il Tabernacolo stesso. Il tetto del Tabernacolo deve essere formato da tre strati di materiale: un arazzo tessuto, una coperta fatta di peli di capra e una copertura fatta con le pelli di ariete e un altro animale ormai estinto. Le pareti dovevano essere fatte di assi verticali di legno d’acacia.

Santa Follia
Farai gli assi del Tabernacolo in legno d’acacia, verticali. (26, 15)

Il termine ebraico per “acacia” (shità) significa “incurvato/deviato”. L’albero di acacia, infatti, è chiamato albero “piegato”, poiché non cresce dritto, ma si piega di lato. Per questo motivo, un altro significato delle lettere ebraiche che compongono la parola “piegato” è “follia” (shetùt), poiché la follia è l’atto di “piegarsi” dal “retto” sentiero dettato dalla logica (Ogni lettera ebraica ha un’energia particolare, pertanto quando due parole hanno le stesse lettere significa che sono affini, perché hanno la stessa energia.)
La follia può essere santa o empia. Quest’ultima follia è il pensiero illogico che ci porta ad andare contro la volontà di Hashèm. All’opposto, la santa “follia” è la nostra volontà di andare oltre le rigide richieste della Torà, nell’adempiere alla nostra missione divina o nel perfezionarci. Allegoricamente, quindi, posizionare verticalmente le assi di acacia “piegate”, significa usare la nostra “follia” per fini sacri. Possiamo, così trasformare questo tratto caratteriale, spesso negativo, in una forza positiva nelle nostre vite, permettendoci di raggiungere livelli di dedizione e unione con Hashèm che non saremmo in grado di raggiungere altrimenti.

*

Shemòt 26, 31–37
L’interno del Tabernacolo era diviso da una cortina in due sezioni. La prima sezione era conosciuta come la camera esterna (chiamata “santa” – Kòdesh); la sezione oltre la cortina era conosciuta come la camera interna o “Santo dei Santi” (Kòdesh Hakodashìm).

Trascendere l’Intelletto 
Un divisorio vi farà da separazione tra il Santo e il Santo dei Santi. (26, 33)
La camera esterna del Tabernacolo conteneva tre suppellettili: il Candelabro, il Tavolo dei dodici pani (entrambi discussi in questa sezione della Torà) e l’Altare dell’incenso (che sarà discusso nella prossima porzione). Il Santo dei Santi, al contrario, conteneva solo un arredo: l’Arca dell’Alleanza.
Le due camere del Tabernacolo simboleggiano le due fasi per raggiungere la consapevolezza divina. Nella camera esterna, iniziamo a orientare la nostra consapevolezza verso la Divinità, focalizzando il nostro intelletto su Hashèm. Le tre suppellettili nella camera esterna simboleggiano le tre componenti dell’intelletto: la capacità di avere delle idee, intuizioni (Khokhmà, in ebraico); la capacità di comprendere il significato di tali intuizioni (Binà); e la capacità di rendere ciò che comprendiamo rilevante per le nostre vite (Dà’at).
Una volta arrivati a una conoscenza intellettuale di Hashèm, possiamo procedere al livello successivo, la conoscenza sovra-razionale di Lui. Questa è la conoscenza della camera interna e dell’Arca contenuta in essa. In questo livello non solo il nostro intelletto, ma tutto il nostro essere è immerso nella consapevolezza divina.

Tratto dal libro Saggezza Quotidiana

FOLLEMENTE SANTI
Come di consueto, anche questa settimana, vi proponiamo un estratto del libro “Saggezza Quotidiana”
edito da Mamash. Questa opera, attraverso gli insegnamenti chassidici del Rebbe e dei suoi
predecessori, contiene originali, quanto illuminanti, ispirazioni per le nostre vite, tratte da ogni singola
porzione settimanale della Torà. Oggi, abbiamo scelto per voi due brani che parlano di come e dove
possiamo giungere nel percorrere la strada verso la consapevolezza della presenza di Hashèm in
questo mondo.
Come spesso capita, questi due brani, di primo acchito, possono sembrare molto diversi o addirittura
incongruenti tra loro, invece essi contengono, tra gli altri, un importante insegnamento circa il modo
di percorrere il processo di affinamento spirituale.
Dritti alla Meta
Probabilmente, a molti di noi è capitato, nell’adempimento del proprio “servizio” spirituale, di
provocare reazioni incredule o poco comprensive. Sia che si tratti dell’osservanza delle 613 mitzvòt
per un ebreo o dei 7 precetti noachidi (più derivati) per un non ebreo. A volte, il cercare di vivere
secondo tali precetti può risultare difficile: nell’ambiente di lavoro; o addirittura nella famiglia; o
comunque nella società in genere, spesso lontana o addirittura ostile a tutto ciò che abbia a che fare
con Dio e la religione. In qualche modo il subordinare alcune cose “materiali” al servizio divino può
risultare “eccentrico”, se non un pochino folle agli occhi dei più.
Il primo brano della “Saggezza Quotidiana” ci parla proprio della “follia” e di come essa si divida in
due grandi categorie: la follia che origina dalla “santità” e quella che trae origine dall’“empietà.”. La
follia non è altro che il deviare dal “retto” sentiero dettato dalla logica o comunque dalla “normalità”,
come intesa in un determinato periodo storico o culturale. La chassidùt ci aiuta a riflettere su come è
possibile trasformare e utilizzare una caratteristica psicologica, in genere vista come qualcosa di
negativo, in una caratteristica positiva per il nostro servizio divino.
Santo e Più Santo
Una volta che abbiamo imparato a discriminare tra un comportamento illogico o irrazionale “santo”
e uno “empio”, possiamo indirizzarci verso una ulteriore meta spirituale: utilizzare la razionalità, la
nostra mente, per cercare di comprendere Hashèm, per poi passare ad utilizzare la nostra “irrazionalità”
per comprendere che non possiamo cercare di “collegarci” ad Hashèm, nel suo aspetto sovra razionale,
solo con il nostro intelletto. Questi due aspetti sono simboleggiati dalle due camere del Tabernacolo,
il Santo e il Santo dei Santi.
Occorre dire che l’essere umano non può giungere veramente a comprendere o collegarsi all’essenza
di Hashèm, poiché infinita e al di là di ogni nostro senso o capacità. Tuttavia, Dio ci ha messo in
questo mondo al fine di fare il nostro massimo. In sostanza Hashèm non ci chiede di fare ciò che è
impossibile per noi, ma ci chiede di sforzarci di giungere al limite delle nostre capacità.
Tutto il nostro essere (la parte razionale, irrazionale, fisica e spirituale di noi) può e deve contribuire
al fine di giungere alla “natura” sovra razionale di Hashèm. A questo livello il solo intelletto non è
sufficiente!
Solo una volta che abbiamo interiorizzato questo livello di Hashèm, al di là della nostra mente, con
tutto il nostro essere possiamo veramente sentirci in grado di agire in questo modo al di là della logica
e anche al di là della cosiddetta irrazionalità. Le situazioni che agli occhi dei più, a volte, sembrano
assurdo, strano o appunto folle, in realtà nascondono Hashèm in una delle sue manifestazioni più
elevate. E in questo luogo vi è solo la verità, quella “vera” poiché eterna, come la santità rappresentata
dall’Arca contenuta nel Santo dei Santi.
Buon proseguo di lettura.
*
Terumà
Il Tabernacolo
Esodo da 25, 1 fino a 27, 19
Come la Torà racconterà più tardi, Israèl commette il peccato del Vitello d’Oro quando si convince
che Moshè ritarda (secondo un conteggio errato) dal scendere dal monte Sinày. Alcune persone
adorano questo vitello come un idolo, conseguentemente Hashèm ritira la sua presenza dal popolo
nel suo insieme. Per ristabilire la Sua presenza tra gli israeliti, Egli comanda loro di costruire un
“alloggio” trasportabile, per la Sua presenza, costituita da un santuario – tenda (il “Tabernacolo”), un
cortile circostante e vari arredi collocati in posizioni specifiche all’interno di questo santuario e nel
suo recinto. La settima sezione del libro dell’Esodo si apre con il comando di Hashèm a Israèl di
contribuire (Terumà in ebraico) alla costruzione di questo Tabernacolo.
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Shemòt 26, 15–30
Hashèm, successivamente, istruisce Israèl su come costruire il Tabernacolo stesso. Il tetto del
Tabernacolo deve essere formato da tre strati di materiale: un arazzo tessuto, una coperta fatta di peli
di capra e una copertura fatta con le pelli di ariete e un altro animale ormai estinto. Le pareti dovevano
essere fatte di assi verticali di legno d’acacia.
Santa Follia
Farai gli assi del Tabernacolo in legno d’acacia, verticali. (26, 15)
Il termine ebraico per “acacia” (shità) significa “incurvato/deviato”. L’albero di acacia, infatti, è
chiamato albero “piegato”, poiché non cresce dritto, ma si piega di lato. Per questo motivo, un altro
significato delle lettere ebraiche che compongono la parola “piegato” è “follia” (shetùt), poiché la
follia è l’atto di “piegarsi” dal “retto” sentiero dettato dalla logica (Ogni lettera ebraica ha un’energia
particolare, pertanto quando due parole hanno le stesse lettere significa che sono affini, perché hanno
la stessa energia.)
La follia può essere santa o empia. Quest’ultima follia è il pensiero illogico che ci porta ad andare
contro la volontà di Hashèm. All’opposto, la santa “follia” è la nostra volontà di andare oltre le rigide
richieste della Torà, nell’adempiere alla nostra missione divina o nel perfezionarci. Allegoricamente,
quindi, posizionare verticalmente le assi di acacia “piegate”, significa usare la nostra “follia” per fini
sacri. Possiamo, così trasformare questo tratto caratteriale, spesso negativo, in una forza positiva nelle
nostre vite, permettendoci di raggiungere livelli di dedizione e unione con Hashèm che non saremmo
in grado di raggiungere altrimenti.
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Shemòt 26, 31–37
L’interno del Tabernacolo era diviso da una cortina in due sezioni. La prima sezione era conosciuta
come la camera esterna (chiamata “santa” – Kòdesh); la sezione oltre la cortina era conosciuta come
la camera interna o “Santo dei Santi” (Kòdesh Hakodashìm).
Trascendere l’Intelletto
Un divisorio vi farà da separazione tra il Santo e il Santo dei Santi. (26, 33)
La camera esterna del Tabernacolo conteneva tre suppellettili: il Candelabro, il Tavolo dei dodici pani
(entrambi discussi in questa sezione della Torà) e l’Altare dell’incenso (che sarà discusso nella
prossima porzione). Il Santo dei Santi, al contrario, conteneva solo un arredo: l’Arca dell’Alleanza.
Le due camere del Tabernacolo simboleggiano le due fasi per raggiungere la consapevolezza divina.
Nella camera esterna, iniziamo a orientare la nostra consapevolezza verso la Divinità, focalizzando il
nostro intelletto su Hashèm. Le tre suppellettili nella camera esterna simboleggiano le tre componenti
dell’intelletto: la capacità di avere delle idee, intuizioni (Khokhmà, in ebraico); la capacità di
comprendere il significato di tali intuizioni (Binà); e la capacità di rendere ciò che comprendiamo
rilevante per le nostre vite (Dà’at).
Una volta arrivati a una conoscenza intellettuale di Hashèm, possiamo procedere al livello successivo,
la conoscenza sovra-razionale di Lui. Questa è la conoscenza della camera interna e dell’Arca
contenuta in essa. In questo livello non solo il nostro intelletto, ma tutto il nostro essere è immerso
nella consapevolezza divina.

UN CEDRO DI NOME LIBERTÀ

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10159045414860540
Un Padre Pianta gli Alberelli 210 Anni Prima, per Dar Conforto ai Suoi Figli!

In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz

Tony arriva al confine con il Messico in bicicletta con due grandi borse sulle spalle. Joe, la guardia di frontiera, lo ferma e gli dice: “Cosa hai nei bagagli?”. “Sabbia”, risponde Tony.
Joe dice: “Ok, vediamo subito se è vero. Scendi dalla bici!”. Joe prende le borse, le fa a pezzi, le svuota, ma non vi trova altro che sabbia. Mette in custodia Tony durante la notte e fa analizzare la sabbia, ma solo per scoprire che non c’è nient’altro che sabbia nei sacchi. Joe è costretto a rilasciare Tony che mette la sabbia in nuove borse e attraversa il confine.
Il giorno dopo accade la stessa cosa. Joe chiede: “Che cos’hai?” “Sabbia”, dice Tony.
Joe fa il suo esame approfondito e scopre che i sacchi non contengono altro che sabbia. Restituisce la sabbia a Tony che attraversa il confine in bicicletta. Questa sequenza si ripete ogni giorno per anni.
Poi un giorno Joe incontra Tony in un bar in Messico. “Ehi, amico”, dice Joe, “Tranquillo, sono andato in pensione. Tuttavia, ho sempre saputo che tu stavi contrabbandando qualcosa. Questo pensiero mi assilla da anni e mi sta facendo impazzire…
Non riesco a dormire. Ti prego, ora dimmi la verità cosa contrabbandavi?”.
Tony sorseggiando la sua birra gli dice: “Biciclette!”.

Preparare i Bagagli in Anticipo
Uno dei materiali più impiegati nella costruzione del Tabernacolo – argomento trattato nella parashà di questa settimana, Terumà – è il legno di cedro, “atzè shittìm”. Gran parte della struttura e molti dei vasi del Tabernacolo sono realizzati in legno di cedro.
Rashì si domanda: “In che modo i figli d’Israele sono riusciti a ottenere del legno di cedro per la costruzione del Santuario nel deserto?” Egli risponde citando l’opinione del rabbino Tankhumà: “Nostro padre Giacobbe aveva previsto, attraverso lo spirito santo, che Israèl sarebbe stato destinato a costruire un santuario nel deserto. Così portò degli alberi in Egitto, li piantò e ordinò ai suoi figli di portarli con loro quando avrebbero lasciato l’Egitto”.
Tuttavia, tutta questa storia sembra un po’ strana. Perché trasportare alberi dalla Terra Santa per piantarli in Egitto e per usarli in un edificio da costruire secoli dopo? Sicuramente, non c’era carenza di legno nel ricco Egitto, e, in ogni caso, i figli di Israèl avrebbero potuto ottenere questo legno anche nel deserto del Sinày, poiché esso non era lontano dalle zone da cui gli ebrei avrebbero potuto procurarsi del legno di cedro. Inoltre, dal giorno in cui Giacobbe discende in Egitto fino all’Esodo trascorrono ben 210 anni.
Nella vita, è bene pianificare a lungo termine. Vi sono persone che fanno i bagagli per un viaggio una settimana prima del volo. Eppure, “fare i bagagli” 210 anni prima di un viaggio, sembra un tantino “eccessivo”. Perché Giacobbe pensava di dover preparare il legno di cedro 210 anni prima che fosse necessario? Non avrebbe potuto dire ai suoi figli di procurarsi cedri in Egitto o nei dintorni?
Immaginiamo, una persona che si trasferisce dalla Russia negli Stati Uniti nel 1811. Porta con sé piantine di cedro da far crescere in America. Dice ai suoi figli che un giorno (dopo 210 anni), nel 2021, lasceranno l’America per andare a costruire un santuario nel deserto e avranno bisogno del legno di cedro. Non sarebbe stato molto più semplice e logico comperare il legno direttamente in America!
Oltretutto, nel caso di Giacobbe, quando è venuto in Egitto, aveva ben altro da pensare e da portare con sé che degli alberi di cedro: Giacobbe, all’età di 130 anni, stava trasferendo tutta la sua vita, la famiglia, il bestiame e la sua enorme ricchezza, in Egitto. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era aggiungere dei carri che trasportavano alberi di cedro!

Una Consolazione Tangibile
La risposta a questa domanda la troviamo in un discorso del Rebbe (Shabbàt Parashàt Terumà, 6 Adàr, 5747, 7 marzo 1987) il quale, con il suo eccezionale acume, spiega come la chiave di questa vicenda la troviamo proprio nel nome del Saggio che ha trasmesso questa tradizione: Rabbi Tankhumà. A conferma di ciò vediamo come Rashì, solitamente non cita gli autori degli insegnamenti del Talmud e del Midrash nei suoi commenti. Mentre qui, per spiegare questa vicenda, contrariamente al solito, egli ritiene importante citare il nome del rabbino Tankhumà di cui condivide la spiegazione del perché Giacobbe preparò ben due secoli prima i legni di cedro.
La risposta del Rebbe è che il nome Tankhumà significa “confortare e consolare”. Giacobbe, infatti, sapeva che un giorno l’Egitto, il paese che è stato così ospitale per lui e la sua famiglia, il paese salvato da suo figlio Giuseppe, avrebbe voltato le spalle a tutto Israèl trasformando il paese in un inferno. Giacobbe sapeva che le tribù di Israèl avrebbero avuto bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa di tangibile per ricordarsi che non appartenevano a quel posto; qualcosa di concreto da imprimere nei loro cuori tormentati per rammentarsi che provenivano da qualche altra parte e che un giorno avrebbero lasciato questa sorta di “campo di concentramento” e sarebbero tornati a casa.
Ma non era sufficiente la promessa che Giacobbe e Giuseppe fecero alle tribù che un giorno avrebbero lasciato l’Egitto? No, perché una promessa solo verbale a volte è insufficiente. Le persone non possono vivere di sole parole. Giacobbe aveva bisogno di dare ai suoi figli e discendenti qualcosa di tangibile che potesse confortarli e offrire un certo sollievo mentre camminavano in una “valle di lacrime” e guardavano i loro bambini affogare nel Nilo.

Alberi che Sussurrano la Speranza
Adesso è possibile comprendere meglio il significato degli alberi di cedro. Giacobbe trasportò dalla terra di Canaàn giovani e teneri alberelli di cedro e li piantò amorevolmente nel suolo egizio, istruendo i suoi figli che un giorno, quando sarebbero partiti, avrebbero portato con sé questi alberi.
Giacobbe prima e Giuseppe poi muoiono. Tutti i capostipiti delle Tribù muoiono. Successivamente tutti i nipoti morirono. Le prime generazioni di ebrei che ancora conoscevano Giacobbe e i suoi figli sparirono. Finché un giorno un nuovo faraone iniziò a schiavizzare il giovane popolo ebraico. Il lavoro brutale e i tentativi di sterminio dei bambini ebrei fecero diventare sempre più insostenibile la situazione.
Durante tutto il tempo di questa terribile condizione Israèl poteva veder crescere questi alberi. E assieme a essi anche la speranza di Israèl cresceva. Queste piante nutrivano la consapevolezza che molto prima della schiavitù egizia, questi alberi erano cresciuti nel suolo della Terra Santa, la terra promessa come eredità eterna di Israèl. Ogni generazione degli esiliati in Egitto indicò questi alberi di cedro ai propri figli e trasmise loro le istruzioni di Giacobbe di portare con sé questi alberi quando avrebbero lasciato l’Egitto, per essere trasformati nel Santuario di Dio.
E così, durante il loro lungo e aspro esilio, è come se questi alberi di cedro avessero “sussurrato” agli schiavi ebrei: “L’Egitto non è casa vostra, voi venite da un luogo più elevato e più sacro. Presto lascerete questa terra di idolatrie per essere reclamati da Dio come Suo popolo. Presto ci sradicherete da questa terra straniera e ci porterete trionfalmente al Sinai, dove farete del nostro legno di cedro una dimora per la presenza divina, che si manifesterà ancora una volta in mezzo al Suo popolo”.
Questi alberi di cedro erano un simbolo di coraggio e dignità permanente, tangibile, anche se silenzioso ma potente e alto, e di speranza in un futuro luminoso. Hanno dato a una nazione di schiavi tormentati e miserabili qualcosa a cui “aggrapparsi” in modo molto concreto, mentre lottavano sotto il giogo dei loro oppressori egiziani. Questi alberi che offrivano al popolo ebraico una certa misura di “Tankhumà – conforto” e speranza, durante i loro momenti più bui.
Quando il popolo ebraico si aggrappò ai cedri “preistorici” di Giacobbe, per un breve momento, si sentì libero. Ricordava loro che nella loro essenza non erano schiavi, non meritavano di essere picchiati e oppressi, poiché erano intrinsecamente liberi e un giorno avrebbero visto e goduto di quella libertà.

I Pilastri della Fede
“Lo tzaddìk (il giusto) fiorirà come una palma, egli crescerà come un cedro del Libano”. Così recita il Salmo 92, 13. Giacobbe, il giusto, piantò cedri in Egitto, come Dio pianta questi cedri in mezzo a noi durante la nostra lunga e turbolenta storia. La parola ebraica נשיא Nassì (principe/leader) è un acronimo della frase “Nitzotzo shel Yaakov Avinu – una scintilla dell’anima di Giacobbe nostro padre”. L’anima di ogni leader di Israèl è una propaggine dell’anima di Giacobbe, il patriarca per eccellenza. Questi sono gli tzaddikìm, tutti i Rebbe, i giganti spirituali, definiti nei Salmi “Alberi di cedro”. Sono loro che ci forniscono un collegamento con il passato e una speranza per il futuro.
Il Tzaddik è un’anima che sovrasta la fragilità e la turbolenza dell’esilio, un’anima che è radicata nelle origini di Israèl e puntata verso la Redenzione finale, un’anima i cui due piedi stanno sulla terra, ma la cui testa tocca il cielo. Quando la nostra sottomissione al mondano minaccia di sopraffarci, dobbiamo solo guardare ai “cedri” impiantati in mezzo a noi, ovvero alle guide che ci illuminano il cammino.
In questi “Pilastri” della fede che sono al di sopra del tempo troviamo consiglio, fermezza, conforto e incoraggiamento.
Grazie alla nostra capacità di collegarci ai leader della generazione, i giusti piantati nel nostro tempo, possiamo sapere chi siamo e soprattutto cosa siamo capaci di diventare.

Oltre l’Esilio, Verso la Redenzione
Questa è la funzione di ogni Rebbe a livello macro, ma in realtà ognuno è un potenziale leader anche se piccolo. Chi non è in grado di influenzare positivamente qualcuno? Chi non è in grado di confortare e consigliare spiritualmente un amico, un parente un collega di lavoro almeno una volta nella vita? Il Rebbe che è tra noi, può riferirsi a noi stessi, che possiamo ricordare che siamo “superiori” all’esilio dando un esempio caloroso, e che non dobbiamo mai arrenderci a una vita di quieta disperazione. Noi possiamo essere “ambasciatori divini” di amore, luce, speranza e redenzione.
Quando ci colleghiamo a un Rebbe, uno Tzaddik, anche noi diventiamo, almeno per un momento, liberi anche se siamo ancora in “Egitto” (in ebraico significa anche limitazione), solo perché vediamo i cedri questo ci eleva al di sopra dell’Egitto e dei blocchi mentali, emotivi che ci possono affannare. Siamo tutti esposti a sfide, ostacoli e pressioni, dobbiamo affrontare i traumi, l’oscurità, il dolore, la depressione e la delusione. Possiamo diventare apatici, cinici e indifferenti. Ma quando guardiamo i “cedri” in mezzo a noi, ricordiamo che siamo “frammenti di infinito”, inviati in questo mondo per trasformarlo. Ricordiamo che siamo in viaggio dal Sinai verso Mashìakh e per quanto possa essere bello il nostro paese o città essa non è la nostra vera casa, ma è solo una tappa temporanea del nostro viaggio verso la redenzione. Un bambino che è stato esiliato da suo padre, anche se vive in un Hotel sei stelle è sempre in esilio.
Questa è la funzione di ogni guida spirituale, “albero di cedro”, nell’ebraismo: ricordare a tutti noi che anche mentre siamo in esilio, le nostre anime possono innalzarsi sulle ali dell’eternità.

*
Tratto da un discorso del Rebbe Lubàvitch Shabbat Parashà Terumà 6 Adàr, 5747, 7 marzo 1987, che ho avuto l’onore di presenziare e sentire questa risposta direttamente dal Rebbe.

In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת אבי מורי ורבי ועטרת ראשי
יעקב בן שלמה ורחל

UN MESE FORTUNATO

Un rabbino incontra una coppia e chiede loro quanti figli hanno.
“Non siamo ancora stati benedetti con la prole”, risponde la donna.
“Allora dimmi il tuo nome e quello di tuo marito, così metterò un biglietto nel Kotel (Muro Occidentale) per una benedizione”, risponde il rabbino.
Cinque anni dopo incontra di nuovo la donna e le chiede: “Allora, come sta la famiglia?”.
“Bene, rabbino, siamo stati benedetti con 10 bambini, due parti gemellari e due trigemini”.
“Fantastico! Vorrei congratularmi con tuo marito. Dov’è?”
“È in Israele”, risponde lei
“Cosa ci fa lì?”, chiede il rabbino.
“È alla ricerca del biglietto che ha messo nel muro!”.

Dice il Talmud: colui che vuole avere successo nel lavoro pianti un Adàr (tipo di pianta). Secondo l’interpretazione dei commentatori la frase va intesa in questo modo: si pianti nel mese di Adàr, o anche si firmi nel mese fortunato per Israèl, che è Adàr. In sostanza i saggi del Talmud ci vogliono dire che ogni decisione, contratto o acquisto firmato nel mese di Adàr, il mese positivo per eccellenza, sicuramente avrà successo. Pertanto se abbiamo delle grandi decisioni da prendere o dei contratti da chiudere, affrettiamoci soprattutto adesso che siamo all’inizio di questo splendido mese. Tuttavia, sarebbe legittimo chiedersi, ma che cosa c’entra questo mese fortunato, Adàr, con la parashà di Terumà?

Un Albero Di Follia
La parashà di Terumà ci istruisce nella costruzione del Mishkàn, il Santuario che Israèl trasportava nel deserto. I muri del Mishkàn erano costruiti con assi in legno, derivate da alberi di cedro.
Possiamo trarre un grande insegnamento di vita proprio dall’uso degli alberi di cedro per il Mishkàn. La Torà, infatti chiama gli alberi di cedro “atzè shittìm”. E proprio questo nome ci aiuta a comprendere la lezione che gli alberi di cedro ci insegnano. La parola ebraica “shittìm” deriva dalla parola “shtut”, follia!
I Saggi insegnano che una persona non pecca, finché non viene stimolata da un pensiero folle, stolto. Ogni persona infatti, in cuor suo, desidera ardentemente unirsi ad Hashèm e fare la Sua Volontà. Ma allora quale pensiero stolto potrebbe spingere una persona a peccare? La risposta è che questo “pensiero folle” non è altro che lo yètzer harà, “l’istinto al male”! Il cui compito è anche quello di cercare di convince ogni essere umano che può commettere un peccato e, allo stesso tempo, continuare ad essere unito ad Hashèm. Così seducente è la sua opera che spesso una persona non ne realizza la falsità e soprattutto non realizza coscientemente la “pura follia” che è implicita nella visione tra uomo e Dio del nostro “istinto al male”. Questo appena descritto è solo un tipo di “shtut”, follia, poiché esiste, incredibilmente, anche uno “shtut positivo”. Difficile crederlo… no? Come può esistere una follia positiva?

Fare Del Bene Senza Pensare
Tuttavia se ci riflettiamo un attimo, essere folli positivamente significa fare le cose senza ragionare troppo. A volte, infatti, agire senza pensare può essere positivo. Per esempio, prima che Israèl ricevesse la Torà disse: “Naassè venishmà”, “Faremo e ascolteremo”. Ossia, il popolo ebraico promise di adempiere alle mitzvòt senza aspettare di sentire ciò che Hashèm avrebbe detto esattamente di fare. Una “gigantesca cambiale in bianco”! Questo non sarebbe un ottimo esempio di follia? Eppure Israèl promise di seguire i comandamenti di Hashèm prima di sapere quali sarebbero stati. Ossia, il popolo ebraico si prese la responsabilità di agire secondo un incredibile numero di norme, precetti di vario tipo, al fine di contribuire a rettificare l’umanità per i secoli a venire, senza sapere e conoscere le incredibili implicazioni. Questa è stata una “follia positiva”, poiché si fondava sul “kabalàt ol”, ossia prendere su di sé la decisione di adempiere alle volontà di Hashèm, solo perché questa è la Sua Volontà. Punto! Niente altro serve o sarebbe servito.
Questo ci insegna che per essere “positivamente folli” è fondamentale essere collegati con Hashèm, proprio come lo era il popolo ebraico sul monte Sinày durante il dono della Torà. Solo così possiamo “fare e poi ascoltare”, solo in questo modo possiamo sperare di aver successo.
Ogni persona ha un Mishkàn, Santuario nel cuore. Come il Mishkàn era costruito con alberi di cedro, “follia”, allo stesso modo noi possiamo costruire il nostro Santuario, insegnando alla parte di noi collegata con la follia dello “yètzer harà” a comportarsi guidata da una “buona follia”, in modo da realizzare la dimora di Hashèm in questo mondo.
Questo desiderio divino sarà completato con l’arrivo di Mashiakh presto nei nostri giorni.
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Nuova lezione bomba di questa settimana
ALLA RICERCA DELL’ARCA PERDUTA
Perché le Tavole Non Sono in Semicerchio?

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157924529605540
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TERUMA:

I TRE STRATI DELL’ANIMA
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TERUMA: I TRE STRATI DELL’ANIMA

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Non a caso la Torà viene chiamata così che nella lingua santa vuole dire HORAÀ – INSEGNAMENTO.
La Torà non è mai obsoleta perché è la parola di Dio che è al di sopra del tempo ed è immutabile perciò anche i suoi precetti sono ETERNI al di sopra del tempo. Bisogna solo entrare nella profondità del precetto e “spogliarlo” dal suo contesto per poterlo riportare in un altro contesto pratico e terreno.
A proposito del divieto di non prendere corruzione, è dovuto al fatto che perfino un onesto se riceve un favore da uno dei contendenti il suo cervello diventa storto senza volerlo, come è scritto nell’Esodo (23, 8): “poiché la corruzione acceca perfino i saggi e deforma i giusti”…
continua al seguente link con una nuova lezione video MOLTO interessante: SUBCONSCIO NELLA TORÀ
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Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
ps
articolo dell’anno scorso su Terumà molto interessante
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TRE MATERIALI X TRE TIPI DI ESILIO
Qual è la relazione tra i tre tipi di esilio e la costruzione del Tabernacolo?
Il significato dei tre materiali: oro, argento e rame.

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FOLLIA POSITIVA!
Dice il Talmud: colui che vuole avere successo nel lavoro pianti un Adar (tipo di pianta).
Secondo l’interpretazione dei commentatori la frase va intesa come: si pianti nel mese di Adar, oppure che firmi i contratti nel mese fortunato per Israèl che è il mese di Adar che è iniziato oggi.
Infatti ogni decisione, contratto o acquisto firmato nel mese di Adar, il mese positivo, sicuramente avrà successo. Se abbiamo in ballo delle grandi decisioni da prendere o dei contratti da chiudere, affrettiamoci poiché siamo all’inizio del mese.
La parashà di Terumà ci istruisce nella costruzione del Mishkàn, il Tabernacolo che è il Santuario che Israèl trasportava nel deserto. I muri del Mishkàn erano costruiti con assi in legno, derivati da alberi di cedro.
Possiamo trarre un insegnamento dall’uso degli alberi di cedro per il Mishkàn. La Torà chiama gli alberi di cedro Atzei shittìm e questo nome ci aiuta a comprendere la lezione che gli alberi di cedro ci insegnano. La parola ebraica shittà deriva da shtut – follia.
I Saggi insegnano che una persona non pecca, finché non viene stimolata da un pensiero folle, stolto. Ogni ebreo desidera unirsi ad Hashem e fare la Sua Volontà. Ma allora quale pensiero stolto potrebbe spingere una persona a peccare? Il yetzer harà che cerca di convincerla che può commettere il peccato e continuare a essere unita ad Hashem. La persona non sempre realizza che ciò non è vero, e che crederci è pura follia.
Questo è un tipo di shtut, ma esiste anche uno shtut positivo. Come può esistere una follia positiva? Le cose buone non possono essere folli.
Essere folli significa fare le cose senza pensare. Ma a volte agire senza pensare può essere positivo. Per esempio, prima che Israèl ricevesse la Torà disse: naasè venishmà, faremo e ascolteremo. Essi promisero di adempiere alle mitzvà senza aspettare di sentire ciò che Hashem avrebbe detto loro di fare.
Questa era una follia? Beh, gli ebrei non potevano immaginarsi ciò che Hashem avrebbe chiesto loro, prima di fare la promessa. Essi promisero di seguire i comandamenti di Hashem prima di sapere quali sarebbero stati. Questa è una shtut positiva.
Un shtut positivo è la kabalàt ol, ossia prendere su di sé la decisione di adempiere alle mitzvòt di Hashem, e studiare la Torà solo perché questa è la Volontà di Hashem.
si racconta la storia di un uomo che, nonostante vivesse in modeste condizioni, offriva spesso il proprio aiuto a poveri e forestieri invitandoli a recarsi nella sua casa, per mangiare un buon pasto. La sua generosità era davvero speciale in proporzione alla sua condizione economica.
Grazie a questi atti di bontà, egli fu benedetto con grandi ricchezze e presto si trovò ad abitare in una bellissima casa signorile. Però, iniziò ad avvenire un cambiamento e lentamente i poveri non furono più ospiti benvenuti. Inizialmente fu un accenno, poi un invito ad andarsene, infine non li lasciava nemmeno più entrare nella sua bella casa, per paura che rovinassero i tappeti pregiati fatti a mano. E quando i suoi “amici” poveri gli chiedevano aiuto, lui incurante gli rispondeva di lavorare di più e più duramente.
Appena la notizia del suo cattivo comportamento si diffuse venne a trovarlo il suo saggio Rabbino.
Mentre parlavano nella grande casa, il Rabbino gli indicò un enorme specchio appeso al muro che dava sulla strada e, simulando ignoranza, disse: “Che strana finestra! Tutto ciò che vedo è me stesso! Dove sono tutte le persone in strada?”
L’uomo, ridendo, rispose: “Rabbi non è una finestra, è uno specchio.”
“Ma non capisco” disse il Rabbino, “è fatto di vetro, come una finestra?”
“Se fosse solo vetro si potrebbero vedere le persone che passano sulla strada. Ma questo è uno specchio, un vetro ricoperto da una lastra d’argento. Per questo vedi solo te stesso.”
“Aha!” disse il saggio Rabbino. “Ora capisco il problema. Quando aggiungi l’argento, tutto ciò che vedi è SOLO TE STESSO!”
(consiglio altamente di vedere il seguente video che narra molto bene questo racconto https://youtu.be/PI8uRBN3dew)
Non c’è niente di male nel benessere materiale, fin tanto che viene gestito nella maniera appropriata. La nostra lettura settimanale della Torà ci insegna che oggetti lussuosi e puramente fisici possono anche essere usati per servire Hashèm. Ogni cosa, se utilizzata nel modo corretto, può essere elevata e impiegata per scopi spirituali e santi.
Il Rebbe di Lubavitch una volta visitò un campeggio estivo dove vide un avviso che diceva: “Il denaro è la radice di ogni male”. Il Rebbe commentò che il cartello non era corretto; il denaro, come qualunque altra cosa, può essere usato per buoni o cattivi propositi. Dipende TUTTO dalla persona che ne fa uso.
IL DENARO NON È LA RADICE DI OGNI MALE!
Questo concetto è evidenziato nella parashà: “…essi erigeranno per Me un santuario e IO dimorerò in mezzo a loro”. La Torà non dice “in mezzo ad esso” ma “in mezzo a loro”.
Midràsh spiega che Dio desidera dimorare in un luogo che si trovi in basso, nel mondo fisico, in ebraico DIRA BETAKHTONIM.
Questo si ottiene attraverso l’adempimento quotidiano delle mitzvòt che ci permettono di usare le cose materiali, in nostro possesso, per collegarci alla nostra sfera spirituale. In questo modo creiamo le condizioni affinché Dio possa dimorare “in loro”, ovvero in ognuno di noi. Solo così gli oggetti materiali ci “donano” la facoltà di condurre HaShem dentro di noi, ogni giorno della vita. Solo quando riusciamo a creare una “dimora” per Dio, dentro di noi, possiamo sperimentare una nuova dimensione e significato della nostra esistenza.
Ma come possiamo realizzare questo processo di rettificazione della materia?
La parashà di Terumà parla dell’oro, dell’argento e degli altri metalli preziosi che venivano usati, per vari scopi, nel Mishkan (Tabernacolo) e, in seguito, Santuario di Gerusalemme. Questa porzione, a prima vista, sembra porre un’enfasi eccessiva sulle sostanze fisiche e materiali. Ciò in apparente contrasto con le questioni spirituali che costituiscono l’essenza della Torà e dell’ebraismo.
Talenti Personali
La risposta la troviamo proprio nella parashà di questa settimana, Terumà che significa offerta o donazione. Questa parola la troviamo usata per tre volte in corrispondenza ai tre tipi di offerta:
la terumà degli adanìm, per le incavature-base in argento del Mishkàn (Santuario) nel deserto MEZZO SHEKEL;
la terumà dei shekalìm, per cui ogni ebreo, al di sopra dei vent’anni, dava una moneta di MEZZO SHEKEL, come fondo per i sacrifici pubblici e come espiazione per il peccato del vitello d’oro;
per ultima, la terumà “generale”, un’offerta, che ogni uomo, donna e bambino facevano per realizzare i loro desideri per il Santuario, secondo i loro cuori. Erano inclusi il legno di cedro per i muri, stoffa e pellame per i tendaggi, oro, argento rame e altri materiali.
La prima offerta aveva il valore fisso di MEZZO shèkel per gli adanìm (le incavature che formavano la base dell’intero Santuario). Anche se gli adanìm costituivano la parte più bassa del Santuario, tuttavia erano il fondamento su cui tutta la costruzione poggiava.
Questo può alludere al fatto che, allo stesso modo, ogni ebreo ha dentro di sé il desiderio di adempiere la Volontà Divina. Questo sentimento nasce da una “base” comune che è il livello dell’anima, la quale deriva dalla stessa Essenza e quindi è uguale per tutti.
Questa determinazione innata ad accettare il giogo divino, chiamato KABALAT OL è il motivo per cui questa offerta non tiene in considerazione il livello economico di ognuno, poiché tutti sono uguali e le nostre anime sono della stessa essenza. Questa percezione della vera realtà è la base, il fondamento di tutto ciò che “viene messo sopra” nelle nostre vite, proprio come gli adanìm/basi del Santuario.
La seconda offerta, quella di MEZZO shèkel, simboleggia l’idea che è possibile ottenere tanto anche da soli, ma quando arriva il momento (e prima o poi arriva sempre..) occorre sapersi unire a qualcun’altro, per andare avanti insieme e diventare una cosa sola. Solo mettendo assieme due mezzi shekèl è possibile ottenere una moneta intera. QUESTO è l’unico modo per espiare il peccato del vitello d’oro. Peccato che si fonda sulla vanitosa pretesa di poter sostituire Mosè con un altro tramite: il VITELLO. Perciò la rettificazione di questo atto avviene solo attraverso un MEZZO SHEKEL, che simboleggia l’umiltà.
La terza categoria era legata a ciò che “il cuore desiderava” dare, ossia qualsiasi genere di donazione al Santuario. Per fare ciò era necessario “trovare la chiave”, il campo più adatto nella quale ogni persona poteva contribuire meglio. Per questo la Torà ci dice che chi poteva dare oro, dava oro; chi poteva dare argento, dava argento e così via.
Il fatto che Hashem ha ordinato di separare la prima raccolta per le fondamenta da tutti gli altri oggetti del Tabernacolo è per insegnarci che tutti abbiamo nella nostra anima: LA STESSA ESSENZA E IL SENTIMENTO DI UNIONE INFINITA AD HASHEM E LA MEDESIMA SOTTOMISSIONE AL GIOGO DIVINO.
Dio ci dà ricchezze materiali con lo scopo di trasformarle in ricchezze spirituali. Per fare ciò il nostro “dare” deve essere proporzionato alle nostre abilità e ai nostri talenti personali. La nostra essenza è uguale a quella di tutti gli altri, ma, in relazione ai nostri talenti specifici, ognuno di noi ha un indirizzo particolare che il cuore “desidera”. Ovviamente diamo il contributo migliore nell’area in cui primeggiamo. La Torà riconosce queste nostre forze personali e ci istruisce affinché possiamo utilizzarle al massimo.
lo scopo di tutta la Creazione del mondo si trova nella parashà di questa settimana:
MI FARETE UN SANTUARIO E RISIEDERO’ DENTRO DI VOI. Dio desidera una dimora nel mondo materiale. Ognuno di noi ha il compito di crearla, collaborando con gli altri secondo le nostre abilità, talenti e inclinazioni. Non abbiamo bisogno di grandi ricchezze materiali, ma solo tanta buona volontà, per scoprire quale è il miglior “materiale” da donare alla casa di Dio.
Ogni Generazione Suo Compito
Seguendo una progressione storica e temporale ben definita, la nostra epoca è caratterizzata dal prevalere dell’agire umano, sulla speculazione intellettuale e sulla ricerca mistica. Questa particolare condizione, si basa sugli insegnamenti del santo maestro Ari Zal che paragona tutte le generazioni a un corpo. Le prime sono intelletuali poiché corrispondo alla testa. Infatti la prima generazione si chiama Dor Deà (generazione intelletuale), poiché aveva la manna e poteva dedicarsi solo allo studio. Mentre la nostra generazione è paragonata ai piedi, ovvero all’azione: oggi siamo più capaci di fare concretamente il bene che di raggiungere le profondità del pensiero o le vette elevate della preghiera.
Quando arriviamo alla settima porzione di Shemòt è il momento di riflettere sullo scopo della nostra esistenza e chiederci dove siamo e se stiamo ottimizzando le qualità della nostra generazione del tallone. Come scrive il Tanya il compito principale di queste generazionni è quello di fare opere di bene e benevolenza, al fine di trasformare questo mondo in una dimora per Dio e permettere cosi l’arrivo di Mashiakh, presto ai nostri giorni, Amen.

La Parashà di Terumà tratta in sintesi i seguenti argomenti:

HaShèm impartisce a Moshè il comando di raccogliere dal popolo le offerte delle materie prime necessarie per l’edificazione del Mishkàn, (il Tabernacolo), dei suoi arredi, dei suoi utensili e dei suoi tendaggi.
HaShèm comanda la costruzione dell’arca santa, in cui saranno custoditi le Tavole della Legge,del tavolo dei pani di presentazione e del candelabro a sette bracci.
HaShèm ordina,quindi,il confezionamento dei tendaggi e delle assi per le pareti che costituiranno la struttura dell’edificio.In seguito parla del divisorio di partizione, una sorta di sipario che dividerà il Santo dal Santo dei Santi.
La Parashà si conclude con l’ordine di fabbricare l’altare di rame, detto anche l’altare dell’olà, sul quale verranno eseguiti i sacrifici.

MIDRASHIM

Donare per elevarsi.
(a pagina 685 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Il significato simbolico del Mishkàn.
(a pagina 689 del volume Shemòt edizioni Mamash).

APPROFONDIMENTI KHASSIDICI

Singolarità e peculiarità.
(a pagina 754 del volume Shemòt edizioni Mamash).

HaShèm risiede fra noi.
(a pagina 758 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Uno per tutti.
(a pagina 750 del volume Shemòt edizioni Mamash).

TERUMA 5771 – I TRE STRATI DELL’ANIMA
La visione del mondo secondo il Tanya: l’oro è più brillante se insieme al legno e non da solo.

TERUMA 5770 – EDUCAZIONE: DEMONI O ANGELI?
Perché alcuni figli crescono educati con valori, ed altri no? Il valore dell’educazione e di un ambiente famigliare sano, fondato sulla Torà, è la base per una crescita positiva di un figlio.

TERUMA 5769 – 1990: INCONTRO CON IL DALAI LAMA E GLI EBREI!
Il Segreto delle stanghe dell’Arca Santa. Perché l’Arca Santa doveva essere sempre pronta per viaggiare e avere i bastoni dentro?

TERUMA 5768 – TRE MATERIALI X TRE TIPI DI ESILIO
Qual è la relazione tra gli esilii e la costruzione del Tabernacolo? Il significato dei tre materiali: oro, argento e rame.

TERUMA 5767 – LA FORZA DEL LEGAME CON HASHEM!
Il Santuario: una casa per Hashem, una casa per ogni ebreo. Il legame unico ed inscindibile che ogni ebreo ha con D-o.

TERUMA 5766 – TZEDAKKA: QUALITÀ E NON QUANTITÀ
Come imparare a valorizzare la Tzedakkà! Il valore della decima: dettagli e significato.