BESHALLAKH, TU BSHVAT 5784: 9 LEZIONI PRECEDENTI

21 Gennaio 2024 1 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 27 Gennaio 2024, 17 del mese di Shevàt 5784 leggeremo la Parashà di Beshallakh Es 13, 17 – 17, 16.

Si legge l’Haftarà di:

Italiani: Giud. Shofetìm 4,4-5, 3
Milano/Ashkenaziti: Giud.Shofetìm 4, 4 – 5, 31
Sefarditi: Giud. Shofetìm 5, 1-31

Oggi giovedì cade il 15 del mese ebraico di Shevàt e si celebra il “Capodanno degli alberi” TU BISHVAT.

Il capodanno degli Alberi
Apparentemente potrebbe sembrare una ricorrenza un po’ “strana”, rispetto alle altre ricorrenze ebraiche sempre collegata a specifici episodi della Torà. Il motivo principale di questa celebrazione (come ricordato dal Rebbe in una sua lettera) è legata al significato simbolico che l’albero ha per il servizio divino dell’essere umano. La maggior parte delle piante e particolarmente degli alberi, consiste di parti diverse divise in tre principali gruppi: la radice, il tronco principale (che porta i rami e le foglie) e il frutto (la buccia, il frutto ed il seme). Queste tre parti hanno ciascuna la sua specifica funzione. La radice è il mezzo che assicura le sostanze nutrienti necessarie alla vita della pianta nella terra. E rappresenta anche per la pianta una base solida contro il vento. Essa è, alla lunga, il fattore di vita più importante della pianta, nonostante anche le foglie contribuiscano con la linfa vitale della pianta ad assicurare l’aria e i raggi del sole, sostanze essenziali all’esistenza della stessa. Il tronco è il corpo principale dell’albero e chiaramente stimola l’accrescimento e lo sviluppo dell’albero. Ma l’albero raggiunge la perfezione solo dopo aver prodotto i frutti, poiché in essi è celato il seme per la continuità della specie, generazione dopo generazione.

L’uomo è paragonato a un albero (Deuteronomio 25, 19). Da quanto detto sopra, possiamo apprezzare meglio la somiglianza tra la struttura dell’albero e il significato spirituale che essa rappresenta per ognuno di noi: la radice è la fede che lega una persona alla sua origine divina e che costantemente gli assicura il suo nutrimento spirituale. Il tronco rappresenta la Torà e le mitzvòt, che devono aumentare e rafforzarsi sempre di più come il tronco aumenta nel corso degli anni la sua capacità di sostenere e nutrire l’albero. Tuttavia è il frutto l’elemento che più di ogni altra cosa giustifica l’esistenza dell’albero, poiché esso rappresenta le buone azioni dell’uomo, proprio come il frutto da beneficio al mondo anche le buone azioni portano beneficio al mondo. Inoltre il frutto contiene dentro il seme che, a sua volta, “produce” molte altre buone azioni, come dice il Talmùd una buona azione porta un’altra buona azione.

TU-BISHVAT
Il capodanno degli Alberi

Nel 15 del mese ebraico di Shevàt (quest’anno cade il 25 gennaio) si celebra il “Capodanno degli alberi”.
Apparentemente potrebbe sembrare una ricorrenza un po’ “strana”, rispetto alle altre ricorrenze ebraiche sempre collegata a specifici episodi della Torà. Il motivo principale di questa celebrazione (come ricordato dal Rebbe in una sua lettera) è legata al significato simbolico che l’albero ha per il servizio divino dell’essere umano. La maggior parte delle piante e particolarmente degli alberi, consiste di parti diverse divise in tre principali gruppi: la radice, il tronco principale (che porta i rami e le foglie) e il frutto (la buccia, il frutto ed il seme). Queste tre parti hanno ciascuna la sua specifica funzione. La radice è il mezzo che assicura le sostanze nutrienti necessarie alla vita della pianta nella terra. E rappresenta anche per la pianta una base solida contro il vento. Essa è, alla lunga, il fattore di vita più importante della pianta, nonostante anche le foglie contribuiscano con la linfa vitale della pianta ad assicurare l’aria e i raggi del sole, sostanze essenziali all’esistenza della stessa. Il tronco è il corpo principale dell’albero e chiaramente stimola l’accrescimento e lo sviluppo dell’albero. Ma l’albero raggiunge la perfezione solo dopo aver prodotto i frutti, poiché in essi è celato il seme per la continuità della specie, generazione dopo generazione.
L’uomo è paragonato a un albero (Deuteronomio 25, 19). Da quanto detto sopra, possiamo apprezzare meglio la somiglianza tra la struttura dell’albero e il significato spirituale che essa rappresenta per ognuno di noi: la radice è la fede che lega una persona alla sua origine divina e che costantemente gli assicura il suo nutrimento spirituale. Il tronco rappresenta la Torà e le mitzvòt, che devono aumentare e rafforzarsi sempre di più come il tronco aumenta nel corso degli anni la sua capacità di sostenere e nutrire l’albero. Tuttavia è il frutto l’elemento che più di ogni altra cosa giustifica l’esistenza dell’albero, poiché esso rappresenta le buone azioni dell’uomo, proprio come il frutto da beneficio al mondo anche le buone azioni portano beneficio al mondo. Inoltre il frutto contiene dentro il seme che, a sua volta, “produce” molte altre buone azioni, come dice il Talmùd una buona azione porta un’altra buona azione.

USI E TRADIZIONI
Per Festeggiare Tu Bishvàt
Nel sedicesimo secolo, Rabbi Izhak Luria (ARIZAL), di benedetta memoria, e i suoi compagni hanno istituito l’abitudine di mangiare la frutta il giorno di Tu-Bishvat. Alcuni si cibano di 15 specie differenti di frutti, altri solo di sette specie, precisamente quelli grazie ai quali la Terra d’Israele è stata glorificata. Numerosi sono coloro che si servono a tavola di 50 generi di frutti differenti; tuttavia, tutti mangiano per primi i sette frutti appartenenti alle specie che è stata lodata la terra di Israele.
Rabbi Abba dice: «La fine dell’esilio verrà come è detto: “Voi, montagne d’Israele, voi porterete i vostri frutti per il mio popolo”».
Rasi spiega: «Quando la terra d’Israele donerà frutti in abbondanza, allora verrà la fine dell’esilio. Non c’è segno più rivelatore di questo.
A Tu Bishvàt, secondo il Maghèn Avrahàm (131, 16) Si usa mangiare molti diversi tipi di frutta.
Nel Pri Etz Hadàr, un libretto di cinquanta pagine che presenta i frutti da mangiare e i brani da leggere, composto da un anonimo studente di rabbi Yitzkhàk Luria di Tzfàt (1534-1572), il più grande cabalista, si riporta che la celebrazione cabalistica di Tu Bishvàt ebbe origine a Tzfàt, ed è strutturato come un sèder simile a quello di Pèssakh. Si mangiano tanti frutti (cinquanta, secondo alcuni) in un ordine particolare e il pasto è accompagnato dalla lettura di specifici brani dello Zòhar. Seguono i primi dodici frutti raccomandati per il seder, insieme ai temi su cui concentrarsi quando si mangia. Ci auguriamo che anche voi troviate questo seder un’esperienza liberatoria e illuminante.
Guida al Sèder
1. Radunate un gruppo di perone e comprate quante più varietà di frutta possibile, poiché il Talmùd dice che rabbi El’azàr mangiava meno e risparmiava denaro per riuscire a mangiare tutta la frutta nuova a Tu Bishvàt. Fate uno sforzo speciale per avere i dodici frutti elencati più avanti.
2. Fate (o acquistate) torte, biscotti o qualsiasi prelibatezza fatta principalmente di farina di grano.
3. Apparecchiate la tavola in modo festoso, con tovaglia, candele, fiori e così via.
4. ASSICURATEVI che ogni partecipante sappia quale benedizione dire prima e dopo ogni frutto.
5. Iniziate servendo la torta e dicendo la relativa benedizione «…borè minè mezonòt».
6. In quest’occasione, la benedizione sulla frutta va sicuramente detta per prima su uno dei frutti per cui la terra di Israele viene particolarmente elogiata (si veda in seguito, punti 2-6), scegliendo quello che preferite decisamente oppure quello più vicino alla cima della lista.
7. Secondo un’usanza, bisogna bere 4 bicchieri di vino. Il primo bicchiere deve essere versato all’inizio e si dice la benedizione sul vino tra la torta e la frutta oppure dopo essere arrivati all’uva (la quarta della lista).
8. Divertitevi, ma non siate troppo leggeri. Si tratta di un’opportunità unica per ottenere incredibili rettifiche spirituali.

I primi dodici frutti del Sèder di Tu Bishvàt
1. Il GRANO rappresenta la base del nostro sostentamento (cf. Tehillìm 81, 17; 104, 15; 147, 14) ma soltanto dopo aver faticato per coltivarlo, raccoglierlo e prepararlo. Sebbene non faccia parte del sèder, l’ORZO è uno dei sette frutti per cui viene elogiata Israele. È spesso usato per nutrire gli animali. È indicato per l’offerta dell’Òmer e per questo ispira lo sforzo di domare le nostre tendenze animali.
2. Le OLIVE rendono l’olio migliore soltanto quando il frutto viene schiacciato. L’olio d’oliva galleggia sopra ogni altro liquido.
3. I DATTERI sono spesso metafora dei giusti (Tehillìm 92, 13, Shir Hashirìm 7, 9) poiché la palma da dattero è al tempo stesso alta e fruttifera. Inoltre, così come il popolo ebraico, la palma da dattero è inattaccabile dal cambiamento dei venti.
4. L’UVA può essere trasformata in molti diversi cibi (uvetta) e bevande (vino); allo stesso modo, ogni Ebreo ha in sé il potenziale del successo in alcuni aspetti della Torà e dell’osservanza delle mitzvòt e può essere speciale a modo suo (cf. anche Tehillìm 20, 4; Hoshe’a 9, 10).
5. I FICHI devono essere raccolti appena maturano perché deteriorano facilmente. Allo stesso modo, anche noi dobbiamo essere veloci a fare le mitzvòt disponibili, prima che si “guasti” l’opportunità (cf. anche Shir Hashirìm 2, 10).
6. I MELOGRANI, si dice, hanno esattamente 613 chicchi come il numero delle mitzvòt nella Torà. Provate a contarli! In ogni caso, persino il più basso degli ebrei è pieno di merito quanto un melograno lo è di chicchi (cf. Shir Hashirìm 4, 4, 6, 7).
7. Gli ETROGHÌM (cedri) sono considerati frutti molto belli e sono molto importanti nel periodo di Sukkòt. L’etròg rimane sull’albero tutto l’anno, traendo beneficio da tutte le quattro stagioni e unificandole.
8. Le MELE maturano in cinquanta giorni. Allo stesso modo gli ebrei maturavano, e ancora oggi maturano, nei cinquanta giorni tra Pèssakh e Shavu’òt. Così come il melo produce i frutti prima delle foglie, anche gli ebrei fanno mitzvòt senza la necessità di comprendere totalmente prima “Naassè Ve-nishmà” (cf. anche Shir Hashirìm 2, 3).
9. Le NOCI si dividono in quattro sezioni che corrispondono alle quattro lettere del nome di Dio. Così come le noci hanno due gusci che devono essere rimossi, uno duro e uno morbido, anche noi dobbiamo sottoporci sia alla circoncisione fisica che a quella spirituale.
10. Le MANDORLE indicano l’entusiasmo nel servizio di Dio, poiché il mandorlo è il primo a fiorire. Per questo dal bastone di Aharòn spuntarono proprio boccioli di mandorlo (Bemidbàr 17, 23).
11.  Le CARRUBE impiegano più tempo di ogni altro frutto per maturare (cf. Ta’anìt 23a). Questo ci ricorda la necessità di investire molti anni nello studio della Torà per raggiungere una comprensione chiara e valida.
12.  Le PERE di diversi tipi conservano una somiglianza forte. Anche noi ebrei dobbiamo ricordare la somiglianza intrinseca tra tutti gli ebrei, nonostante i diversi paese di origine e le altre differenze (cf. Mishnà Kilaìm 1: 4).

Benedizioni
La benedizione fatta prima di mangiare ci aiuta a concentrare la mente sull’energia vitale e sul potenziale di innalzamento del cibo, e non soltanto sul suo sapore. Mangiare senza pronunciare la giusta benedizione equivale innanzitutto a un furto: non solo si prende senza la giusta riconoscenza, ma si priva il mondo della benevolenza divina che sarebbe stata convogliata in esso attraverso la benedizione.
Shehekhiyanu
Mangiare un frutto per la prima volta nella sua stagione costituisce un’occasione giusta per la benedizione specifica della gioia, “Shehekhiyanu”. Ci si sforza di avere un frutto su cui fare questa benedizione a Tu Bishvàt: “Che Tu sia benedetto… che ci ha concesso la vita, ci ha sostenuto e ci ha permesso di giungere a questa occasione”.

I Saggi e la frutta
Rabbi Yitzkhàk Luria dice: «Quando si mangia la frutta di Tu Bishvàt, si rifletta sul peccato di Adàm e Khavà che hanno mangiato il frutto proibito e si intenda correggerlo mangiando frutta per mitzvà».
Nel Talmùd Berakhòt 40a viene riportato: Rabbi Mèir dice: «Il frutto (dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male) era una vite…»; rabbi Nekhemyà dice: «Era frumento…» (si noti che nessuno dice che era la mela!).
Rabbi Abba diceva: «La fine dell’esilio verrà, come è detto: Voi, montagne d’Israele, voi porterete i vostri frutti per il mio popolo». Rashì spiega: Quando la terra di Israele donerà frutti in abbondanza, allora verrà la fine dell’esilio.
Sappiamo che siamo alla fine dell’esilio e già abbiamo dei segni chiari come oggi Israele è un grande produttore di frutta prelibata che viene esportata in tutto il mondo sulle tavole più importanti come la regina di Inghilterra.
Con l’augurio che presto vedremo il mondo premiato della luce infinita con l’arrivo imminente dell’era dorata dove il mondo vedrà Hashèm e non ci saranno più guerre e l’ego umano scomparirà perché il mondo sarà inondato della presenza rivelata di Dio, come il mare copre la terra.

IL RITORNO DI PARO 
BESHALLAKH

Tra le tante cose riportate in questa porzione della Torà vogliamo soffermarci su una parola specifica che appare nel versetto 14, 10: “Il faraone si avvicinò”. Questo versetto spiega come – mentre Israèl procede verso il monte Sinày, per ricevere la Torà – il faraone, dopo essere stato costretto dalle 10 piaghe a lasciare andare il popolo ebraico, ci ripensa. Quindi al comando del suo esercito insegue Israèl, mentre si trova presso la riva del Mar Rosso (Golfo di Suez). Dove Hashèm dividerà il mare permettendo a Israèl di passare in salvo, per poi affogare gli egizi in esso.
La parola ebraica utilizzata per “avvicinò”, nel versetto 10, è הקריב – hikrìv. Tuttavia, come spiega il grande Rashi, nel suo commento al versetto, il termine più corretto avrebbe dovuto essere קרב, karàv, “avvicinare”: sostanzialmente la stessa parola, ma priva di due lettere: la hey ה e la yud י.
E in base al principio secondo cui nella Torà ogni parola è “contata”, nulla è superfluo e ogni singola lettera ha una sua importanza e significato, dovremmo chiederci il motivo di questa “stranezza”. Ovviamente, molte possono essere le spiegazioni, ma qui ne vogliamo proporre una che riteniamo molto importante per il percorso spirituale di noi tutti, anche oggi.

Vicini Controvoglia
Un altro grande commentatore della Torà, Rabbènu Bekhayè, fornisce una spiegazione per quanto detto sopra: la parola hikrìv “avvicinò”, הקריב, essendo una forma intransitiva, può significare che il faraone ha “portato vicino”, ossia che la condotta del Faraone “avvicinò” gli israeliti a Dio. Questo è potuto accadere poiché ha permesso il loro pentimento, affinché potessero essere degni di essere salvati. Questa spiegazione la troviamo anche allusa e celata nelle stesse lettere adoperate per la parola “avvicinò”, come scritta nel versetto 14, 10.
Come spiegato da Rashì, la Torà avrebbe potuto usare solo 3 lettere per significare che il faraone si è avvicinato קרב: (da destra a sinistra) la kuf (ק), la resh (ר) e la vet o bet (ב). Tuttavia, se togliamo le due lettere “di troppo” alla parola הקריב, la hey ה e la yud י, otteniamo uno dei Nomi più elevati e importanti di Hashèm, il Nome י- ה. Queste due lettere, infatti, compongono le prime due del Sacro Nome impronunciabile di Dio, il Tetragramma.
Ricapitolando, una volta sottratte la hey e la yod alla parola הקריב, “si avvicinò”, otteniamo la conferma cabalistica della spiegazione data da Rabbènu Bekhayè. Cosa fece avvicinare il faraone? Fece “Avvicinare”, קרב il popolo ebraico a Dio י – ה (הקריב)!
Inoltre, a riprova di questo, Rabbènu Bekhayè cita il Talmud Sanhedrìn 97 per spiegare che tipo di “avvicinamento” o teshuvà il popolo ebraico ha compiuto. Tuttavia, in questa parte del Talmud è commentata una vicenda molto diversa, quella legata agli avvenimenti relativi la festività di Purìm. Il Talmud spiega che Dio ha permesso a un antisemita come Hamàn di poter elaborare il suo piano malvagio, solo al fine di indurre il popolo ebraico del tempo a tornare a Lui, attraverso la teshuvà.
La vicenda di Hamàn – dove si ricordano le gesta della regina Ester e di Mordekhai – è celebrata perché non solo il malvagio piano di Hamàn è fallito ma, soprattutto, perché tutta la vicenda di Purìm si fonda sulla miracolosa salvezza del popolo ebraico. Allo stesso modo il popolo ebraico sulle rive del Mar Rosso ha dovuto, attraverso la preghiera e il pentimento, ritornare a Dio al fine di permettere che il mare si aprisse.
Non solo ma se ci riflettiamo bene possiamo vedere come le due storie, quella di Hamàn e quella del popolo ebraico, alle soglie dell’apertura del Mar Rosso, hanno alcune cose in comune, ma forse in un modo diverso, più “sottile”.

Fiducie Diverse
Nella vicenda di Purìm lo schema seguito dai protagonisti, Mordekhai ed Ester, e dall’intero popolo ebraico del tempo, era sostanzialmente questo: pregare e/o digiunare e poi azione. Prima si ponevano le basi che dimostravano che Hashèm era ed è il vero padrone di tutto (digiuno, preghiera) e poi si agiva: Mordekhai anche a rischio della sua vita non si è mai inchinato ad Hamàn, il popolo ebraico ha dovuto combattere per salvare la vita e la regina Ester ha dovuto mettere in pericolo la sua vita per parlare con il re persiano, ad esempio.
Invece, nella vicenda del Mar Rosso è noto che il popolo ebraico si divise in 4 gruppi, dopo aver visto le schiere del faraone avvicinarsi: quelli che preferivano affogare piuttosto che arrendersi, chi ritornare in Egitto, chi voleva combattere gli egiziani e per ultimo chi pregare Hashèm. A tutti loro è stato detto “Non temete: state a guardare Hashèm combatterà per voi…” (14, 13.). In altre parole, è stato risposto al popolo ebraico di non fare nulla e di aspettare con fiducia che si realizzi la promessa di Hashèm. Anzi, una cosa doveva essere fatta: mettersi in marcia verso il mare con la certezza che esso si aprirà. Perché questo? Perché così aveva promesso Hashèm!
Pertanto, si può dire che il livello di fiducia in Dio e di teshuvà richiesto ai tempi di Mordekhai e Hamàn, anche se pur sempre una grande prova, non era paragonabile a quella richiesta al popolo ebraico nel deserto. Sapere di poter vincere una battaglia o di affrontare un re, anche a costo della vita, richiede certamente una gran dose di fiducia e fede in Hashèm, tuttavia si tratta di veder realizzata la salvezza implorata a Dio pur sempre attraverso atti razionali, logici e quindi comprensibili.
Il livello di Emunà fede chiesto al popolo nel deserto era di un livello che trascendeva ogni logica: camminare verso un mare MOLTO AGITATO che si sarebbe aperto…! Come chiedere a una persona di buttarsi giù da un ponte, dicendogli che gli spunteranno le ali! Inoltre, tutto ciò doveva essere fatto senza dover pregare o implorare Hashèm. Una fede assoluta, un’assoluta certezza che Hashèm agirà come ha detto e che non richiedeva neanche la preghiera o il digiuno! Una sorta di “dato di fatto oggettivo”.
Da quanto detto, sembrerebbe che l’analogia tra la vicenda di Hamàn e quella dell’esodo non sia così simile (del tipo di teshuvà). Quindi, rimane la domanda del perché Rabbènu Bekhayè abbia citato un brano del talmud che parla di Purìm, come riprova alla sua tesi circa il fatto che il faraone, inseguendo con il suo esercitò il popolo ebraico lo abbia avvicinato a Dio?

Comfort Zone
Forse la risposta la troviamo non nel lieto fine della storia di Purìm, ma nel suo antefatto, ossia nel motivo per cui il popolo ebraico si è “meritato” Hamàn. Da quanto ne sappiamo, nell’esilio persiano, il popolo ebraico non ha abbandonato la Torà di Hashèm, né tanto meno le Sue mitzvòt: vi erano sinagoghe e comunità ebraiche fiorenti dove si studiava la Torà; addirittura, all’inizio del libro di Ester, durante il grande banchetto organizzato dal re, gli ebrei hanno chiesto e ottenuto di mangiare kashèr. Quindi quale grave peccato avrebbero commesso?
Forse il peccato degli israeliti fu proprio quello di essersi “adattati comodamente” all’esilio, di trovarsi così bene in quella terra ricca e governata da un re umano, così potente e generoso, da farli sentire appagati e al sicuro. False certezze che avevano fatto perdere ogni desiderio di ritornare, magari un giorno, a ricostruite il tempio e ripopolare la terra che Hashèm ha dato al popolo ebraico come eredità eterna, Israele. In sostanza, gran parte del popolo ebraico ai tempi di Mordekhai aveva perso il desiderio di compiere la missione divina di cui Hashèm lo aveva comandato. Il pericolo mortale del progetto di Hamàn si è manifestato solo con il permesso di Hashèm, proprio per “risvegliare” questo desiderio, per far capire agli israeliti che per quando “comodo” fosse quel posto non era la loro casa, né la loro terra e né erano realmente al sicuro in essa, per quanto un re potesse sembrare buono, generoso o amico. E soprattutto che il progetto del vero padrone del mondo, di Hashèm non era quello di rimanere per sempre in esilio.
A questo punto “una domanda dovrebbe sorgere spontanea”. Cosa c’entra, con quanto appena scritto, la vicenda del popolo ebraico sulle rive del Mar Rosso? Non erano già usciti per seguire Hashèm nel deserto? Non avevano già dimostrato, almeno in una certa misura, fede in Dio?
Di primo acchito verrebbe di rispondere di sì! In fondo i partecipanti dell’esodo erano circa il 20% del popolo che, fino alla piaga del buio, erano presenti in Egitto, in terra di Gòshen. Quindi, cosa dovevano dimostrare? Tutti coloro i quali volevano uscire e seguire Hashèm e il Suo piano divino erano già lì, mentre gli altri erano morti!
Anche se queste considerazioni hanno la loro dose di verità, tuttavia, bisognerebbe capire che in fondo i “sopravvissuti” del popolo che sono usciti dall’Egitto non avevano mai dovuto agire fattivamente per ottenere questo risultato. Loro, in fondo, hanno semplicemente ammirato la forza e la grandezza di Hashèm e non hanno mai dovuto affrontare rischi o pericoli reali. Hashèm ha quasi distrutto l’Egitto e gli egiziani, ma il Suo popolo non venne quasi neanche sfiorato dalle piaghe. Invece, abbondanti sono stati i benefici di questo: la schiavitù terminò, gli egiziani hanno iniziato ad aver timore degli ebrei e rispettarli e, soprattutto, si sono arricchiti oltremisura, portandosi via oro, gioielli, bestiame ecc. In poco tempo gli ebrei sono passati dalla schiavitù più dura, “all’uscire trionfanti e a testa alta dall’Egitto”, quasi senza aver avuto il tempo di riflettere e capire, sono stati presi e portati verso il deserto, sotto la protezione di Hashèm. Ma quanti avevano veramente e consapevolmente aderito al piano divino che li avrebbe portati fino alla terra promessa, Israele?
Oltretutto, quale era il vero scopo dell’avvicinarsi del faraone con il suo esercito? Non è plausibile pensare che il faraone volesse demoralizzare il popolo ebraico per riportarli indietro in Egitto? E non è altrettanto pensabile che ameno una buona parte del popolo non rimpiangesse nel profondo suo cuore l’idea di ritornare in Egitto, ricchi e liberi? Dopo le piaghe, infatti, difficilmente il faraone avrebbe ridotto nuovamente in schiavitù il popolo ebraico. Probabilmente avrebbe potuto godere dei molti agi e lussi offerti da quel grande paese e grande re, senza dover arrischiarsi in una lunghissima, difficile e rischiosa avventura nel deserto. Il fascino della “comfort zone” probabilmente albergava in gran parte degli israeliti nel deserto, come e forse più dei loro futuri discendenti in esilio in Persia ai tempi di Ester.
Quanto detto potrebbe essere “celato” proprio nel successivo versetto di questa parashà dove è scritto che “Dissero a Moshè: È perché non ci sono tombe in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto?” (Esodo 14, 11). Appena visto il faraone con i suoi carri giungere verso di loro gli israeliti accusarono Moshè di aver messo in pericolo le loro vite nel deserto inutilmente. Tuttavia, non è solo questo, poiché la parola “tombe” nasconde probabilmente alcuni significati molto sottili e profondi circa la percezione di quello che il popolo ebraico pensava di poter fare come una sorta di “comoda alternativa” ai piani di Hashèm

Le Tombe dell’Òmer
Adesso analizziamo la parola “Tombe” קברים, kevarim presente nel versetto 11 della parashà settimanale. E con una certa sorpresa possiamo vedere come la parola “Tomba” è scritta esattamente come la parola “avvicinò” presente nel versetto 10: קרב che si legge kever. Ovviamente la parola “Tomba” al plurale è composta dalle lettere קרב + il suffisso plurale maschile della grammatica ebraica, Im – ים , formato dalle lettere ebraiche yod י e mem ם dal valore ghematrico pari a 50.
Pertanto, la parola “Tombe” potrebbe leggersi sia “Tombe” che “Avvicinare a Im”.
Adesso rimane da comprendere che significato può avere la parola “Im”, yod + mem. Questo termine, teniamolo a mente per dopo, significa anche “Mare”. Mentre dal punto di vista mistico della ghematria (valore numerico di una parola) se addizioniamo il valore di queste due lettere yod = 10 + mem = 40 otterremo 50 uno dei numeri più importanti e significativi secondo la cabala.
50 è il numero totale delle “Porte della Intelligenza” che a sua volta rappresentano anche la conclusione di un percorso di rettificazione individuale di 49° tappe che si celebra dopo il conteggio dell’Òmer. In questo conteggio noi dovremmo ogni giorno, attraverso l’interclusione delle Sefiròt che rappresentano i nostri aspetti spirituali più nascosti, raffinare noi stessi e “AVVICINARCI” ad Hashèm. Si conta l’Òmer ogni sera per 49° giorni dopo il crepuscolo, dalla seconda sera di Pèssakh fino alla sera prima di Shavuòt. E cosa festeggiamo al 50° giorno di Shavuòt? Matàn Torà, il “Dono della Torà” sul Monte Sinày, il principale scopo dell’intera quarantennale peregrinazione del popolo ebraico nel deserto.
Iniziamo a comprendere ora il significato nascosto dietro la parola “Tombe” del versetto 11? In sostanza è come se il popolo ebraico stesse dicendo a Moshè: “Perché ci vuoi far morire nel deserto non possiamo avvicinarci a Matàn Torà in Egitto?”.

*

L’Essenzialità delle Sfide Spirituali

Nell’ormai consueto appuntamento della “Saggezza Quotidiana” – il libro pubblicato da Mamash, basato sugli insegnamenti chassidici del Rebbe e dei suoi predecessori – vi proponiamo una interessante lettura della parashà di questa settimana, Beshallàkh collegata con la riflessione precedente.
Il brano del libro “Saggezza Quotidiana” che commenta il versetto 14, 10 non a caso sottolinea l’importanza delle sfide spirituali: “Quando ci troviamo di fronte a una sfida, dovremmo considerarla un’opportunità di crescita spirituale, piuttosto che cercare di evitarla. Diversamente, le comodità e l’appagamento possono farci perdere di vista le priorità, indebolendo il nostro senso di urgenza per la nostra missione divina” (citazione).
Proprio quello che una parte del popolo ebraico voleva evitare: la sfida del deserto, le sue difficoltà e contraddizioni. Si potrebbe dire anche a ben ragione! Con il senno del poi… No? Se ci pensiamo un attimo, durante i quarant’anni nel deserto accaddero eventi grandiosi e miracolosi, ma anche tragici: il Dono della Torà, la manna, ma anche la rivolta di Kòrakh, il “peccato” degli esploratori ecc… Inoltre, alla fine di questo periodo quasi l’intera generazione delle persone presenti sulle rive del Mar Rosso morirono nel deserto.
Quindi quella parte del popolo ebraico che, dal punto di vista logico e in maniera anche comprensibile, si stava lamentando con Mosè, in fondo voleva seguire la volontà di Hashèm, ma in maniera “più comoda”, in Egitto. Alcuni israeliti volevano o pensavano possibile realizzare lo scopo di Matàn Torà: la rivelazione nella materia della Luce Infinita di Hashèm, attraverso la rivelazione piena e completa dei segreti spirituali della Torà, nella “comodità” egiziana; ma senza troppo soffrire e magari “peccare” ed essere puniti.
Questa illusione è molto diffusa oggi, anche comprensibilmente, spesso si pensa di poter servire Hashèm senza annullarsi completamente al Suo disegno divino che Lui ha in serbo per ognuno di noi. Ebrei e non ebrei tutti hanno la possibilità e la grande opportunità di realizzare ora, in questo mondo, la piena e completa redenzione messianica. Hashèm, però, ci chiede solo di seguirlo con fiducia e di cercare di affrontare qualche sacrificio al fine di migliorare noi stessi giorno dopo giorno.
Per questo occorre allontanare dalle nostre menti e cuori l’idea di “crogiolarsi” nella comodità quotidianità, di sentirci appagati anche nei nostri difetti e limiti. Soprattutto di non credere e pensare di poter aver fiducia nei nostri “faraoni” esteriori o interiori. Di crederci al sicuro e appagati nella nostra “Persia” o “Egitto”, ossia nei luoghi comodi dove viviamo. Lo scopo della creazione è quello di andare verso il Monte Sinày per poter giungere alla redenzione, la “Terra Promessa”. Solo così possiamo fare in modo di “Avvicinarci al 50° livello (Im (מי, alla Torà” e non finire nella “Tomba, in fondo al mare”.
*
Beshallàkh
La Divisione del Mare 
Esodo da 13, 17 fino a 17, 16

La quarta sezione del libro dell’Esodo inizia con il Faraone che li “manda” (beshallàkh, in ebraico) fuori dall’Egitto. Israèl procede verso il monte Sinày, per ricevere la Torà, ma sono inseguiti dal faraone e dall’esercito egiziano. Hashèm divide il Mar Rosso (Golfo di Suez) permettendo a Israèl di passare in salvo, per poi affogare gli egizi in esso. Quindi, gli israeliti continuano verso il monte Sinày con Hashèm che fornisce miracolosamente cibo (manna) dal cielo e acqua da una roccia. Proprio mentre si avvicinano alla loro destinazione, gli israeliti vengono attaccati dal popolo di Amalèk.

Shemòt 14, 9–14 

Hashèm sa che Israèl non si sente totalmente libero dalle grinfie del faraone finché questi rimane in vita e sa come anche solo la potenziale minaccia di un suo inseguimento, potrebbe impedirgli di ricevere pienamente la Torà. Così, Egli rende di nuovo il faraone testardo, ispirandolo a inseguire gli ebrei sulle rive del Mar Rosso (il Mare dei Giunchi, presso il Golfo di Suez). Vedendolo avvicinarsi, Israèl viene colto dal panico.

Abbracciare le Sfide Spirituali
Il faraone si avvicinò. (14, 10)

Il Midràsh offre un’altra interpretazione: inseguendoli, il faraone attira il popolo israelita più vicino ad Hashèm, come dimostra il loro rivolgersi a Lui, quando videro avvicinarsi l’esercito egiziano.
In effetti, è spesso l’opposizione che risveglia le nostre riserve di energia più profonde. Quando ci troviamo di fronte a una sfida, dovremmo considerarla un’opportunità di crescita spirituale, piuttosto che cercare di evitarla. Diversamente, le comodità e l’appagamento possono farci perdere di vista le priorità, indebolendo il nostro senso di urgenza per la nostra missione divina. Le avversità fisiche o spirituali possono sconvolgere questo stato di apatia, minando la sicurezza in noi stessi e offrendoci l’opportunità di avanzare nella nostra relazione con Hashèm, superando l’ostacolo.

IL RITORNO DI PARO
Tra le tante cose riportate in questa porzione della Torà vogliamo soffermarci su una parola
specifica che appare nel versetto 14, 10: “Il faraone si avvicinò”. Questo versetto spiega come –
mentre Israèl procede verso il monte Sinày, per ricevere la Torà – il faraone, dopo essere stato
costretto dalle 10 piaghe a lasciare andare il popolo ebraico, ci ripensa. Quindi al comando del suo
esercito insegue Israèl, mentre si trova presso la riva del Mar Rosso (Golfo di Suez). Dove Hashèm
dividerà il mare permettendo a Israèl di passare in salvo, per poi affogare gli egizi in esso.
La parola ebraica utilizzata per “avvicinò”, nel versetto 10, è הקריב – hikrìv. Tuttavia, come spiega
il grande Rashi, nel suo commento al versetto, il termine più corretto avrebbe dovuto essere קרב ,
karàv, “avvicinare”: sostanzialmente la stessa parola, ma priva di due lettere: la hey ה e la yud י.
E in base al principio secondo cui nella Torà ogni parola è “contata”, nulla è superfluo e ogni
singola lettera ha una sua importanza e significato, dovremmo chiederci il motivo di questa
“stranezza”. Ovviamente, molte possono essere le spiegazioni, ma qui ne vogliamo proporre una
che riteniamo molto importante per il percorso spirituale di noi tutti, anche oggi.
Vicini Controvoglia
Un altro grande commentatore della Torà, Rabbènu Bekhayè, fornisce una spiegazione per quanto
detto sopra: la parola hikrìv “avvicinò”, הקריב ,essendo una forma intransitiva, può significare che
il faraone ha “portato vicino”, ossia che la condotta del Faraone “avvicinò” gli israeliti a Dio.
Questo è potuto accadere poiché ha permesso il loro pentimento, affinché potessero essere degni di
essere salvati. Questa spiegazione la troviamo anche allusa e celata nelle stesse lettere adoperate per
la parola “avvicinò”, come scritta nel versetto 14, 10.
Come spiegato da Rashì, la Torà avrebbe potuto usare solo 3 lettere per significare che il faraone si
è avvicinato קרב) :da destra a sinistra) la kuf ( ק ,(la resh ( ר (e la vet o bet (ב .(Tuttavia, se togliamo
le due lettere “di troppo” alla parola הקריב ,la hey ה e la yud י ,otteniamo uno dei Nomi più elevati e
importanti di Hashèm, il Nome ה- י .Queste due lettere, infatti, compongono le prime due del Sacro
Nome impronunciabile di Dio, il Tetragramma.
Ricapitolando, una volta sottratte la hey e la yod alla parola הקריב” ,si avvicinò”, otteniamo la
conferma cabalistica della spiegazione data da Rabbènu Bekhayè. Cosa fece avvicinare il faraone?
Fece “Avvicinare”, קרב il popolo ebraico a Dio ה – י) הקריב!(
Inoltre, a riprova di questo, Rabbènu Bekhayè cita il Talmud Sanhedrìn 97 per spiegare che tipo di
“avvicinamento” o teshuvà il popolo ebraico ha compiuto. Tuttavia, in questa parte del Talmud è
commentata una vicenda molto diversa, quella legata agli avvenimenti relativi la festività di Purìm.
Il Talmud spiega che Dio ha permesso a un antisemita come Hamàn di poter elaborare il suo piano
malvagio, solo al fine di indurre il popolo ebraico del tempo a tornare a Lui, attraverso la teshuvà.
La vicenda di Hamàn – dove si ricordano le gesta della regina Ester e di Mordekhai – è celebrata
perché non solo il malvagio piano di Hamàn è fallito ma, soprattutto, perché tutta la vicenda di
Purìm si fonda sulla miracolosa salvezza del popolo ebraico. Allo stesso modo il popolo ebraico
sulle rive del Mar Rosso ha dovuto, attraverso la preghiera e il pentimento, ritornare a Dio al fine di
permettere che il mare si aprisse.
Non solo ma se ci riflettiamo bene possiamo vedere come le due storie, quella di Hamàn e quella
del popolo ebraico, alle soglie dell’apertura del Mar Rosso, hanno alcune cose in comune, ma forse
in un modo diverso, più “sottile”.
Fiducie Diverse
Nella vicenda di Purìm lo schema seguito dai protagonisti, Mordekhai ed Ester, e dall’intero popolo
ebraico del tempo, era sostanzialmente questo: pregare e/o digiunare e poi azione. Prima si
ponevano le basi che dimostravano che Hashèm era ed è il vero padrone di tutto (digiuno, preghiera)
e poi si agiva: Mordekhai anche a rischio della sua vita non si è mai inchinato ad Hamàn, il popolo
ebraico ha dovuto combattere per salvare la vita e la regina Ester ha dovuto mettere in pericolo la
sua vita per parlare con il re persiano, ad esempio.
Invece, nella vicenda del Mar Rosso è noto che il popolo ebraico si divise in 4 gruppi, dopo aver
visto le schiere del faraone avvicinarsi: quelli che preferivano affogare piuttosto che arrendersi, chi
ritornare in Egitto, chi voleva combattere gli egiziani e per ultimo chi pregare Hashèm. A tutti loro è
stato detto “Non temete: state a guardare Hashèm combatterà per voi…” (14, 13.). In altre parole, è
stato risposto al popolo ebraico di non fare nulla e di aspettare con fiducia che si realizzi la
promessa di Hashèm. Anzi, una cosa doveva essere fatta: mettersi in marcia verso il mare con la
certezza che esso si aprirà. Perché questo? Perché così aveva promesso Hashèm!
Pertanto, si può dire che il livello di fiducia in Dio e di teshuvà richiesto ai tempi di Mordekhai e
Hamàn, anche se pur sempre una grande prova, non era paragonabile a quella richiesta al popolo
ebraico nel deserto. Sapere di poter vincere una battaglia o di affrontare un re, anche a costo della
vita, richiede certamente una gran dose di fiducia e fede in Hashèm, tuttavia si tratta di veder
realizzata la salvezza implorata a Dio pur sempre attraverso atti razionali, logici e quindi
comprensibili.
Il livello di Emunà fede chiesto al popolo nel deserto era di un livello che trascendeva ogni logica:
camminare verso un mare MOLTO AGITATO che si sarebbe aperto…! Come chiedere a una
persona di buttarsi giù da un ponte, dicendogli che gli spunteranno le ali! Inoltre, tutto ciò doveva
essere fatto senza dover pregare o implorare Hashèm. Una fede assoluta, un’assoluta certezza che
Hashèm agirà come ha detto e che non richiedeva neanche la preghiera o il digiuno! Una sorta di
“dato di fatto oggettivo”.
Da quanto detto, sembrerebbe che l’analogia tra la vicenda di Hamàn e quella dell’esodo non sia
così simile (del tipo di teshuvà). Quindi, rimane la domanda del perché Rabbènu Bekhayè abbia
citato un brano del talmud che parla di Purìm, come riprova alla sua tesi circa il fatto che il faraone,
inseguendo con il suo esercitò il popolo ebraico lo abbia avvicinato a Dio?
Comfort Zone
Forse la risposta la troviamo non nel lieto fine della storia di Purìm, ma nel suo antefatto, ossia nel
motivo per cui il popolo ebraico si è “meritato” Hamàn. Da quanto ne sappiamo, nell’esilio persiano,
il popolo ebraico non ha abbandonato la Torà di Hashèm, né tanto meno le Sue mitzvòt: vi erano
sinagoghe e comunità ebraiche fiorenti dove si studiava la Torà; addirittura, all’inizio del libro di
Ester, durante il grande banchetto organizzato dal re, gli ebrei hanno chiesto e ottenuto di mangiare
kashèr. Quindi quale grave peccato avrebbero commesso?
Forse il peccato degli israeliti fu proprio quello di essersi “adattati comodamente” all’esilio, di
trovarsi così bene in quella terra ricca e governata da un re umano, così potente e generoso, da farli
sentire appagati e al sicuro. False certezze che avevano fatto perdere ogni desiderio di ritornare,
magari un giorno, a ricostruite il tempio e ripopolare la terra che Hashèm ha dato al popolo ebraico
come eredità eterna, Israele. In sostanza, gran parte del popolo ebraico ai tempi di Mordekhai aveva
perso il desiderio di compiere la missione divina di cui Hashèm lo aveva comandato. Il pericolo
mortale del progetto di Hamàn si è manifestato solo con il permesso di Hashèm, proprio per
“risvegliare” questo desiderio, per far capire agli israeliti che per quando “comodo” fosse quel posto
non era la loro casa, né la loro terra e né erano realmente al sicuro in essa, per quanto un re potesse
sembrare buono, generoso o amico. E soprattutto che il progetto del vero padrone del mondo, di
Hashèm non era quello di rimanere per sempre in esilio.
A questo punto “una domanda dovrebbe sorgere spontanea”. Cosa c’entra, con quanto appena
scritto, la vicenda del popolo ebraico sulle rive del Mar Rosso? Non erano già usciti per seguire
Hashèm nel deserto? Non avevano già dimostrato, almeno in una certa misura, fede in Dio?
Di primo acchito verrebbe di rispondere di sì! In fondo i partecipanti dell’esodo erano circa il 20%
del popolo che, fino alla piaga del buio, erano presenti in Egitto, in terra di Gòshen. Quindi, cosa
dovevano dimostrare? Tutti coloro i quali volevano uscire e seguire Hashèm e il Suo piano divino
erano già lì, mentre gli altri erano morti!
Anche se queste considerazioni hanno la loro dose di verità, tuttavia, bisognerebbe capire che in
fondo i “sopravvissuti” del popolo che sono usciti dall’Egitto non avevano mai dovuto agire
fattivamente per ottenere questo risultato. Loro, in fondo, hanno semplicemente ammirato la forza e
la grandezza di Hashèm e non hanno mai dovuto affrontare rischi o pericoli reali. Hashèm ha quasi
distrutto l’Egitto e gli egiziani, ma il Suo popolo non venne quasi neanche sfiorato dalle piaghe.
Invece, abbondanti sono stati i benefici di questo: la schiavitù terminò, gli egiziani hanno iniziato ad
aver timore degli ebrei e rispettarli e, soprattutto, si sono arricchiti oltremisura, portandosi via oro,
gioielli, bestiame ecc. In poco tempo gli ebrei sono passati dalla schiavitù più dura, “all’uscire
trionfanti e a testa alta dall’Egitto”, quasi senza aver avuto il tempo di riflettere e capire, sono stati
presi e portati verso il deserto, sotto la protezione di Hashèm. Ma quanti avevano veramente e
consapevolmente aderito al piano divino che li avrebbe portati fino alla terra promessa, Israele?
Oltretutto, quale era il vero scopo dell’avvicinarsi del faraone con il suo esercito? Non è plausibile
pensare che il faraone volesse demoralizzare il popolo ebraico per riportarli indietro in Egitto? E
non è altrettanto pensabile che ameno una buona parte del popolo non rimpiangesse nel profondo
suo cuore l’idea di ritornare in Egitto, ricchi e liberi? Dopo le piaghe, infatti, difficilmente il faraone
avrebbe ridotto nuovamente in schiavitù il popolo ebraico. Probabilmente avrebbe potuto godere dei
molti agi e lussi offerti da quel grande paese e grande re, senza dover arrischiarsi in una lunghissima,
difficile e rischiosa avventura nel deserto. Il fascino della “comfort zone” probabilmente albergava
in gran parte degli israeliti nel deserto, come e forse più dei loro futuri discendenti in esilio in Persia
ai tempi di Ester.
Quanto detto potrebbe essere “celato” proprio nel successivo versetto di questa parashà dove è
scritto che “Dissero a Moshè: È perché non ci sono tombe in Egitto che ci hai portati a morire nel
deserto?” (Esodo 14, 11). Appena visto il faraone con i suoi carri giungere verso di loro gli israeliti
accusarono Moshè di aver messo in pericolo le loro vite nel deserto inutilmente. Tuttavia, non è solo
questo, poiché la parola “tombe” nasconde probabilmente alcuni significati molto sottili e profondi
circa la percezione di quello che il popolo ebraico pensava di poter fare come una sorta di “comoda
alternativa” ai piani di Hashèm
Le Tombe dell’Òmer
Adesso analizziamo la parola “Tombe” קברים ,kevarim presente nel versetto 11 della parashà
settimanale. E con una certa sorpresa possiamo vedere come la parola “Tomba” è scritta
esattamente come la parola “avvicinò” presente nel versetto 10: קרב che si legge kever. Ovviamente
la parola “Tomba” al plurale è composta dalle lettere קרב + il suffisso plurale maschile della
grammatica ebraica, Im – ים , formato dalle lettere ebraiche yod י e mem ם dal valore ghematrico
pari a 50.
Pertanto, la parola “Tombe” potrebbe leggersi sia “Tombe” che “Avvicinare a Im”.
Adesso rimane da comprendere che significato può avere la parola “Im”, yod + mem. Questo
termine, teniamolo a mente per dopo, significa anche “Mare”. Mentre dal punto di vista mistico
della ghematria (valore numerico di una parola) se addizioniamo il valore di queste due lettere yod
= 10 + mem = 40 otterremo 50 uno dei numeri più importanti e significativi secondo la cabala.
50 è il numero totale delle “Porte della Intelligenza” che a sua volta rappresentano anche la
conclusione di un percorso di rettificazione individuale di 49° tappe che si celebra dopo il conteggio
dell’Òmer. In questo conteggio noi dovremmo ogni giorno, attraverso l’interclusione delle Sefiròt
che rappresentano i nostri aspetti spirituali più nascosti, raffinare noi stessi e “AVVICINARCI” ad
Hashèm. Si conta l’Òmer ogni sera per 49° giorni dopo il crepuscolo, dalla seconda sera di Pèssakh
fino alla sera prima di Shavuòt. E cosa festeggiamo al 50° giorno di Shavuòt? Matàn Torà, il “Dono
della Torà” sul Monte Sinày, il principale scopo dell’intera quarantennale peregrinazione del popolo
ebraico nel deserto.
Iniziamo a comprendere ora il significato nascosto dietro la parola “Tombe” del versetto 11? In
sostanza è come se il popolo ebraico stesse dicendo a Moshè: “Perché ci vuoi far morire nel deserto
non possiamo avvicinarci a Matàn Torà in Egitto?”.
*
L’Essenzialità delle Sfide Spirituali
Nell’ormai consueto appuntamento della “Saggezza Quotidiana” – il libro pubblicato da Mamash,
basato sugli insegnamenti chassidici del Rebbe e dei suoi predecessori – vi proponiamo una
interessante lettura della parashà di questa settimana, Beshallàkh collegata con la riflessione
precedente.
Il brano del libro “Saggezza Quotidiana” che commenta il versetto 14, 10 non a caso sottolinea
l’importanza delle sfide spirituali: “Quando ci troviamo di fronte a una sfida, dovremmo
considerarla un’opportunità di crescita spirituale, piuttosto che cercare di evitarla. Diversamente, le
comodità e l’appagamento possono farci perdere di vista le priorità, indebolendo il nostro senso di
urgenza per la nostra missione divina” (citazione).
Proprio quello che una parte del popolo ebraico voleva evitare: la sfida del deserto, le sue difficoltà
e contraddizioni. Si potrebbe dire anche a ben ragione! Con il senno del poi… No? Se ci pensiamo
un attimo, durante i quarant’anni nel deserto accaddero eventi grandiosi e miracolosi, ma anche
tragici: il Dono della Torà, la manna, ma anche la rivolta di Kòrakh, il “peccato” degli esploratori
ecc… Inoltre, alla fine di questo periodo quasi l’intera generazione delle persone presenti sulle rive
del Mar Rosso morirono nel deserto.
Quindi quella parte del popolo ebraico che, dal punto di vista logico e in maniera anche
comprensibile, si stava lamentando con Mosè, in fondo voleva seguire la volontà di Hashèm, ma in
maniera “più comoda”, in Egitto. Alcuni israeliti volevano o pensavano possibile realizzare lo scopo
di Matàn Torà: la rivelazione nella materia della Luce Infinita di Hashèm, attraverso la rivelazione
piena e completa dei segreti spirituali della Torà, nella “comodità” egiziana; ma senza troppo
soffrire e magari “peccare” ed essere puniti.
Questa illusione è molto diffusa oggi, anche comprensibilmente, spesso si pensa di poter servire
Hashèm senza annullarsi completamente al Suo disegno divino che Lui ha in serbo per ognuno di
noi. Ebrei e non ebrei tutti hanno la possibilità e la grande opportunità di realizzare ora, in questo
mondo, la piena e completa redenzione messianica. Hashèm, però, ci chiede solo di seguirlo con
fiducia e di cercare di affrontare qualche sacrificio al fine di migliorare noi stessi giorno dopo
giorno.
Per questo occorre allontanare dalle nostre menti e cuori l’idea di “crogiolarsi” nella comodità
quotidianità, di sentirci appagati anche nei nostri difetti e limiti. Soprattutto di non credere e pensare
di poter aver fiducia nei nostri “faraoni” esteriori o interiori. Di crederci al sicuro e appagati nella
nostra “Persia” o “Egitto”, ossia nei luoghi comodi dove viviamo. Lo scopo della creazione è quello
di andare verso il Monte Sinày per poter giungere alla redenzione, la “Terra Promessa”. Solo così
possiamo fare in modo di “Avvicinarci al 50° livello (Im מי ,)alla Torà” e non finire nella “Tomba,
in fondo al mare”.
*
Beshallàkh
La Divisione del Mare
Esodo da 13, 17 fino a 17, 16
La quarta sezione del libro dell’Esodo inizia con il Faraone che li “manda” (beshallàkh, in ebraico)
fuori dall’Egitto. Israèl procede verso il monte Sinày, per ricevere la Torà, ma sono inseguiti dal
faraone e dall’esercito egiziano. Hashèm divide il Mar Rosso (Golfo di Suez) permettendo a Israèl
di passare in salvo, per poi affogare gli egizi in esso. Quindi, gli israeliti continuano verso il monte
Sinày con Hashèm che fornisce miracolosamente cibo (manna) dal cielo e acqua da una roccia.
Proprio mentre si avvicinano alla loro destinazione, gli israeliti vengono attaccati dal popolo di
Amalèk.
Shemòt 14, 9–14
Hashèm sa che Israèl non si sente totalmente libero dalle grinfie del faraone finché questi rimane in
vita e sa come anche solo la potenziale minaccia di un suo inseguimento, potrebbe impedirgli di
ricevere pienamente la Torà. Così, Egli rende di nuovo il faraone testardo, ispirandolo a inseguire
gli ebrei sulle rive del Mar Rosso (il Mare dei Giunchi, presso il Golfo di Suez). Vedendolo
avvicinarsi, Israèl viene colto dal panico.
Abbracciare le Sfide Spirituali
Il faraone si avvicinò. (14, 10)
Il Midràsh offre un’altra interpretazione: inseguendoli, il faraone attira il popolo israelita più vicino
ad Hashèm, come dimostra il loro rivolgersi a Lui, quando videro avvicinarsi l’esercito egiziano.
In effetti, è spesso l’opposizione che risveglia le nostre riserve di energia più profonde. Quando ci
troviamo di fronte a una sfida, dovremmo considerarla un’opportunità di crescita spirituale,
piuttosto che cercare di evitarla. Diversamente, le comodità e l’appagamento possono farci perdere
di vista le priorità, indebolendo il nostro senso di urgenza per la nostra missione divina. Le avversità
fisiche o spirituali possono sconvolgere questo stato di apatia, minando la sicurezza in noi stessi e
offrendoci l’opportunità di avanzare nella nostra relazione con Hashèm, superando l’ostacolo.

In memoria del mio carissimo amico Rav Haim Moshe Mordechai ben Dovber Shaikevitz

TU-BISHVAT
Il capodanno degli Alberi

Nel 15 del mese ebraico di Shevàt (quest’anno cade il 28 gennaio) si celebra il “Capodanno degli alberi”.
Apparentemente potrebbe sembrare una ricorrenza un po’ “strana”, rispetto alle altre ricorrenze ebraiche sempre collegata a specifici episodi della Torà. Il motivo principale di questa celebrazione (come ricordato dal Rebbe in una sua lettera) è legata al significato simbolico che l’albero ha per il servizio divino dell’essere umano. La maggior parte delle piante e particolarmente degli alberi, consiste di parti diverse divise in tre principali gruppi: la radice, il tronco principale (che porta i rami e le foglie) e il frutto (la buccia, il frutto ed il seme). Queste tre parti hanno ciascuna la sua specifica funzione. La radice è il mezzo che assicura le sostanze nutrienti necessarie alla vita della pianta nella terra. E rappresenta anche per la pianta una base solida contro il vento. Essa è, alla lunga, il fattore di vita più importante della pianta, nonostante anche le foglie contribuiscano con la linfa vitale della pianta ad assicurare l’aria e i raggi del sole, sostanze essenziali all’esistenza della stessa. Il tronco è il corpo principale dell’albero e chiaramente stimola l’accrescimento e lo sviluppo dell’albero. Ma l’albero raggiunge la perfezione solo dopo aver prodotto i frutti, poiché in essi è celato il seme per la continuità della specie, generazione dopo generazione.

L’uomo è paragonato a un albero (Deuteronomio 25, 19). Da quanto detto sopra, possiamo apprezzare meglio la somiglianza tra la struttura dell’albero e il significato spirituale che essa rappresenta per ognuno di noi: la radice è la fede che lega una persona alla sua origine divina e che costantemente gli assicura il suo nutrimento spirituale. Il tronco rappresenta la Torà e le mitzvòt, che devono aumentare e rafforzarsi sempre di più come il tronco aumenta nel corso degli anni la sua capacità di sostenere e nutrire l’albero. Tuttavia è il frutto l’elemento che più di ogni altra cosa giustifica l’esistenza dell’albero, poiché esso rappresenta le buone azioni dell’uomo, proprio come il frutto da beneficio al mondo anche le buone azioni portano beneficio al mondo. Inoltre il frutto contiene dentro il seme che, a sua volta, “produce” molte altre buone azioni, come dice il Talmùd una buona azione porta un’altra buona azione.
(continua al seguente link)
https://mailchi.mp/275a32737067/riflessione-di-vita-dalla-parasha-settimanale-7266648
oppure
https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10158980215210540
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EVVIVA LE DONNE CHE SONO LE COLONNE…

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10158981364475540

Questa settimana leggiamo nella Torà un evento che ha cambiato la FACCIA dell’umanità. Qualcosa di strabiliante accadde nella quarta porzione della Torà e non è l’apertura del Mar Rosso, ma MOLTO DI PIÙ…

Miryàm nacque nell’anno 2361 (1400 a.e.v.). Durante la sua infanzia l’oppressiva schiavitù del popolo ebraico, sotto gli egiziani, era all’apice della sua violenza. A dispetto della crudeltà subita, Israèl crebbe straordinariamente di numero e le nascite gemellari erano più la norma che l’eccezione. Preoccupato che l’unione di una forte nazione ebrea con i nemici egiziani rovesciasse il suo dominio, il Faraone fece separare i mariti dalle mogli allo scopo di diminuire l’elevato numero di nascite di bambini ebrei. Quando il piano risultò inefficace, ordinò alle due levatrici ebree, Yokhèved e Miryàm (Shifrà e Pu’à), di uccidere alla nascita tutti i bambini ebrei maschi. Alla fine diede l’ordine di gettare TUTTI i bambini maschi nel Nilo. Nessuno di questi malvagi comandi ebbe successo. Le virtuose donne continuarono a generare figli, le coraggiose levatrici sfidarono gli ordini del Faraone, e Dio salvò miracolosamente i bambini dalle acque del fiume e si prese cura di loro e li riunì alle loro famiglie.
Il leader spirituale della generazione, Amràm, divorziò da sua moglie Yokhèved per non procreare e tutto il popolo seguì l’esempio della sua guida e divorziò anch’esso. Se la situazione fosse rimasta tale il grande redentore, Moshè, non sarebbe nato e il popolo NON sarebbe uscito dall’Egitto, perché solo Moshè aveva le qualità spirituali per portare la redenzione.

Miryàm la Classica “Guastafeste”!
La piccola Miryàm di sei anni aveva il dono della profezia e sapeva che il suo futuro fratello Moshè sarebbe stato il liberatore degli ebrei. Perciò si ribellò a suo padre, Amràm, il SUBLIME maestro di tutti gli ebrei, ed ebbe il coraggio di sfidarlo dicendo: “Il Faraone ha decretato di uccidere solo i maschi mentre tu papà che hai divorziato dalla mamma sei peggio, perché lasciando la mamma non arriveranno neanche delle femmine, per le quali non vi è alcun decreto di gettarle nel Nilo”.
Miryàm alla tenera età di SOLI sei anni era riuscita a escogitare un piano per convincere il grande Amràm, padre di Moshè (la persona più saggia della generazione), dicendogli che in questo modo stava contribuendo a peggiorare il decreto del Faraone che aveva almeno escluso le donne dallo sterminio. Ella aveva visto profeticamente che un MASCHIO REDENTORE doveva arrivare dai suoi genitori e la scusa delle femmine era un pretesto per farli tornare insieme. Quando il popolo vide la guida Amràm risposarsi, tutti gli israeliti seguirono l’esempio e si risposarono con le proprie mogli.
Grazie alla DETERMINAZIONE, FEDE e SPERANZA di Miryàm suo padre si riunì con sua mamma e nacque Moshè: grazie a ciò la redenzione potrà concretizzarsi.
Quando sua madre Yokhèved partorì un maschio, sapeva che gli egizi erano in agguato per venire a prendere suo figlio e buttarlo nel Nilo, perciò fu OBBLIGATA a mettere il figlio nella cesta sull’acqua; la sopravvivenza del piccolo sembrava inverosimile. Ma la piccola profetessa Miryàm non smise di vigilare su di lui. Con fede integra, aspettò di vedere come la salvezza di Hashèm si sarebbe manifestata.
La Provvidenza Divina fu evidente. Dopo solo un quarto d’ora giunse la figlia del Faraone e il bambino venne salvato, aprendo così la via verso la fine della schiavitù e dell’oppressione (Tosfòt Sotà 11°).
La storia è molto lunga con tanti dettagli emozionanti, ma saltiamo ottanta anni e passiamo al momento in cui sta per avverarsi la profezia di una bambina di sei anni.
Quando Israèl lasciò Mitzràyim (Egitto), la fede di Miryàm continuò a essere sempre forte e incrollabile, ormai dopo le dieci piaghe tutto ciò per cui aveva combattuto e creduto si stava realizzando.

I Tamburelli di Miryàm
Dopo l’apertura del mare e la ricaduta delle acque sugli egiziani la schiavitù terminò definitivamente e Moshè e Israèl intonarono il famoso CANTO DEL MARE che leggiamo ogni mattina.
Ma le donne non si accontentarono solo di cantare come gli uomini, poiché erano più virtuose. Guidate da Miryàm presero i tamburelli e i flauti per ringraziare Dio del grande miracolo ricevuto con una lode maggiore di quella degli uomini.
Tuttavia ci si dovrebbe chiedere come ebbero quegli strumenti tra le mani mentre fuggivano frettolosamente dall’Egitto, senza neanche aver il tempo di cuocere il proprio pane? Tamburi, tamburelli e flauti non sono certo nella “lista” delle cose necessarie da portare con sé, dopo aver vissuto per ben 210 anni in una tremenda schiavitù? Forse non era il momento migliore di pensare a creare degli strumenti musicali e portarli dietro proprio quando si era in procinto di ottenere la liberazione dalla schiavitù?
La spiegazione di questo “eccentrico” comportamento la troviamo nel fatto che, ancora prima di essere completamente in salvo dagli egizi, Miryàm e tutte le altre donne si erano preparate per la vera redenzione per poter lodare il miracolo divino nella maniera migliore possibile. Le donne trascurarono i loro beni accumulati dopo due secoli di esilio e si focalizzarono SOLO su come dare massimo clamore al grande miracolo dell’apertura del mare.

Canti di Donne
La haftarà che leggiamo ogni Shabbàt tratta sempre l’argomento principale della parashà. Perciò questa settimana la haftarà parla di un CANTO, quello di Devorà, come nella parashà. Ma nei profeti abbiamo sei canti di cui uno solo di una donna; come mai viene scelto proprio quello della profetessa Devorà e non quello del grande David per esempio?
Questo ci insegna che il canto principale è quello delle donne e della profetessa Miryàm che – e lo si evince da quel momento – è stata una profetessa superiore a TUTTI, anche a suo padre la guida di quella generazione. Solo quando si conclude l’uscita dell’Egitto lei diventa la profetessa, quando si avvera completamente la redenzione tramite suo fratello Moshè e solo allora viene chiamata esplicitamente MIRYAM LA PROFETESSA.
Per questo leggiamo SOLO la haftarà di una DONNA PROFETESSA, perché il canto delle DONNE era superiore e perché Miryàm fu la protagonista di tutta la vicenda e perché SOLO grazie alla sua FERMEZZA Israèl uscì dalla schiavitù.
Non a caso in tutta la Torà il dono della profezia non viene dato quasi a nessuno e comunque nessuna donna riceve questo titolo all’infuori di Miryàm che è una delle sette donne profetesse della Bibbia, come è scritto (15, 20): “E prese Miryàm la PROFETESSA…”.

Chi dice che l’ebraismo è una religione misogina NON ha capito niente. La religione ebraica è MERITOCRATICA per eccellenza e conta chi crede, come Miryàm, nella profezia che ha avuto e non si è fatta condizionare da nessuno. Lei non ha perso mai la speranza, non si è fatta mai abbattere e deprimere dalla durissima repressione egizia. Non è importante se è una donna, non è importante se è una bambina di sei anni che sfida il leader mondiale che è il Faraone oppure la guida degli israeliti suo padre, ma visto che lei aveva ragione, LEI È LA PROTAGONISTA e per questo la haftarà riporta un brano dei Profeti che ha una donna come protagonista, in modo che la lettura dei profeti sia analoga alla lettura della Torà.

Come si dice in italiano? Quando ero piccolo sentivo una canzone che diceva:
EVVIVA LE DONNE CHE SONO LE COLONNE DELL’UMANITÀ!!!

In realtà quando leggiamo la quarta porzione del libro dell’Esodo le donne sono molto di più di “colonne”:
SONO L’ESEMPIO DELLA SPERANZA CHE NON DEVE MAI SPEGNERSI e SOLO GRAZIE A LORO I FIGLI DI ISRAEL SONO STATI REDENTI!!!

La Nostra Generazione Ha le Stesse Anime!

Il grande Arì ci insegna che le anime dell’ultima generazione dell’esilio (che è la nostra generazione) sono le stesse anime delle persone che sono uscite dall’Egitto. Per cui le donne della nostra generazione sono le stesse anime di quelle che hanno portato la fede in Hashèm, in generale, e la fede nella redenzione in particolare.
Il parallelo con la nostra generazione è chiaro! Ora, più che mai, il popolo ebraico ha bisogno della fiducia per anticipare la gheulà (redenzione) che ci è stata promessa e che porterà a giorni di pace, prosperità e redenzione per l’intero mondo.
Speriamo di aspirare alle qualità straordinarie di Miryàm e di seguire il suo esempio di attendere con fervore la Redenzione, come ci ha insegnato il Rebbe di Lubàvitch, poiché ormai dobbiamo solo aprire gli occhi e vivere la redenzione che in realtà è già iniziata fin dal 5750 – 1990, quando siamo entrati nel venerdì pomeriggio del sesto millennio.

Basato su una raccolta di Midrashim Yalkut Me’am Loaz, Shemòt 2, 4 e discorsi del Rebbe di Lubàvitch

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Il dvar Tora di questa settimana è dedicato in memoria della Signora Miryam Bat Yoel Bassali z”l che ci ha lasciati una settimana fa.
Una donna molto speciale di grande esempio per la città di Milano che il suo sorriso trasmetteva forza e fede e il suo nome è proprio Miryàm che è la grande protagonista di questa settimana.
Che sia il suo ricordo una benedizione a tutti i suoi famigliari e che possa riposare in gan eden assieme a tutti gli altri tzaddikìm.
Porgiamo le condoglianze al marito e ai figli, con l’augurio di poterla rivedere al più presto con la venuta di Mashìakh zidkenu amen.

In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת יעקב בן שלמה ורחל

SIAMO SUPERIORI AGLI ANGELI

Mentre dorme, David sogna l’Angelo Gabriele che gli dice: “David, David, domani nel tuo paese scoppierà un’alluvione, ma Hashèm mi ha ordinato di salvarti. Ricorda quindi che ti salverò, non dimenticarlo. Sarai salvato!”.
Il giorno dopo, scoppia l’alluvione predetta dall’angelo e case, ponti, scuole, ospedali ecc. vengono distrutti. David si trova sperduto nell’acqua, attendendo l’aiuto dell’angelo.
Ad un certo punto passa una barca, è Emanuele, un amico di David che vedendolo in pericolo gli urla: “Dai salta su David”, ma lui imperterrito gli risponde: “No, me la caverò!”.
Dopo dieci minuti passa un’altra barca, è Levi, un altro amico di David, che vedendolo in difficoltà gli grida: “Salta su dai forza!”, ma ancora una volta David risponde: “No, me la caverò, tranquillo”. Dopo un po’ passa un’altra barca e la scena si ripete.
Alla fine, David muore e arrivato in paradiso vede l’angelo Gabriele e gli dice: “Mi hai mentito! Avevi detto che mi avresti salvato!”.
L’angelo prontamente gli risponde: “Ma scusa oltre a mandarti tre barche cosa dovevo fare di più…?”

La spaccatura del mare, dopo l’uscita dall’Egitto, rappresenta un evento di ASSOLUTA importanza, poiché ha concluso il primo ESODO della storia dell’umanità. Oltre a essere il primo evento nel suo genere, esso racchiude anche diversi insegnamenti di VITA che sono come dei GRANDI TESORI da portare con noi in ogni momento.
Finalmente dopo 210 anni di schiavitù pesantissima, dove il sangue degli ebrei scorreva come il fiume del Nilo in quantità mastodontiche, arriva il grande momento dell’uscita.
Il 15 di NISSAN, dell’anno 2448 dalla creazione del mondo: la SUPER POTENZA universale del momento non riesce più a soggiogare i suoi indispensabili schiavi per la realizzazione dei grandi progetti dell’Egitto. Un popolo intero viene liberato senza che nessun cane emettesse alcun suono, nonostante che TUTTI i cani fossero addestrati con stregonerie ad abbaiare nella direzione verso la quale uno schiavo cercava di scappare.
Il popolo di Israèl si ritrova davanti al mare con gli egiziani alle loro spalle che li vogliono riportare in Egitto. Gli egizi sono feriti nella loro dignità dopo che un popolo intero è scappato con i loro tesori presi in prestito…
Tutto questo succede poiché è tutto calcolato dal Creatore del mondo e gli egiziani dovevano morire affogati, proprio come loro UCCIDAVANO I NEONATI facendoli AFFOGARE NEL NILO.
Il mare però non si apre e il popolo non sa cosa deve fare. Hashèm dice al popolo di entrare nel mare e SOLO quando loro entreranno ALLORA il mare si aprirà!!!
Questo argomento racchiude ben 5 GRANDI insegnamenti di vita FONDAMENTALI in ogni momento.

1°. Buttiamoci Prima Noi
Spesso si sente dire: se trovo un bel lavoro mi ci butto! Se trovo la giusta donna mi sposo! Se mia moglie fosse più calma e comprensiva avrei pace in casa…
Questi sono alcuni di tanti esempi di situazioni che ci possono accadere in ogni momento.
Illudersi che il mare si apre e solo dopo entrarci vuole dire che non abbiamo capito niente della vita. Questo sarebbe come il gatto che si vuole mordere la coda che entra in un circolo vizioso: mentre si gira per prendere la coda, nello stesso istante, si sposta la coda di continuo.
Se ci troviamo davanti a un mare e gli egiziani alle calcagna, vuole dire che abbiamo una delle tante sfide che dobbiamo superare, le prove ci vengono date per essere superate al fine di elevarci.
Gli angeli, a differenza degli uomini, non hanno prove e perciò non sono stimolati ad elevarsi, quindi non hanno mai delle difficoltà. Questo perché gli angeli non hanno il merito di avere il libero arbitrio, di poter scegliere tra bene e male, per loro superare una prova non ha nessun valore.
Come dice lo Zòhar questo è un mondo con valori al contrario (àlma deshìkra), anche la cosa più negativa può essere il più grande regalo, basta non fermarsi all’aspetto esterno.

2° Come Uno Tsunami
Ci si potrebbe chiedere: cosa ci vuole per entrare nel mare? Immaginiamo di fare un tuffo in una delle tante belle coste italiane nel mese di aprile. Cosa vi è di più piacevole? Se ci spostiamo nel sud di Israele molti fanno il bagno a Elat in aprile, nel mese in cui sono usciti dall’Egitto, Nissan…
E allora, perché era così complicato entrare nel mare? Perché in quel giorno il mare era MOLTO AGITATO come uno tsunami!!! Faceva paura solo a vederlo. Questo perché la prova, per essere vera e darci un merito, deve essere al di sopra della nostra ragione.
Per questo nessuno osava mettere neanche un dito nel mare in quel giorno. Come diciamo nelle Massime dei Padri cap V, Mishnà 5: dieci volte Israèl mise Hashèm alla prova, di cui due volte sul mare quando dissero: se il mare si apre noi ci entriamo…
Da questo impariamo che solo un mare agitato, come uno Tsunami, può darci dei meriti, ma solo quando superiamo la prova. Pertanto, se vediamo uno Tsunami nella vita non spaventiamoci, perché esiste solo per darci un merito.

3° Santa Pazienza
La struttura di quasi ogni prova nella Torà, come spesso accade anche nella vita, è che fino all’ultimo non si sblocca. Lo vediamo in una delle prove di Abramo quando arrivato ad un fiume che doveva superare solo quando l’acqua è arrivata alla bocca, solo allora il fiume è scomparso.
Anche per quei pochi che sono entrati nel mar Rosso, come Nakhshòn e i suoi fedeli, il mare non si è aperto subito ma solo dopo, quando stavano per affogare, allora si è aperto.
Se pensiamo che le prove si annullino appena le affrontiamo facciamo un grande errore. Bisogna avere PAZIENZA e DETERMINAZIONE, occorre andare fino in FONDO.
Ad esempio: Se ci fossero delle discussioni con la futura anima gemella o dopo 25 anni di matrimonio, non vuole dire che non è la moglie giusta. I problemi ci arrivano solo affinché li superiamo in modo da poterci elevare e migliorare.

4° Decisione Giusta Nel Momento Sbagliato?
Dopo l’uscita dell’Egitto il popolo di Israèl si ritrova davanti al mare che dovevano attraversare. Par’ò radunò tutti i suoi cavalieri e il suo esercito e li raggiunse mentre erano accampati presso il mare nella località di Pi Hakhiròt.
I figli di Israèl videro gli egizi ed ebbero una grande paura e la loro reazione fu quella di dividersi in quattro gruppi (Shemòt 14, 14-15):
Il primo voleva buttarsi in mare, poiché preferiva annegare piuttosto che tornare in Egitto; il secondo gruppo pensava che sarebbe stato meglio tornare ad essere schiavi; il terzo voleva combattere; il quarto gruppo voleva invocare Dio.
Hashèm disse a Mosè: “Perché mi volgi il tuo grido? Dì ai figli di Israèl di mettersi in cammino” (Shemòt 14, 15).
Dio dice al popolo, tramite Mosè, che il mare si aprirà solo se si metteranno in cammino. Le opinioni di 3 dei 4 gruppi (tranne ovviamente quella di chi voleva tornare in schiavitù), non erano di per sé sbagliate, ma erano inopportune ed inutili in quel momento.
In particolare ci si può chiedere cosa vi era di sbagliato nelle intenzioni del primo gruppo? In fondo apparentemente, ubbidivano all’ordine di Hashèm: “Dì ai figli di Israèl di mettersi in cammino”, quindi di andare verso il mare.
Al primo gruppo, quello che voleva buttarsi in mare in maniera disperata, quasi suicida, Mosè gli risponde: “State a guardare la salvezza che Hashèm opererà per voi oggi”.
Proprio nella risposta di Mosè noi possiamo trovare la giusta chiave di lettura di questo episodio della Torà. Il grave difetto delle intenzioni del primo gruppo, era che loro non volevano buttarsi in mare con forza e speranza in Dio, ma erano spinti a questo gesto dalla disperazione. Invece il mare si sarebbe aperto solo se il popolo di Israèl si fosse “messo in cammino” con fiducia e fede nel fatto che Hashèm avrebbe realizzato la sua promessa, li avrebbe salvati. Per questo Mosè gli dice di non buttarsi ma di “guardare la salvezza che Hashèm opererà per voi oggi”.
Da questo episodio noi possiamo trarre un grande insegnamento nella vita di tutti i giorni: di fronte alle prove a cui siamo sottoposti agiamo, ma non con la forza della disperazione, bensì con la determinazione della forza della fiducia in Dio, nella Sua salvezza. Solo così IL MARE SI APRIRÀ

5° Meglio Riuscire Per I Nostri Meriti
Dalla parashà di Beshalàkh possiamo trarre un altro grande insegnamento.
In Shemòt 14, 22 troviamo scritto: “I figli di Israèl entrarono nel mare, all’asciutto e l’acqua faceva loro da muro alla loro destra e alla loro sinistra”. La stessa frase la troviamo ripetuta poco più avanti nel verso 14, 29.
È cosa nota che ogni singola parola della Torà ha un’enorme rilevanza, anche una sola parola in più o meno, ha un significato essenziale. In questo caso troviamo ripetuto un intero verso! Cosa ci vuole dire la Torà con questo fatto? Una delle possibili interpretazioni ci viene data dal libro del Santo Zòhar che afferma come, in tutto il lungo periodo della schiavitù in Egitto, il popolo ebraico si era contaminato con innumerevoli peccati. Era caduto nei più bassi livelli dell’impurità, proprio come gli Egizi.
Da questo punto di vista ebrei ed egiziani erano identici, entrambi erano immeritevoli della misericordia di Hashèm. Continua lo Zòhar dicendo, quindi perché il mare si sarebbe dovuto aprire di fronte al popolo d’Israèl e chiudersi di fronte agli egizi? Quale erano le differenze tra i due popoli?
Per questo motivo Dio, per bocca di Mosè, ordina al popolo ebraico di “mettersi in cammino”, di entrare nel mare affinché questo si apra, proprio per dare al popolo ebraico, il merito di aver avuto fede in Hashèm. Questo sarebbe stato l’atto su cui fondare l’intervento della misericordia divina. Proprio per questo motivo Mosè voleva che il primo gruppo si buttasse in mare, non perché mosso dalla disperazione, ma per fede in Dio, dalla certezza della sua salvezza.
Allora perché alla fine il mare si aprì, come riportato nei versi 22 e 29 del capitolo 14? Grazie al gesto di pochi: Nakhshòn e ai suoi seguaci che si buttarono in mare con fede e certezza nella promessa fatta da Hashèm. Solo allora il mare si aprì permettendo a tutto il popolo ebraico di raggiungere la salvezza.
Tuttavia lo Zòhar fa un’altra interessante osservazione, perché poi il mare non si richiuse al passaggio della maggioranza del popolo Israèl che non aveva creduto in Dio? La risposta, sempre secondo lo Zòhar, è che Dio si ricordò di Abramo dei suoi meriti e della promessa che Dio gli fece sulla sua discendenza che “Sarebbe stata numerose come le stelle del cielo”.
Da questa spiegazione troviamo il motivo della ripetizione dei due versi: in Esodo 14, 29, diversamente che nel paragrafo 22, è scritto: “I figli di Israèl entrarono nel mare, all’asciutto e l’acqua faceva loro da MURO alla loro destra e alla loro sinistra” la parola muro/Khomà della frase è scritto senza la ‘vav’.
In questo modo si può leggere sia “muro”, sia come “rabbia”, quindi possiamo rileggere questa parte come: “I figli di Israèl entrarono nel mare, all’asciutto e l’acqua ERA ARRABBIATA alla loro destra e alla loro sinistra”. Questo poiché il mare era “arrabbiato” del fatto che si dovette aprire, non per i meriti del popolo ebraico, per i meriti di Abramo.
Da questa storia impariamo come, a volte, se Dio vuole, basta un piccolo gruppo di persone fedeli della volontà di Hashèm per salvare anche chi è carente nella fede.
Il secondo insegnamento è che tutte le prove che subiamo nella vita, anche quelle più dure e difficili, sono in fondo solo un’opportunità che ci viene offerta da Dio per migliorarci, per elevare noi stessi e gli altri che ci circondano. Grazie allo sforzo che mettiamo nel capire su come e cosa dobbiamo fare per vincere la sfida che abbiamo d’innanzi.

In ricordo della recentissima ricorrenza del 10 di Shevàt dove abbiamo avuto il merito che il Rebbe di Lubàvitch ha accettato di guidare il movimento Chabad e illuminare il mondo con la sua saggezza, con la sua luce di amore e positività.
Questi sono alcuni degli insegnamenti che ho avuto l’onore di sentire da lui direttamente. Insegnamenti che sono come dei fari per tutta l’umanità.
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In questi giorni è giusto mettere in atto le sue richieste e i suoi insegnamenti. Ad esempio assicurarsi che tutti gli ebrei mettano i Tefillìn ogni giorno. I gentili imparino e osservino tutti i 7 precetti Noakhidi, compresi quelli derivati che sono quasi 70.
Se ognuno di noi, in questi giorni speciali, riuscisse a migliorare anche nel compimento di una sola azione, aggiungeremmo una luce in questo mondo e accelereremmo così la imminente rivelazione di Mashìakh, presto nei nostri giorni. Amen.
Rav Shlomo Bekhor YH

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BESHALLAKH:

nuova lezione di VITA
TSUNAMI: PROVA DI FEDE
Solo Le Prove della Vita ci Portano Tanto in Alto!

https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157860211100540

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I QUATTRO GRUPPI DEL MARE!

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BESHALLAKH: I QUATTRO GRUPPI DEL MARE!

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Verso la fine della parasha di Beshalak vediamo il valore di celebrare il compleanno. Il Talmùd Yerushalmi (Rosh Hashanà 3, 8,) citando Rabbi Yehoshù’a, ci insegna come Amalèk aveva arruolato per quella battaglia i soldati che celebravano il compleanno in quel giorno, contando sul potere degli astri, perché il giorno del compleanno è un giorno molto fortunato e benedetto e Amalèk ha giocato su questo fatto mettendo in prima fila questi soldati SUPER PROTETTI. Perciò Amalèk fa una guerra “non convenzionale” solo perché non può sopportare che esista al mondo un popolo che il suo unico ruolo è INSEGNARE IL MONOTEISMO AL MONDO. Un popolo che nega il valore della materia e del corpo e li considera solo dei tramiti per rivelare lo spirito. Questo è opposto ai valori di Amalèk.
L’esistenza di Israèl “il popolo del libro” e “dell’intelletto”, è un esempio importante nel mondo e per questo cerca di attaccarli e annientarli, anche se non aveva nessuna ragione per farlo, perché non c’erano conflitti territoriali visto che Amalèk risiede molto lontano dalla terra promessa.
Per fare fronte a questo “colpo basso”, Moshè deve sconvolgere gli influssi astrali e cambiare il mazal per eliminare la protezione dei soldati che compivano gli anni.
Da questo insegnamento talmudico il Rebbe di Lubavitch fonda la sua spiegazione sull’importanza del compleanno ebraico, ovvero la data ebraica di nascita, diversa da quella del calendario solare. Il Rebbe ci insegna che questo giorno di grande fortuna e benedizione, deve essere dedicato a nuove decisioni in campo spirituale e alla meditazione, nonché all’azione pratica.
Un famoso detto a proposito:
“Nel giorno del compleanno ci si deve isolare, far riaffiorare i ricordi, riflettere sul passato e correggere le azioni che richiedono teshuvà e rettificazione” (Rebbe di Lubavitch, Hayòm Yom dell’11 nissàn).

(continua sotto)

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Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
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GUERRA STELLARE
(continua da sopra)
Esodo cap. 17: Yehoshù’a fece come gli aveva detto Moshè, combattendo contro ‘Amalèk, [mentre] Moshè, Aharòn e Khur salirono in cima alla collina. 11. Quando Moshè aveva il braccio alzato Israèl prevaleva, mentre quando lo abbassava prevaleva ‘Amalèk. 12. Ma le braccia di Moshè erano pesanti; [Aharòn e Khur] presero una pietra e glie[la] misero sotto; vi si sedette, mentre Aharòn e Khur gli sostenevano le braccia, uno da una parte e l’altro dall’altra, e le sue braccia resistettero fino al tramonto del sole. 13. Yehoshù’a indebolì ‘Amalèk e il suo popolo a fil di spada.
Khur era figlio di Miryàm (Rashì), era un importante capo (24, 14) della tribù di Yehudà (31, 2). La sua genealogia era: Yehudà, Pèretz, Khetzròn, Calèv, Khur (Bereshìt 46, 12). Era nonno di Betzalèl, colui che avrebbe diretto i lavori di costruzione del Mishkàn (31, 2) e fratello più giovane di Ram, padre di ‘Aminadàv, padre di Nakhshòn, capo della tribù di Yehudà all’epoca dell’inaugurazione del Mishkàn e del censimento nel deserto (Bemidbàr 1, 7 e 7, 12).
I quattro capi che condussero la guerra di ‘Amalèk rappresentano i quattro diversi elementi che devono comporre la perfetta guida per sconfiggere l’acerrimo nemico e così ogni avversario simile a Amalèk:
Moshè – la profezia; Aharòn – il culto divino; Khur: la saggezza e l’arte (e, secondo il Midràsh Pessiktà Rabbà parshàt Zakhòr – il regno e la legge); Yehoshù’a – la prodezza.
«Furono forse le braccia di Moshè a vincere o a perdere la battaglia? La Torà ci insegna: fintanto che gli ebrei guardavano in direzione del cielo (verso le mani di Moshè alzate) e così sottomettevano il loro cuore al Padre che è in cielo, essi avevano la meglio. Ma quando non lo facevano, crollavano» (Mishnà Rosh Hashanà 3, 8).
Rashbàm spiega che assieme al braccio Moshè teneva alzato anche il bastone. Infatti, nell’antichità quando i soldati vedevano la bandiera issata capivano che stavano avendo la meglio, mentre se veniva abbassata era segno di sconfitta e quindi fuggivano.
Alzando le braccia di Moshè appesantite dalla stanchezza, Aharòn e Khur stavano in piedi, uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra, e gliele sostenevano. Moshè preferì sedersi su una pietra piuttosto che su un cuscino perché non voleva riposare mentre il suo popolo era in pena (Rashì).
Gli amaleciti avevano calcolato l’ora della vittoria in base all’astrologia. Moshè però sconvolse il corso degli astri e quindi anche delle ore (Rashì da Midràsh Tankhumà 28). Inoltre ‘Amalèk aveva arruolato per quella battaglia dei “soldati” speciali che erano degli spiriti o degli angeli, ovvero qualsiasi arma non convenzionale pur di sterminare Israèl. Ma sconvolgendo il ciclo, da Moshè, anche questi spiriti non diedero il risultato atteso.
Una guerra molto ben preparata da Amalèk per due secoli. Armi che non possono fallire e strategia sicura, ma alla fine vince il piano di Hashèm di fare il patto con i discendenti di Avrahàm e dare la Torà a Israèl per insegnare al mondo che esiste un solo Dio e anche la natura non è altro che un guanto che nasconde la mano di Hashèm che sta dietro a essa.
Yehoshù’a indebolì ‘Amalèk uccidendo i suoi soldati più forti. Sicuramente fu per ordine divino che risparmiò gli altri, poiché di certo non gli mancava la forza di ucciderli, avendo già sconfitto i più potenti (Rashì; Gur Aryé). Inoltre, solo Hashèm poteva indicargli chi era forte e chi era debole (Sèfer Zikaròn).
Poiché ‘Amalèk rappresentava l’essenza del male e non era ancora giunto il momento di eliminarlo dal mondo, Hashèm non permise a Yehoshù’a di farlo.
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Il Rebbe di Lubavitch promosse l’adozione di alcuni usi importanti allo scopo di sfruttare opportunamente questo importante giorno:
• Aliyà al Sèfer Torà: gli uomini salgano al sèfer lo Shabbàt che precede il compleanno e nel giorno del compleanno stesso, se vi si legge la Torà;
• Si dia più tzedakà del solito prima delle preghiere di Shakhrìt e di Minkhà. Se il compleanno capita di Shabbàt o in un giorno festivo, si dia la tzedakà prima del loro inizio e, se è possibile, anche alla loro conclusione;
• Tefillà: si preghi con maggior concentrazione e prima della tefillà si dedichi del tempo alla meditazione, riflettendo sul Creatore; si cerchi di recitare più capitoli di Tehillìm del solito e, se è possibile, almeno uno dei cinque libri che compongo il libro dei Salmi;
• Tehillìm: si studi il capitolo di Tehillìm corrispondente alla nuova età (ad esempio, se si compiono vent’anni si legga il capitolo 21…);
• Torà: si studi più Torà, sia nell’ambito di quella Torà rivelata che in quello della khassidùt;
• Amore per il Prossimo: ci si dedichi maggiormente alla manifestazione dell’amore per il prossimo, in particolare diffondendo degli insegnamenti della Torà;
• Esame di Coscienza: si rifletta sulle azioni dell’anno passato, nell’intento di analizzarle, correggerle e migliorarle qualora sia necessario.
• Un Nuovo Impegno: nel Rosh Hashanà personale, ci si impegni nell’osservanza di una mitzvà trascurata in passato o ad osservarla in modo migliore, oppure un’aggiunta nello studio della Torà;
• Un “Incontro Khassidico”: organizzare una “festa” khassidica fra amici e parenti, in gioia e allegria, ringraziando Hashèm. (Se è possibile, si reciti la benedizione di Shehekheyànu su un frutto o un vestito nuovo).
Ricordiamoci che il Rebbe ci insegna l’importanza del compleanno ebraico, giornata che deve essere dedicata a nuove decisioni in campo spirituale e alla meditazione. Come Moshè anche noi dobbiamo cercare di sconvolgere il mazal negativo del nostro acerrimo nemico, Amalèk. Questo si annida dentro e fuori di noi, conta sulla presunta supremazia degli astri, di un destino preordinato, della pratiche superstiziose, dei falsi dei e idoli. Soprattutto il nostro “Amalèk” interiore ed esteriore trae forza e vigore dalle nostre debolezze un ostacolo nel nostro rapporto quotidiano con la Torà, mitzvòt.
Questo stato di cose ci rende difficile collegarci e riconoscere Hashèm in ogni cosa e aspetto delle nostre vita. E ci impedisce di comprendere che è Lui il vero boss, Lui che comanda e determina tutto ciò che esiste. Migliorando noi stessi e il nostro rapporto con Hashèm possiamo migliorare il mondo che ci circonda e per far arrivare Mashiakh presto nei nostri giorni.

La Parashà di Beshallakh è composta da 116 versetti.

La Parashà di Beshallakh contiene 1 divieto.

La Parashà di Beshallakh tratta in sintesi i seguenti argomenti:

Il popolo ebraico si trasferisce da Sukkòt, la sua prima tappa, a Etàm, presso il Mare dei Giunghi (Mar Rosso). Nei suoi spostamenti il popolo viene accompagnato e guidato da una nube e da una colonna di fuoco. Par’ò, nel frattempo, si pente di aver liberato il popolo e si lancia al suo inseguimento. Colti dal panico, gli ebrei invocano Dio, che ingiunge loro di procedere. La colonna di nube e l’angelo di Dio si pongono fra egizi e ebrei, proteggendo questi ultimi.
Gli ebrei procedono verso il mare, che si apre e permette loro di attraversare il fondale all’asciutto. Il popolo ebraico si mette in salvo, mentre gli egizi vengono sommersi dalle acque tornate al loro stato originale.
Gli ebrei intonano la Cantica del Mare esprimendo la propria gratitudine ad Hashèm; le donne, guidate dalla sorella di Moshè, intonano a Cantica di Miryàm.
Gli ebrei, che procedono nel deserto di Shur si trovano senz’acqua. L’unica sorgente produce acqua amara e il popolo se ne lamenta. Hashèm comanda a Moshè di gettare un tronco di legno nell’acqua che diviene subito dolce. Vengono impartiti al popolo ebraico alcuni precetti. Il popolo si sposta, raggiungendo la località di Elìm, dove trova dodici sorgenti e settanta palme.
Il popolo ebraico si lamenta, esprimendo la propria nostalgia per il cibo di cui disponeva in Egitto. Hashèm promette al popolo le quaglie e la manna, accompagnando le Sue parole con alcune precise indicazioni concernenti il consumo e la conservazione del cibo, in particolare per lo Shabbat. Tali precetti vengono in parte, profanati da alcune persone empie. Seguono alcuni precetti dello Shabbat.
Il popolo ebraico si ritrova nuovamente senz’acqua e se ne lamenta. Hashèm ordina a Moshè di colpire la roccia con il suo bastone per far scaturire l’acqua. Moshè obbedisce e l’acqua sgorga abbondante.
Il popolo di Amalèk, acerrimo nemico di Israèl, attacca gli ebrei subendo, grazie all’intervento divino, una pesante sconfitta. Hashèm promette la cancellazione totale di questo popolo.

MIDRASHIM

Gli angeli in lotta per Israèl
(a pagina 672 del volume Shemòt edizioni Mamash).

La Cantica del Mare
(a pagina 674 del volume Shemòt edizioni Mamash).

APPROFONDIMENTI KHASSIDICI

Apertura a condizione.
(a pagina 726 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Il mio Dio.
(a pagina 730 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Prospettiva positiva.
(a pagina 732 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Catene diverse.
(a pagina 734 del volume Shemòt edizioni Mamash).

BESHALLAKH 5771 – LE DUE FACCE DELLA TUA SPOSA!
Il significato e il valore del matrimonio: come apprezzare il proprio/la propria coniuge.
Vengono esplorate le parti esteriori ed interiori di una persona, analizzando qual è la più importante, insegnandoci a rivelare il potenziale nascosto, come fece Yossèf!

BESHALLAKH 5770 – I QUATTRO GRUPPI DEL MARE!
Errare pensando di fare il giusto? Anche le migliori idee fatte però in contrasto con il piano divino per quel momento, sono sbagliate! Quando si hanno dei problemi nella vita, non bisogna spaventarsi e farsi condizionare dalle apparenze, ma andare avanti con sicurezza!

YUD SHVAT 5770 – IL MONDO È FALSO O VERO?
Perché Hashem non ha creato il mondo come voleva che fosse ovvero con il male?
La diffusione della Shekinà nel mondo e l’essenza eterna del corpo.

BESHALLAKH 5769 – BUTTATI CHE IL MARE SI APRE
L’eutanasia, secondo il punto di vista ebraico.Quando ci sono delle direttive ben precise l’uomo deve seguire la strada indicata da HaShem, senza discutere o tergiversare, soprattutto senza cercare di formulare opinioni personali; gli ordini di HaShem non sono un argomento di discussione o speculativi. Diversi responsi sul difficile tema dell’eutenasia, secondo la Torà.

YUD SHVAT 5768 – ATTRIBUTO PER VINCERE!
Yud Shva, il 10 di Shevat, corrisponde ad un giorno molto importante per l’ebraismo e per il mondo!! Il sesto Rebbe in tal data venne a mancare e il nuovo Rebbe, esattamente un anno dopo, prese la guida del movimento Chabad!

BESHALLAKH 5766 – PROVA DI FEDE!
Come uscire dai nostri confini! Nella vita non basta fare cose giuste. Occorre fare ciò che è necessario in quel determinato momento, senza sprecare risorse e tempo, seguendo il piano divino per noi