TZAV Parah 5784: 2 LEZIONI VECCHIE

26 Marzo 2024 0 Di HaiimRottas

 

 

Questo SHABBAT leggeremo le Parashot di TZAV e di Parah (1°a alià Huccat)

30 MARZO 2024            כ ADÀR Shenì 5784

PARASHÀ
I° Sefer: Levitico 6: 1 – 8: 36;

II° Sefer Num. 19, 1-22


HAFTARÀ

Milano/Torino/Sefarditi: Ez. 36: 16-36 Italiani/Ashkenaziti: Ez. 36: 16-38

QUANDO BRUCIARE IL GRASSO:
DI GIORNO O DI NOTTE?

 

Sul versetto (Vayikrà 6, 2) è scritto: “Questa è la legge dell’olocausto… [Rimarrà sul] fuoco dell’altare per tutta la notte”; Rashi commenta: “Questo viene a insegnare che bruciare i grassi e gli arti dei sacrifici è permesso durante tutta la notte”. 
Tuttavia, secondo la legge scritta, si dovrebbe cercare di bruciare tutte le parti del sacrificio durante il giorno; poiché quello è il momento più opportuno. A posteriori, però, se gli altri servizi connessi al sacrificio venissero comunque compiuti durante il giorno, di notte si possono bruciare grassi e arti. 
I nostri Saggi hanno posto delle restrizioni sull’esecuzione di molte mitzvòt durante la notte, sebbene la legge permetta queste attività fino all’alba, i nostri Saggi richiedono che venissero svolte prima di metà della notte per “mettere una distanza tra una persona e il peccato”. Un esempio è la preghiera serale di Arvìt: l’halakhà richiede che venga recitata entro la mezzanotte, anche se in teoria andrebbe bene fino all’alba. Tuttavia i Saggi hanno imposto questo limite come una “siepe” per evitare che la persona si addormenti e si dimentichi di recitare la preghiera di Arvìt.
A ogni modo, riguardo al fatto se il decreto e il suo relativo limite si potesse applicare anche quando si bruciavano i grassi e gli arti dei sacrifici, vi è una differenza di opinione tra Ràmbam e Rashi. Il Ràmbam sostiene di si; mentre Rashi sostiene che i Saggi lasciarono invariata la legge, ossia che non posero restrizioni fino a metà della notte riguardo i grassi e gli arti che si bruciano di notte.

L’opinione di Rashi si spiega sulla base della distinzione tra la combustione dei grassi e degli arti e le altre mitzvòt. Secondo molte autorità, infatti, quando la Torà dice esplicitamente che un’attività è consentita, i nostri Saggi non possono proibirla. Quindi, poiché la Torà dice che i grassi e gli arti possono essere bruciati “per tutta la notte” e, inoltre, afferma (Shemòt 23,18) che “Non [bisogna] permettere che il grasso dell’offerta festiva rimanga fino al mattino”, significa, secondo Rashi, che i Saggi non istituirono una restrizione per la notte a questo riguardo. 
Seguendo questa logica la sentenza del Ràmbam diventa difficilmente comprensibile e pertanto rimane da spiegare perché Ràmbam sostiene, a differenza di Rashi, che invece i Saggi limitarono la combustione degli arti e dei grassi sacrificali alle ore prima della metà della notte.


Le Due Dimensioni del Consumo di un Sacrificio

Nel versetto di Vayikrà (7, 18) è scritto: “E se la carne dell’offerta di ringraziamento viene mangiata il terzo giorno”. Il Talmud (Zevakhìm 13b) notando che in questa frase il verbo è stranamente ripetuto, האכל יאכל (come se fosse scritto due volte mangiare), commenta così: “Il versetto parla di due tipi di consumo alimentare da parte di uomo (partecipazione alle porzioni del sacrificio date ai sacerdoti e ai proprietari) e consunzione presso il fuoco dell’altare”. Su questa base, il Talmud sviluppa un parallelo tra il consumo della carne sacrificale e il bruciare parti del sacrificio sull’altare.
Per quanto riguarda il consumo dei sacrifici da parte dell’uomo, esiste anche una mitzvà secondo cui le porzioni dell’offerta dovrebbero essere mangiate nel giorno in cui venivano sacrificate. Pertanto, ci sono due dimensioni nel consumo umano di un sacrificio al momento opportuno: a) la mitzvà positiva della partecipazione al sacrificio; b) mangiare il sacrificio il giorno stesso dell’offerta, cosa che preclude la trasgressione del notar, (lett. “rimasto”), ossia il divieto di lasciare la carne sacrificale oltre l’ora in cui è consentito mangiarla fino al mattino successivo.
Queste due dimensioni, tuttavia, non coincidono del tutto. Per quanto riguarda la partecipazione dei sacerdoti ai sacrifici, punto a), essa deve soddisfare diverse condizioni: ad esempio, i sacrifici devono essere mangiati in un modo che si addice alle persone di “statura”, ossia importanti; quindi non si possono mangiare crudi: mangiare carne sacrificale cruda non è considerato un merito, sebbene sia consentito mangiarla, farlo non è considerato una mitzvà. Pertanto se queste condizioni non sono soddisfatte non si è eseguita la mitzvà. Per quanto riguarda il notar, punto b), invece, non fa alcuna differenza il modo in cui si partecipa al sacrificio; finché non rimane la carne fino al mattino non si è violato il divieto.

Dei paralleli a queste due dimensioni, quella del consumo umano e della carne sacrificale, esistono anche per quanto riguarda il consumo dei grassi e degli arti accanto al fuoco dell’altare. Bruciando i grassi e le membra del sacrificio sull’altare si hanno due effetti: 1) è uno dei servizi coinvolti nell’offerta dei sacrifici, quindi una qualità positiva; 2) così si preclude il peccato del notar.
Sulla base di quanto sopra è possibile spiegare perché inizialmente si dovrebbero bruciare i grassi e gli arti durante il giorno e solo dopo è accettabile bruciarli durante la notte. In effetti, è raro trovare casi in cui la Torà scritta fa una distinzione tra “priori” e “posteriori”, “prima” e “dopo” il fatto. La dimensione positiva di bruciare i grassi e gli arti deve (come tutti gli altri servizi connessi ai sacrifici) essere svolta durante la giornata. L’autorizzazione che la Torà concede di bruciare i grassi e gli arti per tutta la notte è semplicemente quella di prevenire il peccato del notar. Pertanto, all’inizio, il grasso e gli arti devono essere bruciati durante il giorno come parte e durante il tempo riservato al servizio dell’offerta dei sacrifici. Se ciò non avvenisse, il grasso e le membra dovranno essere bruciati di notte, affinché sia osservato il divieto del notar, ossia il divieto di far avanzare la carne sacrificale fino al mattino.

Ciò permette di spiegare la sentenza del Ràmbam menzionata in precedenza. Il Ràmbam sostiene che il principio, secondo cui i Saggi non hanno il potere di proibire qualcosa che la Torà permette, si applica solo per quanto riguarda l’osservanza delle mitzvòt. Quando la Torà afferma esplicitamente che una mitzvà dovrebbe essere eseguita, i nostri Saggi non hanno il potere di stabilire che non dovrebbe essere eseguita. Ma, quando non è coinvolta una mitzvà (e bruciare i grassi e gli arti durante la notte non è considerato una mitzvà), i Saggi hanno il potere di imporre una restrizione. Sebbene la Torà affermi che queste attività possono essere svolte durante la notte, i nostri Saggi limitano le loro prestazioni alle ore prima di metà della notte.


Giorno e Notte nel Servizio Divino

È anche possibile spiegare le analogie tra “giorno e notte” su un piano più profondo, che ci permette di comprendere perché offrire i grassi durante il giorno è una mitzvà positiva, mentre offrirli di notte serve semplicemente a precludere il peccato. Il giorno e la notte, infatti, possono essere visti come analogie per lo stato spirituale di una persona. 

“Giorno” si riferisce a un momento in cui si sente la luce divina nella propria anima. Ciò vale non solo quando si è coinvolti nell’osservanza della Torà e delle mitzvòt, della volontà di Dio e della Sua saggezza (Tanya cap. 4.), ma anche quando si è coinvolti in attività materiali. Anche nella sfera mondana, occorre servire Dio, seguendo il detto (Mishlè 3, 6): “ConosciLo in tutte le tue vie”. Per citare un esempio, quando gli tzaddikìm prendono del cibo, il loro mangiare ha uno scopo più elevato rispetto agli sforzi ordinari di altri, poiché “uno tzaddìk mangia per la soddisfazione della sua anima” (Mishlè 13, 25).

“Notte”, al contrario, si riferisce a una condizione in cui una persona non sente la divinità. Pertanto il suo bisogno di impegnarsi in cose materiali genera una lotta costante per servire Dio, piuttosto che soddisfare i suoi desideri. Poiché la legge è racchiusa nell’intelletto mortale e le mitzvòt coinvolgono entità materiali e le potenzialità della nostra anima animale, è quindi è necessario sforzarsi di studiare lishmà, ossia solo per il bene della Torà. Allo stesso modo, la nostra osservanza delle mitzvòt deve essere per il bene di Dio e non per il nostro.

Il concetto di bruciare i grassi sull’altare, dedicando la nostra soddisfazione a Dio, si applica sia di giorno che di notte. Ma c’è una differenza. Quando il servizio divino di una persona è quello del “giorno”, tutta la soddisfazione che prova, non solo quella derivata dall’osservanza della Torà e delle sue mitzvòt, ma anche quella che proviene dalle cose mondane, è un’espressione di santità: “conoscere Dio in tutte le Sue vie”.
Al contrario, coloro il cui servizio divino si svolge sul piano della notte e la cui percezione è oscurata dalle loro anime animalesche, non possono trasformare tutto il piacere che provano in un’espressione di divinità. Invece, il loro servizio divino si concentra nel rompere la loro natura, nel non indulgere in piaceri e desideri superflui. Si sforzano di non impegnarsi mai in un’attività materiale per il bene di quell’attività stessa; invece, cercano che il loro intento sia “per il bene del cielo”. Quindi il loro “bruciare i grassi” è di natura preventiva, trattenendosi così dall’indulgere in cose permesse, perché per loro l’indulgenza in cose permesse porta troppo spesso all’indulgenza in cose proibite. Allo stesso modo, per quanto riguarda lo studio della Torà, poiché non riescono a trovare un impegno genuino nello studio lishmà (solo per il bene della Torà), devono lottare per evitare di fare affidamento sul loro ragionamento di esseri limitati e cercare invece il vero intento della Legge. Trovare una motivazione fondato sul ragionamento umano e quindi limitato, infatti, può portare una persona a distorcere l’intento della Torà. Quindi anche qui e analogamente per quanto riguarda l’osservanza delle mitzvòt gli sforzi mirano solo a evitare conseguenze negative.


Un Catalizzatore per la Redenzione

C’è un vantaggio nel servizio divino dell’itcafia (spezzare il male), la “notte”, ossia di quelli che servendo Dio cercano di evitare di cadere nel male; rispetto al servizio divino dei giusti, “giorno”, spiegato sopra, che servono Dio completamente in ogni loro azione anche materiale. Per citare un parallelo: il servizio divino svolto nel raffinare il corpo e l’anima animale è superiore alla devozione dell’anima prima della sua discesa in questo mondo. Sebbene l’anima avesse una percezione di Dio più raffinata ed elevata sul piano spirituale, i suoi risultati in questo mondo materiale sono molto maggiori rispetto a quelli ottenuti prima della discesa in questo mondo. Allo stesso modo, quando si considera il servizio divino delle anime su questo piano materiale, c’è un vantaggio nel servizio svolto dai Benoni (l’uomo “medio”), rispetto a quello svolto dagli tzaddikìm/Gusti (Tanya cap. 27).

A questo si allude anche nel versetto “Non lasciate che il grasso dell’offerta festiva rimanga fino al mattino”. La frase “Non permettere”, cioè evitare influenze negative raffinando entità materiali, simboleggia “il mattino”, l’alba definitiva, l’era in cui “il sole non ti servirà più per la luce del giorno. Invece, Dio sarà la tua luce eterna” (Yesha’yà 60, 19), quando, non vi sarà più bisogno di lottare contro l’istinto al male. 
Questo è l’insegnamento secondo l’opinione del Ràmbam che bruciare i grassi e gli arti durante la notte non è considerato una mitzvà, perciò i Saggi hanno il potere di imporre una restrizione fino metà della notte. Sia il livello spirituale di “giorno” che quello di “notte” è fondato sull’adempimento delle mitzvòt, la differenza consiste solamente nel fatto che, come detto sopra, solo i “giusti/giorno” svolgono queste mitzvòt sempre e solo con il piacere/grasso, di servire Dio. Tuttavia, anche il livello spirituale “notte” adempie alle mitzvòt, e il fatto che l’adempimento delle mitzvòt sia solo per evitare di sbagliare, ma non è considerata una mitzvà a se questo ha un vantaggio perché deve combattere il buio e andare contro la sua natura, e allora diventa superiore al tzaddìk.

Tuttavia solo il livello notte e non quello “giorno”, ossia il raffinamento del corpo e dell’anima animale in questo mondo materiale, sforzandosi di compiere le mitzvòt, anche se non sempre con le giuste intenzioni, porterà alla imminente redenzione guidata dal Mashìakh (Tanya cap. 27.) presto nei nostri giorni.


(Adattato da un discorso del Rebbe del 19 di Kislèv 1951 – 5711)

 

TRASFORMARE QUARANTENA IN LUCE!

Tratto dalla nuova stampa il Midrash Racconta Vayikrà 1

MAMASH edizioni ebraiche ha il piacere di offrire, durante questo periodo, un midràsh relativo alla parashà della settimana estratto dal libro “Il Midràsh Racconta”. 

Come insegnano i saggi della Torà è bene trasformare ogni occasione, anche quella più negativa, in qualcosa di buono. Tutti noi ci troviamo in un momento sicuramente difficile in questa “segregazione forzata”. Tuttavia perché non sfruttare al meglio il maggior tempo che abbiamo a disposizione? 

Pertanto, ho deciso di pubblicare i Midrashìm di ogni settimana, iniziando da Tzav, anche per venire incontro alle esigenze di tutti coloro che vorrebbero approfittare di questa situazione per approfondire gli studi sulla Torà.

Hashèm ordinò a Moshè: «Raduna tutto il popolo nel cortile del Mishkàn: che assista alle cerimonie di consacrazione che si svolgeranno durante i sette giorni dell’inaugurazione».

Sentendo questo ordine, Moshè si stupì: «Com’è possibile riunire tutta la comunità di Israèl nel cortile del Mishkàn?» .

Il cortile misurava 50×100 amòt (circa 30×60 metri) e solo il Mishkàn occupava una superficie di duecento metri quadrati. Inoltre, una zona supplementare era occupata dall’altare e dal lavabo. La parte rimanente del cortile era troppo piccola per seicentomila uomini.

Ma Hashèm disse a Moshè: «Non tormentarti per la realizzazione di questa impresa. Io posso fare in modo che una piccola area abbia una capienza superiore alle sue potenzialità» .

L’Onnipotente compì questo miracolo in diverse occasioni:

Quando inviò sull’Egitto la piaga delle ulcere, Hashèm ordinò che Moshè e Aharòn prendessero ciascuno due pugni pieni di fuliggine di fornace; poi, Aharòn diede la sua cenere a Moshè. Quindi, Moshè tenne miracolosamente, in una sola mano, quattro pugni di fuliggine, i suoi e quelli di Aharòn, e li lanciò verso il cielo .

Nel luogo chiamato Me Merivà, Moshè e Aharòn radunarono tutto il popolo di fronte a una roccia, dove l’Onnipotente avrebbe dovuto fare scaturire l’acqua. Sopravvenne un miracolo: ogni ebreo ebbe la possibilità di trovarsi davanti alla roccia. Prima che gli ebrei passassero sulla riva opposta dello Yardèn, Yehoshù’a riunì tutto il popolo nello spazio compreso fra le due stanghe che trasportavano l’arca santa . Egli dichiarò: «Attraverso questo miracolo, che vi rende testimoni di come una superficie così ridotta possa ampliarsi, riconoscerete che il Dio vivente risiede in mezzo a noi» .

Come già detto, durante i sette giorni dell’inaugurazione il cortile del Mishkàn poté contenere tutti i seicentomila uomini della comunità di Israèl.

All’epoca del Bet Hamikdàsh, questo miracolo fu ricorrente. Quando il popolo arrivava nel cortile, formava una folla compatta, tuttavia, quando pregava, ciascun ebreo aveva uno spazio di quattro amòt davanti a sé e un’amà nelle altre direzioni .

Nel tempo a venire, anche noi faremo esperienza del grande miracolo per il quale una superficie può avere una capienza superiore alle sue capacità naturali. L’Onnipotente resusciterà tutti gli tzaddikìm vissuti dopo l’epoca di Adàm e li condurrà in Eretz Israèl. La terra, allora, si estenderà miracolosamente per accogliere tutti coloro che vi ritorneranno. Nessun ebreo soffrirà di mancanza di spazio .

L’Onnipotente non opera miracoli se non in casi di assoluta necessità o qualora desideri impartire una lezione particolarmente importante. Perché in ciascuna delle istanze citate operò un miracolo? Cerchiamo di spiegare caso per caso dove risiedeva tale necessità:

La piaga delle ulcere, con la quale aveva inflitto agli egiziani un dolore fisico acuto, era un castigo “misura per misura” a causa del piacere fisico che avevano provato a spese dei figli di Israèl, costretti a scaldare e raffreddare l’acqua per i loro bagni. Così, questa piaga fu accompagnata da molti dettagli miracolosi, come castigo esemplare per la loro impudenza.

A Me Merivà, ogni ebreo si trovò improvvisamente in piedi di fronte alla roccia. L’Onnipotente voleva che ciascuno di essi fosse testimone oculare del fatto che l’acqua aveva cominciato realmente a zampillare dalla nuda roccia.

Paragonato al numeroso esercito dei trentuno re, quello degli ebrei, lanciato alla conquista di Eretz Israèl sotto la guida di Yeoshù’a, era numericamente debole. Il miracolo che permise al popolo intero di trovare posto all’interno delle due stanghe dell’arca, sopravvenne prima della traversata dello Yardèn: era la dimostrazione dell’amore e dell’affetto che Hashèm nutriva per esso. Sapendo che Egli era fra loro, ognuno raccolse il suo coraggio per affrontare un nemico numericamente superiore.

Durante i giorni dell’inaugurazione del Mishkàn, tutti gli uomini riuniti riuscirono a stare nel cortile. Hashèm voleva che ogni ebreo assistesse alla consacrazione dei cohanìm: avrebbero così provato un profondo rispetto nei confronti del sacerdozio. Inoltre, l’Onnipotente desiderava che ciascun ebreo fosse testimone della rivelazione della Shekhinà, della quale il fuoco Celeste disceso sull’altare era un segno.

Nel Bet Hamikdàsh il miracolo di un’area limitata capace di offrire uno spazio superiore alle sue reali capacità era necessario affinché i presenti potessero sdraiarsi col volto a terra durante la tefillà. Ognuno aveva bisogno di disporre davanti a sé di quattro amòt, la statura media di un uomo, ma Hashèm accordò anche lo spazio di un’amà ai lati e dietro, affinché ciascuno potesse pregare senza lasciarsi distrarre dal suo vicino. Soprattutto, questo spazio libero evitava l’imbarazzo nel momento del viddùy. Moshè agì in conformità all’ordine dell’Onnipotente: riunì Aharòn, i suoi figli e tutto il popolo di Israèl nel cortile del Mishkàn.                                             31 mar 2023

Un caro Shabbat Shalom  Rav Shlomo Bekhor

 

 

SEDER DI PESACH A DACHAU!
Come Un “Rebbe” Ha Creato La Speranza Nelle Circostanze Più Difficili

27 MARZO 1945.
Sopravvissuto all’olocausto Solly Ganor, residente a Herzelia, Israele, ha scritto una storia favolosa su un seder di Pasach che ha vissuto 70 anni fa. Il seder ha avuto luogo il 27 marzo 1945 a Dachau, il famigerato campo di concentramento dei nazisti יש”ו. 
All’epoca era un giovane, uno schiavo che lavorava nel campo della morte dove morirono centinaia di migliaia di ebrei.
Ecco come Solly ha raccontato la storia:
È la storia di un uomo che ha fatto la differenza anche mentre abitava nell’inferno nazista. Non sapevamo come si chiamava questo santo uomo. Lo conoscevamo solo come “Rebbe” (guida, maestro) che veniva dal Ghetto di Lodz e che prima di arrivare a Dachau era stato ad Auschwitz. Non abbiamo mai scoperto se era davvero un rabbino, ma comunque tutti noi lo chiamavamo: “Rebbe”. Forse, perché conosceva a memoria tutte le preghiere e ci aiutava sempre a mantenere la fede nel Creatore anche a Dachau.
Questo Maestro di Lodz organizzò la festa di Purim e quasi ci fece uccidere dalle guardie tedesche. Una sera, il “Rebbe” venne a trovarci nella nostra baracca.  
Burgin, il responsabile ebreo di tutti i Kapò, gli diede il compito di seppellire i morti, una mansione molto impegnativa, poiché morivano sempre più prigionieri. Era un lavoro terribile, ma era meglio che portare cento sacchi di cemento sulle spalle ogni giorno. Il “Rebbe” si faceva chiamare “Chevra Kadishà” (organizzazione ebraica di uomini e donne che si prendono cura della preparazione e sepoltura di salme secondo la tradizione ebraica), poiché si occupava delle salme e diceva il “Kaddish” dopo ogni sepoltura, cosa che gli è valsa il nostro rispetto. 
Tutti lo consideravano strano, ma era un uomo gentile e sorrideva sempre e in quel contesto tragico, era un motivo per pensare che fosse un po’ matto.
Nelle ultime settimane, la nostra situazione si era deteriorata. La zuppa acquosa che di solito ci preparavano a pranzo era diventata ancora più acquosa, la porzione giornaliera di pane era diventata ancora più sottile e sempre più di colore verde muffa. Più gli alleati si avvicinavano e più i sorveglianti tedeschi diventavano nervosi e crudeli, ci picchiavano in ogni occasione. Sapevamo che gli alleati erano da qualche parte in Germania, ma non sapevamo se saremmo riusciti a resistere fino alla liberazione del campo. Una sera, mentre eravamo seduti intorno alla piccola stufa di ferro della nostra baracca, cercando di riscaldarci, il “Rebbe” entrò. Puzzava di morto e noi conoscevamo bene quell’odore. Improvvisamente ci disse “Yidden, peisach kumt in tzvelf teg un men darf baken matze” – “Ebrei, Pesach arriverà tra dodici giorni, dobbiamo preparare le matzot” (ha parlato in un dialetto yiddish diverso dal nostro consueto yiddish con accento lituano, quindi a volte era difficile capirlo. Aveva anche la strana abitudine di chiamarci “Yidden”, invece che con il nostro nome).
Lo abbiamo guardato molto stupiti per questa pericolosa iniziativa. In realtà, dopo l’incidente avvenuto con il “Rebbe” a Purim, non eravamo troppo sorpresi del fatto che sarebbe venuto fuori con un’altra idea pazza. 
Poi, dopo uno sguardo furbo, agitò l’indice verso di noi e ci disse: “Lasciate che vi dica Yidden; presto celebreremo non solo Yetziat Mitzraim MA ANCHE Yeztiat Deutschland” (“Presto celebreremo non solo l’esodo dall’Egitto, ma anche l’esodo dalla Germania”). Disse questo e poi fece una breve risata acuta.
Abbiamo pensato che la sua affermazione “Esodo dalla Germania”, invece della liberazione, fosse parte del suo strano comportamento. “Dalla tua bocca alle orecchie di Dio, ma come diavolo sai che Pesach è tra dodici giorni?” Chiese mio padre sorpreso.
“Lo so perché sono quattro giorni prima della fine di marzo!” Disse trionfante! La sua precisa conoscenza delle festività ebraiche per noi non aveva alcun senso. Noi che sapevamo a malapena che giorno fosse, figuriamoci se ricordavamo le date delle feste.
“E dov’è questo esodo che ci porterà dalla Germania, attraverso il Mar Rosso, verso la terra promessa?” Chiese Chaim ironicamente. “No, attraverseremo il Mediterraneo verso la terra promessa, giovanotto,” rispose tranquillamente il “Rebbe”. Ci siamo guardati l’un l’altro. Forse le sue idee non erano così pazze. Tutti noi pensavamo che, se fossimo sopravvissuti a quel purgatorio, l’unico posto rimasto per noi era la terra di Israele (conosciuta all’epoca come Palestina).
“Allora, che ne dici di un po’di farina? Preparerò le matzot e farò la benedizione giusta per renderle kosher “, disse, sfregandosi le mani. “Per l’amor di Dio, Rebbe, dove ti aspetti che prendiamo la farina? Qui siamo tutti affamati e per di più ci porti le tue idee folli”, disse uno dei prigionieri con voce irritata.
“Senti, se vuoi avere un esodo dalla Germania, dobbiamo avere le matzot”, disse, testardamente. “O non ci sarà un esodo dalla Germania,” disse, alzando il mento. Poi improvvisamente mi puntò il dito contro e disse: “Tu che lavori nelle cucine, portaci la farina!”
Lo guardai stupito. Mio padre si era davvero arrabbiato con lui e gli urlò contro. “Vuoi che mio figlio rischi la sua vita per rubare la farina dai tedeschi per le tue Matzot?” 
“Per le nostre matzot”, disse il “Rebbe” con calma. “Tuo figlio è l’unico che può ottenere la farina.” Pensai alla cantina della cucina tedesca, dove erano conservati i prodotti alimentari. Non era solo chiusa a chiave, ma il cuoco era sempre in giro. Non potevo entrare in cantina, ma se avessi avuto questa possibilità, avrei “rubato” del cibo, per sopravvivere.
Il “Rebbe”, come se percepisse i miei pensieri, alzò la mano e disse: “Ho qualcosa che può aiutarti a ottenere la farina”, e tirò fuori da sotto l’ascella un piccolo straccio legato con un filo. Lo slegò con cura e tirò fuori due oggetti. Li mise sul palmo sinistro e me lo infilò sotto il naso. Mi ritrassi disgustato. Erano due denti maleodoranti con un po’ d’oro attaccato.
Eravamo tutti sbalorditi. Sapevamo tutti che seppelliva i morti. Quando vide i nostri sguardi sorrise. “Non è quello che pensate. Non ho preso nessun dente dai morti. Fu Zundel a darmelo prima che morisse. Gli ho promesso che avrei scambiato i denti con farina per fare le matzot per il Seder di Pesach. Non volete che io rispetti la promessa che ho fatto a un ebreo morente?” disse con sguardo forte.
“Non capite? Pesach è la festa della nostra libertà dalla schiavitù… non dobbiamo più essere schiavi dei nazisti. Sapete benissimo che questa potrebbe essere la nostra salvezza e la porta per il nostro esodo dalla Germania”.
Ottenere la Farina
Fino ad oggi, non so come ho accettato la pazza idea del Rebbe. Allora la religione era l’ultima cosa che passava nelle nostre menti, date le circostanze. In una certa misura, abbiamo accusato Dio di ciò che è successo agli ebrei in Europa. C’era una frase nell’Haggadà nel paragrafo VEHI SHEAMDA che ci irritava: “In ogni generazione i nostri nemici si alzano per distruggerci, ma l’Onnipotente ci salva sempre dalle loro mani.” Di certo, ora, non ci stava salvando tutti …
Il giorno dopo, ho portato i denti d’oro con me nella cucina tedesca, dove lavoravo. Il cuoco era un vecchio tedesco meschino che ogni giorno ci malediva mentre ci colpiva con il suo mestolo di ferro. Ma non ci ha mai fatto davvero del male. Come dovrei avvicinarmi a lui? Cosa dovrei dirgli? “Qui ci sono due denti d’oro estratti da un ebreo morto. Potresti darmi un po’ di farina per preparare alcune matzot per Pasach? “Probabilmente mi avrebbe consegnato alle SS per essere fucilato.
Più ci pensavo, più sembrava folle. Alla fine, ho deciso di abbandonare l’idea. Quando il cuoco mi ha visto mi ha detto: “Puoi iniziare a pulire la sala mensa e poi il bagno.” Il suo tono di voce era molto più mite del solito. Ho sentito una differenza nella sua voce. Mentre mi parlava, continuava a guardare il cielo. Improvvisamente uno squadrone di aerei da caccia americani tuonò sui tetti. Li ho visti girare verso i binari della ferrovia e ho sentito i loro cannoni sparare, seguiti da forti esplosioni. Devono aver attaccato un bersaglio vicino. È stato uno spettacolo incredibile e mi ha fatto saltare il cuore dalla gioia. Il cuoco quasi svenne per lo spavento e corse giù nella cantina dove era conservato il cibo. Gli corsi dietro, ma iniziò a gridare: “Fuori! Esci! Esci! Ti ho visto gongolare quando gli aerei sono arrivati”. Mi ha urlato. 
Sono uscito rapidamente dalla cantina sperando che si calmasse un po’. Ho fatto un grosso errore facendolo arrabbiare. Poi l’ho chiamato e gli ho detto: “Avevo paura degli aerei, per favore perdonami”, ci siamo guardati l’un l’altro. Potevo vedere nei suoi occhi che entrambi stavamo pensando la stessa cosa: “Presto gli americani saranno qui”.
Fu allora che, improvvisamente, tirai fuori la storia della festa di Pesach e della farina per preparare le matzot. Era come se il “Rebbe” avesse preso il controllo della mia lingua e mi avesse fatto dire quelle cose. Poi aprii lentamente lo straccio che il “Rebbe” mi aveva regalato e gli allungai i due denti d’oro.
Per un po’ il cuoco mi guardò come se fossi impazzito. Poi ho intravisto come della gratitudine nei suoi occhi e improvvisamente mi domandò: “Era durante la Pasqua che il nostro salvatore Yashke (il fondatore del cristianesimo) sedeva con i suoi discepoli e mangiava il pane non lievitato nell’ultima cena? Il pane non lievitato è ciò che voi ebrei chiamano matzot?”.
È stato il mio turno di essere sorpreso. Sapevo che era un cattolico osservante dato che portava al collo sempre una croce e che gli ho visto fare il segno della croce più volte, quando gli aerei americani sono arrivati. Questa è stata una svolta del tutto inaspettata degli eventi.
Il cuoco continuò e disse: “Da bambini ci è stato insegnato che Yashke era sempre associato ai problemi del popolo ebraico. Ma se Yashske può aiutarci a ottenere la farina, la prenderemo…”
Stavo cominciando a sperare. Per un po’ guardò i denti d’oro, ma non li prese. Non mi ha detto altro, se non di ripulire la mensa e il lavatoio.
Prima di tornare al campo, è uscito dalla cucina e mi ha dato un piccolo sacchetto di carta pieno di farina bianca. “Penso che il nostro signore vorrebbe che tu abbia le matzot per le tue feste. Dopotutto era uno del vostro popolo. A volte lo dimentichiamo”.
“Non so perché mi ha dato la farina, forse avrebbe voluto che dicessi una buona parola per lui, all’arrivo degli americani, o forse lo fece solo per convinzioni religiose. Sta di fatto che non ha preso i denti d’oro. Qualunque fosse la ragione, il “Rebbe” aveva la sua farina e sulla piccola stufa di ferro e ora poteva cucinare dei piccoli wafer bianchi che ricordavano vagamente le matzot. Avevano dei piccoli buchi ed erano leggermente bruciati.
Il Seder Inizia
Era il 27 marzo 1945, quando il Rebbe portò le matzot e dichiarò che il Seder di Pesach avrebbe avuto inizio.
“Dei sette ingredienti necessari per condurre il Seder, ora ne abbiamo solo due. matzot e maròr, ma l’Onnipotente capirà” disse il nostro strano Maestro.
“Rebbe, dov’è il Maròr (erba amara) che hai menzionato?” Gli abbiamo chiesto. Ci ha guardato. “Le nostre vite in questo campo sono il maròr se non di più; tutte le nostre vite sono abbastanza amare per uscire d’obbligo del maròr”. Poi divise la matzà, ha diede a ciascuno di noi un pezzo e ci fece dire le benedizioni.
“Dato che sei il più giovane del gruppo, farai le quattro domande di ‘Ma nishtanà’. Con mia sorpresa, ne ricordai la maggior parte e cantai le domande con l’aiuto degli altri. Non abbiamo nascosto l’Afikomen, perché nel nostro campo non c’erano più i bambini. Tutti i fanciulli erano stati mandati ad Auschwitz nelle camere a gas, una immane tragedia, per noi, come vedere morire il futuro e la speranza, d’avanti ai nostri occhi.
Dovevamo andare a lavorare il giorno dopo, eravamo affamati e stanchi morti, ma quella notte di Pesach, ci unimmo al “Rebbe” con una specie di Seder. Ricordava a memoria la maggior parte dell’Haggadà; così ha fatto mio padre che aveva studiato in una yeshiva quando era un ragazzo. Alcuni partecipanti conoscevano alcune parti della Haggadà. Tutti si unirono per dire le benedizioni, ma eravamo addormentati prima che il “Rebbe” finisse di cantare l’Haggadà. Mi sono ricordato vagamente di aver cantato Chad Gadyà.
Alla fine, fece una breve preghiera in yiddish: “Per favore, perdonaci, Oh Signore dell’Universo, per aver condotto un servizio di Pesach così povero, ma era il meglio che potevamo fare, e per favore liberaci, o Signore, dalle mani dei nostri nemici che si sono levati, ancora una volta, in questa generazione per distruggerci”.
Che cosa devo dirvi? Ci siamo sentiti tutti come se fossimo lì a “Yetziat Mitzraim” (l’Esodo egiziano) e abbiamo creduto al “Rebbe” che saremmo stati anche noi nell’ “Yetziat Deutschland” (l’esodo tedesco).
Mi ha svegliato prima che se ne andasse e mi disse: “Meriti una benedizione speciale per aver portato la farina per le matzot. Sarai tra coloro che celebreranno presto l’esodo dalla Germania alla Terra Santa”.
Circa un mese dopo, la guerra era finita e siamo stati salvati dall’esercito americano. Era il 2 maggio 1945.
Seder Veste Moderna
Viviamo oggi in tempi molto diversi. Eppure continuiamo a raccontare la stessa storia del “Rebbe” e degli ebrei di Dachau. La loro storia, la nostra storia collettiva, ci ispira ancora.
Ogni anno, quando arriva Pesach, mi pongo la domanda: come posso trasformare il mio Seder in un’esperienza così significativa da provocare un cambiamento radicale, come dovrebbe essere?
La festa di Pesach, che commemora l’esodo del popolo ebraico dalla terra d’Egitto, 3.329 anni fa (nell’anno 1313 a.C.), riflette la liberazione dell’anima dai vincoli psicologici ed emotivi rappresentati dall’Egitto.
Cos’è l’Egitto? Il termine ebraico per l’Egitto (Mitzrayim) può essere tradotto come “inibizioni” o “restrizioni”. Tutti noi lottiamo con varie inibizioni interne ed esterne che soffocano la nostra crescita e ci impediscono di massimizzare il nostro potenziale. Potremmo essere paralizzati dalla paura, dalla vergogna, dalla colpa, dal risentimento, o dalle varie dipendenze. Ci può mancare la capacità di amare, di sognare, di piangere e di lasciare andare le nostre difese, o possiamo essere schiavizzati da impulsi insalubri e sentimenti di invidia, animosità e amarezza.
Spesso, la nostra ebraicità interiore, la RELAZIONE INTIMA e assoluta con il Padrone dell’universo, è ridotta in schiavitù. È ancora lì, ma non sappiamo come accedervi.
In questo senso, siamo tutti, chi più chi meno, in un altro tipo di “Egitto” e l’esperienza del Seder presenta, a ciascuno di noi, l’opportunità di lasciare il nostro Egitto personale e intraprendere la strada verso la redenzione.
Durante il Seder, dobbiamo aprire i nostri cuori e accogliere l’energia divina della liberazione che inizia a vibrare nel cosmo dalla vigilia di Pesach. Al fine di diventare pienamente NOI STESSI, pienamente umani, completamente ebrei.
Reclamare I Propri Genitori
Il Talmud dice, ed è citato nell’Haggadà, che “Una seconda coppa viene versata e ora il bambino domanda il Ma Nishtanà”.
Le parole talmudiche “ora il bambino domanda” (“Vekan Haben Shoel”) possono anche essere tradotte come “ora il bambino può prendere in prestito”.
Non tutti hanno avuto il privilegio di crescere con dei genitori. Alcuni sono rimasti orfani in giovane età; altri potrebbero aver avuto genitori fisici, ma psicologicamente instabili. Alcuni di noi hanno avuto il privilegio di avere genitori amorevoli che sono passati “all’altro mondo”.
In tutti i casi sopra riportati i bambini sono stati lasciati indietro, con un “vuoto” nei loro cuori. Ecco che durante il Seder vi è un momento in cui “il bambino può prendere in prestito” un padre e una madre. 
In questo momento della vita, nostro padre in cielo apre la camera dell’amore incondizionato e della crescita sconfinata, attraverso la quale possiamo rivendicare la fiducia e la sicurezza di cui abbiamo disperatamente bisogno. Ora il bambino ha il permesso di fare tutte le domande, che normalmente non potrebbe mai chiedere, può dichiarare: “Padre, voglio farti quattro domande”.
GLI SCHIAVI NON FANNO DOMANDE. SOLO GLI UOMINI E DONNE LIBERI possono domandare. Non solo perché sentono di avere il diritto di chiedere, ma anche perché non temono risposte che possano metterli alla prova e magari anche trasformarli.
Dachau Oggiogiorno
Oggi per Maròr usiamo vere erbe AMARE. Grazie a Dio non abbiamo la vita amara come a Dachau!!! Purtroppo quando le cose vanno bene, spesso tendiamo a sentirci a nostro agio e pensiamo che siamo autosufficienti .
Il Talmud paragona la vita alla ruota che sale e scende. Al giorno d’oggi possiamo paragonare la vita alle montagne russe, dove si sale e si scende. Anche la discesa non è così grave perché è un modo per prendere velocità per risalire di nuovo.
Sicuramente al Seder di Dachau i partecipanti hanno mangiato la più gustosa e fragrante matzà della loro vita.
Sicuramente gran parte dei nostri problemi di autostima e depressione loro non li avevano, perché avevano problemi di sopravvivenza da superare in ogni istante.
Quando mangiamo il maròr che ci sembra amaro ricordiamoci che c’è un “VERO AMARO” molto più bruciante e che grazie a Dio non dobbiamo sfidare in ogni istante…
Quando nella vita ci capitano delle apparenti amarezze, non lasciamoci dominare da esse e farci rovinare la nostra felicità CHE È IL PIÙ GRANDE DONO CHE DIO CI HA DATO.
La nostra vita è come le montagne russe dove anche le discese servono per salire di nuovo da un’altra parte. Solo la discesa ci può far maturare, attraverso il bisogno e la spinta di una nuova salita.
Anche la nostra storia ha avuto delle montagne russe e delle cadute penose come in Egitto o a Dachau ma adesso stiamo salendo e saliremo sempre di più. Non possiamo permettere che nostri, relativamente piccoli, problemi del terzo millennio ci rubino il sorriso o ci distolgano dalla nostra missione in questo mondo. 
Ogni anima in questo mondo deve riflettere sul fatto che se è stata mandata qui solo per migliorare questo mondo e renderlo idoneo alla rivelazione infinita di Hashem.
Come dice il Rebbe YH che il giorno del mio compleanno è il giorno dove DIO HA DECISO CHE IL MONDO NON PUÒ SOPRAVVIVERE SENZA IL MIO CONTRIBUTO, per questo il Padre Eterno mi ha mandato qui per perfezionarlo.
Speriamo presto di vedere il frutto del nostro operato e la imminente rivelazione di Mashiach presto nei nostri giorni, amen.
—– —–
Dedicato in onore del compleanno del Rebbe di Lubavitch YH 11 di Nissan 5781 mio maestro e la guida della nostra generazione, che cade questa sera martedì sera 24 Marzo.

Hashem indica a Moshè di comandare ad Aaron e a suo figlio quanto attiene ai doveri e ai diritti dei Kohanim che offrono i korbanot nel Santuario.

Il fuoco sull’altare deve essere tenuto acceso in ogni momento.

TRASFORMARE QUARANTENA IN LUCE!
MAMASH edizioni ebraiche ha il piacere di offrire, durante questo periodo, un midràsh relativo alla parashà della settimana estratto dal libro “Il Midràsh Racconta”.
Come insegnano i saggi della Torà è bene trasformare ogni occasione, anche quella più negativa, in qualcosa di buono. Tutti noi ci troviamo in un momento sicuramente difficile in questa “segregazione forzata”. Tuttavia perché non sfruttare al meglio il maggior tempo che abbiamo a disposizione?
Pertanto, ho deciso di pubblicare i Midrashìm di ogni settimana, iniziando da Tzav, anche per venire incontro alle esigenze di tutti coloro che vorrebbero approfittare di questa situazione per approfondire gli studi sulla Torà.

Una parte del Midràsh si può trovare qui sotto, tra l’altro molto attuale al nostro periodo e il resto al seguente link dove è possibile scaricare tutti i Midrashìm della parashà di Tzav in formato PDF.

www.virtualyeshiva.it/files/midrash_tzav.pdf

27 MARZO 1945.
Sopravvissuto all’olocausto Solly Ganor, residente a Herzelia, Israele, ha scritto una storia favolosa su un seder di Pasach che ha vissuto 70 anni fa. Il seder ha avuto luogo il 27 marzo 1945 a Dachau, il famigerato campo di concentramento dei nazisti יש”ו.
All’epoca era un giovane, uno schiavo che lavorava nel campo della morte dove morirono centinaia di migliaia di ebrei.
Ecco come Solly ha raccontato la storia:
È la storia di un uomo che ha fatto la differenza anche mentre abitava nell’inferno nazista. Non sapevamo come si chiamava questo santo uomo. Lo conoscevamo solo come “Rebbe” (guida, maestro) che veniva dal Ghetto di Lodz e che prima di arrivare a Dachau era stato ad Auschwitz. Non abbiamo mai scoperto se era davvero un rabbino, ma comunque tutti noi lo chiamavamo: “Rebbe”. Forse, perché conosceva a memoria tutte le preghiere e ci aiutava sempre a mantenere la fede nel Creatore anche a Dachau.
Questo Maestro di Lodz organizzò la festa di Purim e quasi ci fece uccidere dalle guardie tedesche. Una sera, il “Rebbe” venne a trovarci nella nostra baracca.
Burgin, il responsabile ebreo di tutti i Kapò, gli diede il compito di seppellire i morti, una mansione molto impegnativa, poiché morivano sempre più prigionieri. Era un lavoro terribile, ma era meglio che portare cento sacchi di cemento sulle spalle ogni giorno. Il “Rebbe” si faceva chiamare “Chevra Kadishà” (organizzazione ebraica di uomini e donne che si prendono cura della preparazione e sepoltura di salme secondo la tradizione ebraica), poiché si occupava delle salme e diceva il “Kaddish” dopo ogni sepoltura, cosa che gli è valsa il nostro rispetto.
Tutti lo consideravano strano, ma era un uomo gentile e sorrideva sempre e in quel contesto tragico, era un motivo per pensare che fosse un po’ matto.
Nelle ultime settimane, la nostra situazione si era deteriorata. La zuppa acquosa che di solito ci preparavano a pranzo era diventata ancora più acquosa, la porzione giornaliera di pane era diventata ancora più sottile e sempre più di colore verde muffa. Più gli alleati si avvicinavano e più i sorveglianti tedeschi diventavano nervosi e crudeli, ci picchiavano in ogni occasione. Sapevamo che gli alleati erano da qualche parte in Germania, ma non sapevamo se saremmo riusciti a resistere fino alla liberazione del campo. Una sera, mentre eravamo seduti intorno alla piccola stufa di ferro della nostra baracca, cercando di riscaldarci, il “Rebbe” entrò. Puzzava di morto e noi conoscevamo bene quell’odore. Improvvisamente ci disse “Yidden, peisach kumt in tzvelf teg un men darf baken matze” – “Ebrei, Pesach arriverà tra dodici giorni, dobbiamo preparare le matzot” (ha parlato in un dialetto yiddish diverso dal nostro consueto yiddish con accento lituano, quindi a volte era difficile capirlo. Aveva anche la strana abitudine di chiamarci “Yidden”, invece che con il nostro nome).
Lo abbiamo guardato molto stupiti per questa pericolosa iniziativa. In realtà, dopo l’incidente avvenuto con il “Rebbe” a Purim, non eravamo troppo sorpresi del fatto che sarebbe venuto fuori con un’altra idea pazza.
Poi, dopo uno sguardo furbo, agitò l’indice verso di noi e ci disse: “Lasciate che vi dica Yidden; presto celebreremo non solo Yetziat Mitzraim MA ANCHE Yeztiat Deutschland” (“Presto celebreremo non solo l’esodo dall’Egitto, ma anche l’esodo dalla Germania”). Disse questo e poi fece una breve risata acuta.
Abbiamo pensato che la sua affermazione “Esodo dalla Germania”, invece della liberazione, fosse parte del suo strano comportamento. “Dalla tua bocca alle orecchie di Dio, ma come diavolo sai che Pesach è tra dodici giorni?” Chiese mio padre sorpreso.
“Lo so perché sono quattro giorni prima della fine di marzo!” Disse trionfante! La sua precisa conoscenza delle festività ebraiche per noi non aveva alcun senso. Noi che sapevamo a malapena che giorno fosse, figuriamoci se ricordavamo le date delle feste.
“E dov’è questo esodo che ci porterà dalla Germania, attraverso il Mar Rosso, verso la terra promessa?” Chiese Chaim ironicamente. “No, attraverseremo il Mediterraneo verso la terra promessa, giovanotto,” rispose tranquillamente il “Rebbe”. Ci siamo guardati l’un l’altro. Forse le sue idee non erano così pazze. Tutti noi pensavamo che, se fossimo sopravvissuti a quel purgatorio, l’unico posto rimasto per noi era la terra di Israele (conosciuta all’epoca come Palestina).
“Allora, che ne dici di un po’di farina? Preparerò le matzot e farò la benedizione giusta per renderle kosher “, disse, sfregandosi le mani. “Per l’amor di Dio, Rebbe, dove ti aspetti che prendiamo la farina? Qui siamo tutti affamati e per di più ci porti le tue idee folli”, disse uno dei prigionieri con voce irritata.
“Senti, se vuoi avere un esodo dalla Germania, dobbiamo avere le matzot”, disse, testardamente. “O non ci sarà un esodo dalla Germania,” disse, alzando il mento. Poi improvvisamente mi puntò il dito contro e disse: “Tu che lavori nelle cucine, portaci la farina!”
Lo guardai stupito. Mio padre si era davvero arrabbiato con lui e gli urlò contro. “Vuoi che mio figlio rischi la sua vita per rubare la farina dai tedeschi per le tue Matzot?”
“Per le nostre matzot”, disse il “Rebbe” con calma. “Tuo figlio è l’unico che può ottenere la farina.” Pensai alla cantina della cucina tedesca, dove erano conservati i prodotti alimentari. Non era solo chiusa a chiave, ma il cuoco era sempre in giro. Non potevo entrare in cantina, ma se avessi avuto questa possibilità, avrei “rubato” del cibo, per sopravvivere.
Il “Rebbe”, come se percepisse i miei pensieri, alzò la mano e disse: “Ho qualcosa che può aiutarti a ottenere la farina”, e tirò fuori da sotto l’ascella un piccolo straccio legato con un filo. Lo slegò con cura e tirò fuori due oggetti. Li mise sul palmo sinistro e me lo infilò sotto il naso. Mi ritrassi disgustato. Erano due denti maleodoranti con un po’ d’oro attaccato.
Eravamo tutti sbalorditi. Sapevamo tutti che seppelliva i morti. Quando vide i nostri sguardi sorrise. “Non è quello che pensate. Non ho preso nessun dente dai morti. Fu Zundel a darmelo prima che morisse. Gli ho promesso che avrei scambiato i denti con farina per fare le matzot per il Seder di Pesach. Non volete che io rispetti la promessa che ho fatto a un ebreo morente?” disse con sguardo forte.
“Non capite? Pesach è la festa della nostra libertà dalla schiavitù… non dobbiamo più essere schiavi dei nazisti. Sapete benissimo che questa potrebbe essere la nostra salvezza e la porta per il nostro esodo dalla Germania”.
 
Ottenere La Farina
Fino ad oggi, non so come ho accettato la pazza idea del Rebbe. Allora la religione era l’ultima cosa che passava nelle nostre menti, date le circostanze. In una certa misura, abbiamo accusato Dio di ciò che è successo agli ebrei in Europa. C’era una frase nell’Haggadà nel paragrafo VEHI SHEAMDA che ci irritava: “In ogni generazione i nostri nemici si alzano per distruggerci, ma l’Onnipotente ci salva sempre dalle loro mani.” Di certo, ora, non ci stava salvando tutti …
Il giorno dopo, ho portato i denti d’oro con me nella cucina tedesca, dove lavoravo. Il cuoco era un vecchio tedesco meschino che ogni giorno ci malediva mentre ci colpiva con il suo mestolo di ferro. Ma non ci ha mai fatto davvero del male. Come dovrei avvicinarmi a lui? Cosa dovrei dirgli? “Qui ci sono due denti d’oro estratti da un ebreo morto. Potresti darmi un po’ di farina per preparare alcune matzot per Pasach? “Probabilmente mi avrebbe consegnato alle SS per essere fucilato.
Più ci pensavo, più sembrava folle. Alla fine, ho deciso di abbandonare l’idea. Quando il cuoco mi ha visto mi ha detto: “Puoi iniziare a pulire la sala mensa e poi il bagno.” Il suo tono di voce era molto più mite del solito. Ho sentito una differenza nella sua voce. Mentre mi parlava, continuava a guardare il cielo. Improvvisamente uno squadrone di aerei da caccia americani tuonò sui tetti. Li ho visti girare verso i binari della ferrovia e ho sentito i loro cannoni sparare, seguiti da forti esplosioni. Devono aver attaccato un bersaglio vicino. È stato uno spettacolo incredibile e mi ha fatto saltare il cuore dalla gioia. Il cuoco quasi svenne per lo spavento e corse giù nella cantina dove era conservato il cibo. Gli corsi dietro, ma iniziò a gridare: “Fuori! Esci! Esci! Ti ho visto gongolare quando gli aerei sono arrivati”. Mi ha urlato.
Sono uscito rapidamente dalla cantina sperando che si calmasse un po’. Ho fatto un grosso errore facendolo arrabbiare. Poi l’ho chiamato e gli ho detto: “Avevo paura degli aerei, per favore perdonami”, ci siamo guardati l’un l’altro. Potevo vedere nei suoi occhi che entrambi stavamo pensando la stessa cosa: “Presto gli americani saranno qui”.
Fu allora che, improvvisamente, tirai fuori la storia della festa di Pesach e della farina per preparare le matzot. Era come se il “Rebbe” avesse preso il controllo della mia lingua e mi avesse fatto dire quelle cose. Poi aprii lentamente lo straccio che il “Rebbe” mi aveva regalato e gli allungai i due denti d’oro.
Per un po’ il cuoco mi guardò come se fossi impazzito. Poi ho intravisto come della gratitudine nei suoi occhi e improvvisamente mi domandò: “Era durante la Pasqua che il nostro salvatore Yashke (il fondatore del cristianesimo) sedeva con i suoi discepoli e mangiava il pane non lievitato nell’ultima cena? Il pane non lievitato è ciò che voi ebrei chiamano matzot?”.
È stato il mio turno di essere sorpreso. Sapevo che era un cattolico osservante dato che portava al collo sempre una croce e che gli ho visto fare il segno della croce più volte, quando gli aerei americani sono arrivati. Questa è stata una svolta del tutto inaspettata degli eventi.
Il cuoco continuò e disse: “Da bambini ci è stato insegnato che Yashke era sempre associato ai problemi del popolo ebraico. Ma se Yashske può aiutarci a ottenere la farina, la prenderemo…”
Stavo cominciando a sperare. Per un po’ guardò i denti d’oro, ma non li prese. Non mi ha detto altro, se non di ripulire la mensa e il lavatoio.
Prima di tornare al campo, è uscito dalla cucina e mi ha dato un piccolo sacchetto di carta pieno di farina bianca. “Penso che il nostro signore vorrebbe che tu abbia le matzot per le tue feste. Dopotutto era uno del vostro popolo. A volte lo dimentichiamo”.
“Non so perché mi ha dato la farina, forse avrebbe voluto che dicessi una buona parola per lui, all’arrivo degli americani, o forse lo fece solo per convinzioni religiose. Sta di fatto che non ha preso i denti d’oro. Qualunque fosse la ragione, il “Rebbe” aveva la sua farina e sulla piccola stufa di ferro e ora poteva cucinare dei piccoli wafer bianchi che ricordavano vagamente le matzot. Avevano dei piccoli buchi ed erano leggermente bruciati.
 
Il Seder inizia
Era il 27 marzo 1945, quando il Rebbe portò le matzot e dichiarò che il Seder di Pesach avrebbe avuto inizio.
“Dei sette ingredienti necessari per condurre il Seder, ora ne abbiamo solo due. matzot e maròr, ma l’Onnipotente capirà” disse il nostro strano Maestro.
“Rebbe, dov’è il Maròr (erba amara) che hai menzionato?” Gli abbiamo chiesto. Ci ha guardato. “Le nostre vite in questo campo sono il maròr se non di più; tutte le nostre vite sono abbastanza amare per uscire d’obbligo del maròr”. Poi divise la matzà, ha diede a ciascuno di noi un pezzo e ci fece dire le benedizioni.
“Dato che sei il più giovane del gruppo, farai le quattro domande di ‘Ma nishtanà’. Con mia sorpresa, ne ricordai la maggior parte e cantai le domande con l’aiuto degli altri. Non abbiamo nascosto l’Afikomen, perché nel nostro campo non c’erano più i bambini. Tutti i fanciulli erano stati mandati ad Auschwitz nelle camere a gas, una immane tragedia, per noi, come vedere morire il futuro e la speranza, d’avanti ai nostri occhi.
Dovevamo andare a lavorare il giorno dopo, eravamo affamati e stanchi morti, ma quella notte di Pesach, ci unimmo al “Rebbe” con una specie di Seder. Ricordava a memoria la maggior parte dell’Haggadà; così ha fatto mio padre che aveva studiato in una yeshiva quando era un ragazzo. Alcuni partecipanti conoscevano alcune parti della Haggadà. Tutti si unirono per dire le benedizioni, ma eravamo addormentati prima che il “Rebbe” finisse di cantare l’Haggadà. Mi sono ricordato vagamente di aver cantato Chad Gadyà.
Alla fine, fece una breve preghiera in yiddish: “Per favore, perdonaci, Oh Signore dell’Universo, per aver condotto un servizio di Pesach così povero, ma era il meglio che potevamo fare, e per favore liberaci, o Signore, dalle mani dei nostri nemici che si sono levati, ancora una volta, in questa generazione per distruggerci”.
Che cosa devo dirvi? Ci siamo sentiti tutti come se fossimo lì a “Yetziat Mitzraim” (l’Esodo egiziano) e abbiamo creduto al “Rebbe” che saremmo stati anche noi nell’ “Yetziat Deutschland” (l’esodo tedesco).
Mi ha svegliato prima che se ne andasse e mi disse: “Meriti una benedizione speciale per aver portato la farina per le matzot. Sarai tra coloro che celebreranno presto l’esodo dalla Germania alla Terra Santa”.
Circa un mese dopo, la guerra era finita e siamo stati salvati dall’esercito americano. Era il 2 maggio 1945.
 
Seder Veste Moderna
Viviamo oggi in tempi molto diversi. Eppure continuiamo a raccontare la stessa storia del “Rebbe” e degli ebrei di Dachau. La loro storia, la nostra storia collettiva, ci ispira ancora.
Ogni anno, quando arriva Pesach, mi pongo la domanda: come posso trasformare il mio Seder in un’esperienza così significativa da provocare un cambiamento radicale, come dovrebbe essere?
La festa di Pesach, che commemora l’esodo del popolo ebraico dalla terra d’Egitto, 3.329 anni fa (nell’anno 1313 a.C.), riflette la liberazione dell’anima dai vincoli psicologici ed emotivi rappresentati dall’Egitto.
Cos’è l’Egitto? Il termine ebraico per l’Egitto (Mitzrayim) può essere tradotto come “inibizioni” o “restrizioni”. Tutti noi lottiamo con varie inibizioni interne ed esterne che soffocano la nostra crescita e ci impediscono di massimizzare il nostro potenziale. Potremmo essere paralizzati dalla paura, dalla vergogna, dalla colpa, dal risentimento, o dalle varie dipendenze. Ci può mancare la capacità di amare, di sognare, di piangere e di lasciare andare le nostre difese, o possiamo essere schiavizzati da impulsi insalubri e sentimenti di invidia, animosità e amarezza.
Spesso, la nostra ebraicità interiore, la RELAZIONE INTIMA e assoluta con il Padrone dell’universo, è ridotta in schiavitù. È ancora lì, ma non sappiamo come accedervi.
In questo senso, siamo tutti, chi più chi meno, in un altro tipo di “Egitto” e l’esperienza del Seder presenta, a ciascuno di noi, l’opportunità di lasciare il nostro Egitto personale e intraprendere la strada verso la redenzione.
Durante il Seder, dobbiamo aprire i nostri cuori e accogliere l’energia divina della liberazione che inizia a vibrare nel cosmo dalla vigilia di Pesach. Al fine di diventare pienamente NOI STESSI, pienamente umani, completamente ebrei.
 
Reclamare I Propri Genitori
Il Talmud dice, ed è citato nell’Haggadà, che “Una seconda coppa viene versata e ora il bambino domanda il Ma Nishtanà”.
Le parole talmudiche “ora il bambino domanda” (“Vekan Haben Shoel”) possono anche essere tradotte come “ora il bambino può prendere in prestito”.
Non tutti hanno avuto il privilegio di crescere con dei genitori. Alcuni sono rimasti orfani in giovane età; altri potrebbero aver avuto genitori fisici, ma psicologicamente instabili. Alcuni di noi hanno avuto il privilegio di avere genitori amorevoli che sono passati “all’altro mondo”.
In tutti i casi sopra riportati i bambini sono stati lasciati indietro, con un “vuoto” nei loro cuori. Ecco che durante il Seder vi è un momento in cui “il bambino può prendere in prestito” un padre e una madre.
In questo momento della vita, nostro padre in cielo apre la camera dell’amore incondizionato e della crescita sconfinata, attraverso la quale possiamo rivendicare la fiducia e la sicurezza di cui abbiamo disperatamente bisogno. Ora il bambino ha il permesso di fare tutte le domande, che normalmente non potrebbe mai chiedere, può dichiarare: “Padre, voglio farti quattro domande”.
GLI SCHIAVI NON FANNO DOMANDE. SOLO GLI UOMINI E DONNE LIBERI possono domandare. Non solo perché sentono di avere il diritto di chiedere, ma anche perché non temono risposte che possano metterli alla prova e magari anche trasformarli.
 
Dachau Oggiogiorno
Oggi per Maròr usiamo vere erbe AMARE. Grazie a Dio non abbiamo la vita amara come a Dachau!!! Purtroppo quando le cose vanno bene, spesso tendiamo a sentirci a nostro agio e pensiamo che siamo autosufficienti .
Il Talmud paragona la vita alla ruota che sale e scende. Al giorno d’oggi possiamo paragonare la vita alle montagne russe, dove si sale e si scende. Anche la discesa non è così grave perché è un modo per prendere velocità per risalire di nuovo.
Sicuramente al Seder di Dachau i partecipanti hanno mangiato la più gustosa e fragrante matzà della loro vita.
Sicuramente gran parte dei nostri problemi di autostima e depressione loro non li avevano, perché avevano problemi di sopravvivenza da superare in ogni istante.
Quando mangiamo il maròr che ci sembra amaro ricordiamoci che c’è un “VERO AMARO” molto più bruciante e che grazie a Dio non dobbiamo sfidare in ogni istante…
Quando nella vita ci capitano delle apparenti amarezze, non lasciamoci dominare da esse e farci rovinare la nostra felicità CHE È IL PIÙ GRANDE DONO CHE DIO CI HA DATO.
La nostra vita è come le montagne russe dove anche le discese servono per salire di nuovo da un’altra parte. Solo la discesa ci può far maturare, attraverso il bisogno e la spinta di una nuova salita.
Anche la nostra storia ha avuto delle montagne russe e delle cadute penose come in Egitto o a Dachau ma adesso stiamo salendo e saliremo sempre di più. Non possiamo permettere che nostri, relativamente piccoli, problemi del terzo millennio ci rubino il sorriso o ci distolgano dalla nostra missione in questo mondo.
Ogni anima in questo mondo deve riflettere sul fatto che se è stata mandata qui solo per migliorare questo mondo e renderlo idoneo alla rivelazione infinita di Hashem.
Come dice il Rebbe YHM che il giorno del mio compleanno è il giorno dove DIO HA DECISO CHE IL MONDO NON PUÒ SOPRAVVIVERE SENZA IL MIO CONTRIBUTO, per questo il Padre Eterno mi ha mandato qui per perfezionarlo.
Speriamo presto di vedere il frutto del nostro operato e la imminente rivelazione di Mashiach presto nei nostri giorni, amen.

shalom uvraha

Rav Bekhor