BO e 10 Y SHEVAT 5784: 8 LEZIONI

14 Gennaio 2024 1 Di HaiimRottas

Questo Shabbàt 20 Gennaio 2024, 10 del mese di Shevàt 5784 leggeremo la Parashà di

Bo          Es. 10, 1-13, 16

Si legge l’Haftarà di
Italiani: Isaia 18, 7-19, 25

Milano/Torino/Sefarditi/Ashkenaziti:

Yirmiyà Geremia 46, 13-28
(a pagina 214 del volume Shemòt edizioni Mamash).

UN MATRIMONIO AMMANTATO DI VERO AMORE

Una nobildonna maltrattata dal ricco e potente marito, divorzia da lui e scappa rifugiandosi tra le braccia dell’uomo che ha sempre amato. Un nuovo marito e una futura nuova famiglia! Il nuovo marito è sempre stato per lei un caro amico benevolo e anche adesso ha intenzione di darle il massimo confort e concederle tutto il bene possibile.

Tuttavia, fin dall’inizio non sembra proprio così!

Prima egli la trasporta su un vecchio asino malandato, poi la accoglie in una capanna logora, quella che avrebbe dovuto essere il loro “nuovo nido”. E non finisce qui! Il cibo è poco e cattivo, l’acqua c’è ma solo fredda. Nonostante le condizioni a dir poco disagiate, la ex nobildonna decide di rimanere e di rinunciare al lusso dei grandi palazzi per accontentarsi di “molto poco”, tranne del fatto di avere finalmente trovato un vero marito con un gran cuore. La donna preferisce le povere condizioni dell’uomo apparentemente MODESTO e privo di mezzi, ma di GRANDI valori piuttosto che un aristocratico senza virtù.

Quindi, apparentemente ci si trova di fronte ad un finale dalla morale scontata, ma è proprio così?

La Realtà Dietro il Sipario

In realtà, il nuovo marito non è affatto più povero del precedente, ma vuole solo mettere alla prova la sposa. Se l’avesse accolta con una Ferrari rombante o con un jet privato forse il matrimonio non sarebbe stato sincero. Perciò il nuovo sposo le chiede la mano in un ambiente semplice, per vedere se la sua futura sposa è interessata solo a quello che lui ha, oppure è la sua vera anima gemella!!!

In questo modo, dopo un periodo di prova, l’apparentemente povero marito chiede alla donna di sposarlo e solo poi svela la sua vera identità.

Sembra un film di Hollywood, no? Mentre è la stessa trama identica che ritroviamo nella parashà di questa settimana (Bo), dove si racconta l’inizio dell’l’Esodo del popolo ebraico dall’Egitto.

Dice il profeta Geremia (cap. 2, 2) a proposito di questo comportamento del popolo di Israèl: “Così disse Hashèm, ricorderò sempre la bontà della tua gioventù… quando sei venuto dietro di me nel DESERTO in una terra ARIDA senza CIBO”.
Israèl vive nel paese più evoluto e potente al mondo, ma nonostante ciò non esita ad abbandonare questo luogo e tutte le sue certezze in cambio di un deserto sterile senza un futuro certo.
Se ci pensiamo un attimo sembra una follia! Oggi Moshè avrebbe rischiato una denuncia per circonvenzione di incapace… Un popolo, di qualche milione di migliaia di individui, con donne e bambini e anziani va nel deserto con acqua e viveri sufficienti solo per pochi giorni. Senza nessuna garanzia, tranne la FEDE NELL’AMATO FUTURO MARITO!
Questo atto di fiducia non ha paragoni nella storia dell’umanità! Bambini e neonati che si buttano in un deserto infinito senza alcuna certezza di poter sopravvivere, ma solo sulla base di una promessa astratta. Proprio per questo atto Dio si ricorderà in eterno la grande fede di Israèl che senza incertezze si fida ciecamente della promessa divina.

Geometrie istruttive
Tuttavia per noi oggi, quale è il grande insegnamento da cui possiamo imparare per migliorare le nostre vite? È quello di capire che ci sono due relazioni fondamentali che coinvolgono noi tutti.
La prima è quello tra noi e il prossimo e quindi con la società che ci circonda che possiamo definire come “Relazione orizzontale”, la seconda è quella tra l’uomo e Hashèm che non essendo, ovviamente, su un piano di eguaglianza o parità possiamo definire “Relazione verticale”.

La Relazione Orizzontale: Ricordi Coraggiosi
Il paragone tra l’Esodo del popolo ebraico e la moglie che scappa dal marito per risposarsi non è casuale, poiché è scritto (Cantico 3, 11) che la ricezione della Torà è come un matrimonio con Hashèm. E da questo possiamo trarre delle lezioni per la vita coniugale.
Così come Israèl, per sposarsi con Dio, si deve buttare nel buio, così anche in ogni matrimonio non può essere tutto razionalizzato e pianificato nei minimi dettagli. È vero, dice Maimonide (Ràmbam), che prima di sposarsi bisogna avere una casa e un lavoro, ma ci vuole la componente del “lanciarsi”, come impariamo dal comportamento di Israèl che va a sposarsi con Dio, oltre ogni logica.
Il MATRIMONIO, infatti esprime la volontà di camminare mano nella mano in ogni situazione, anche nel buio. A volte le preoccupazioni economiche non solo annullano la solidità del matrimonio, ma anche ostacolano la benedizione divina che viene solo a chi possiede una SERENA FEDE circa il fatto che i problemi SARANNO RISOLTI poiché c’è un REGISTA dietro a “questo cinema” (la nostra vita terrena).
Non a caso il versetto sopra citato di Geremia ci insegna anche che il “grande amore” dopo il “fuoco” dei momenti iniziali va comunque costantemente alimentato: “RICORDO SEMPRE” dice Hashèm a Israèl, ossia il tuo gesto di grande amore è sempre davanti a me.
Diciamo nella hagadà di Pèssakh: “In ogni generazione occorre vedere noi stessi come se fossimo usciti adesso dall’Egitto”, e questa fede deve essere manifestata in continuazione. Inoltre l’Alter Rebbe aggiunge che anche ogni giorno dobbiamo ricordare questo (perché ogni giorno leggiamo la Cantica del Mare).
Così come l’uscita, ovvero il grande amore iniziale, va ricordata ogni anno a Pèssakh e ogni giorno, così dovremmo alimentare il nostro matrimonio in terra giorno dopo giorno.
Per poter superare gli ostacoli continui della vita è vitale rinvigorire quello spirito profondo di unione che ci dà la forza di non fermarci davanti ai problemi.
La routine della vita coniugale, infatti, tende a oscurare la memoria della grande luce che ha illuminato i nostri cuori. Questo ricordo viene spesso offuscato col passare degli anni, dai tanti e vari impegni famigliari e dai bambini. Quindi per non rischiare di cadere nella “trappola del tempo” ci viene chiesto di ricordare e portare sempre con noi tutti quei momenti meravigliosi di grande unione sentimentale che hanno permesso di “legare due anime assieme”, senza sapere dove si rotolerà.
“E io ti fidanzerò in eterno” dice il verso. Un vero fidanzamento è eterno, un’attività in itinere che cresce e si rinnova ogni giorno e in ogni momento.
Per le persone sposate e non solo, la lettura della storia di questa parashà settimanale può illuminare il ricordo che l’unità coniugale va alimentata e rinnovata continuamente come l’uscita dall’Egitto e che non si può pretendere che sia tutto programmato, ma bisogna anche BUTTARSI per realizzare pienamente il matrimonio, che è la meta più ambiziosa da raggiungere.

La Relazione Verticale: Un Salto Nel Buio
Quando il mondo non ebraico, o coloro che si sono allontanati dalla vita ebraica, sfidano l’ebreo osservante, dicendogli:
«Tu che, al pari di noi, vivi in un mondo materialista, in mezzo a una società competitiva, conducendo come tutti la strenua battaglia per la sopravvivenza economica, come puoi sottrarti all’idolatria che regna nel paese, che si tratti del dollaro, o del timore di essere “diverso” e così via?
Come puoi aderire a un codice di 613 precetti che, ovunque tu vada, “vincola” la tua esistenza e limita la tua possibilità di competere?».

La risposta a questa sfida è l’Esodo dall’Egitto. Uno dei suoi messaggi essenziali è infatti l’assoluta fede nella Provvidenza Divina che si manifesta palesemente negli eventi storici dell’Esodo: un intero popolo – uomini, donne e bambini – in tutto qualche milione di persone, si lascia alle spalle un paese prospero e ricco, per intraprendere un lungo e pericoloso viaggio, per di più senza provviste, ma ricco “SOLAMENTE” della fede assoluta nella parola di Hashèm.
Nel caso dell’Esodo, quando gli ebrei rispondono all’appello divino e ai precetti, trascurando ogni considerazione “razionale” e staccandosi da un passato negativo, è proprio l’applicazione di questi principi a spianare la via alla loro vera felicità, non solo spirituale (con il Dono della Torà e divenendo il popolo scelto da Dio e una nazione santa), ma anche materiale (con l’insediamento nella Terra Promessa dove scorrono latte e miele).

Così è anche oggi e sarà sempre: grazie alla Torà, chiamata anche Toràt Khayìm – Dottrina di Vita, e alle mitzvòt applicate alla vita quotidiana, l’ebreo si unisce al Creatore e Signore del mondo e si libera da tutti i vincoli e limiti “naturali”, conoscendo la vera felicità, materiale e spirituale. E grazie a ciò potremo meritare che Mashiàkh giunga subito, presto nei nostri giorni, Amen.

Tratto e adattato da una lettera del Rebbe di Lubàvitch, 11 nissàn 5721

BO: UN EGO DA DIO…

Esodo da 10, 1 fino a 13, 16 

La parashà di questa settimana, Bo, è un vero e proprio “Game Changers”, poiché con essa terminano le piaghe assieme alla secolare schiavitù del popolo ebraico.
In particolare, in questo breve scritto vorremmo sottolineare un aspetto, forse poco noto, che riguarda la figura del faraone, chiamato sempre Parò nella Torà. Come già detto, non esiste niente che non sia formato, creato o fatto da Hashèm, nulla è SEPARATO da Lui: dal più insignificante sassolino, alla galassia più bella, misteriosa e lontana. E non solo questo! Tutto deriva da Dio.
Tuttavia, nonostante questo, e forse proprio grazie a questo, la figura del faraone sembra in qualche modo risultare ancora più enigmatica. Brevemente, cercando di sintetizzare al massimo, con Parò ci troviamo di fronte a un essere umano che sembra comportarsi con una convinzione quasi “maniacale” di essere un dio. O per meglio dire di essere non solo staccato e autonomo da Dio, ma addirittura crede e si sente un essere “autosufficiente”, tanto da pensare che tutto dipende da lui.
Questa cosa, già di per se incredibile, diventa quasi assurda se questa mentalità e l’ego smisurato del faraone si innestano nel contesto delle piaghe. Quale essere umano avrebbe resistito come il faraone? Quale essere umano di fronte alle incredibili e soprannaturali devastazioni causate dalle piaghe non avrebbe, anche solo per paura, acconsentito a piegarsi alle richieste di Moshè fin da subito? Chiunque si sarebbe arreso anche solo per mero spirito di sopravvivenza!
Invece, nella Torà troviamo questa “strana” figura di uomo che fino alla 9° piaga si rifiuta testardamente di cedere. Nonostante gli immensi danni, vittime e sofferenze sopportate da lui e dal suo popolo.

Immagine di Dio
L’ego umano, per quanto a volte fastidioso, pericoloso o irritante posa essere, è una della “qualità” che ci caratterizza più di tutte. Addirittura, se ci riflettiamo bene, se mai ci dovessimo trovare di fronte a un essere umano “privo di ego”, saremmo portati a descriverlo in termini “superlativi” del tipo: “uomo o donna santa”, “persona eccezionale”, unica e così via… L’ego è così diffuso che siamo abituati alla sua presenza in noi e negli altri, tanto che siamo portati a notare, quasi sempre, solo la “sua assenza”.
Le caratteristiche principali dell’agire egoistico di Parò e anche di tutti coloro che sono “posseduti” da questo sentimento che “sintomi” hanno? Come detto sopra, a proposito del faraone essi sono: sentirsi indispensabili, autosufficienti, infallibili, perfetti e tanto altro.
Ma se ci riflettiamo, queste non sono anche le caratteristiche con cui si descrive, o almeno si tenta di descrivere, Hashèm? Non abbiamo mai letto o sentito dire che Dio è infallibile, che deriva tutto da Lui, che prima della creazione non esisteva nient’altro se non Lui o che è sempre giusto ecc? La risposta è che essendo l’anima umana parte o comunque una creatura di Hashèm in essa si trovano anche gli aspetti e gli attributi divini. In maniera forse imprecisa, possiamo dire che siamo ad “immagine di Dio”. Inevitabilmente, quindi, anche i tratti caratteriali umani, buoni o cattivi che siano ai nostri occhi, derivano da Lui.
Tuttavia, a questo punto occorrerebbe capire come è possibile che gli attributi divini possano manifestarsi, anche se attraverso l’essere umano, in forme negative, come nell’esemplare caso del faraone?

Rompere i Gusci
Uno dei motivi è che quando le “luci” della santità “scendono” in questo mondo, esse vengono occultate e ricoperte da quelle che nell’esoterismo sono chiamate klipòt, “gusci”. In sostanza noi possiamo, attraverso il nostro agire, “liberare” queste luci oppure, al contrario, nasconderle ancora di più. Tuttavia, in ogni caso, è da esse che traiamo la forza di comportarci in un modo giusto e buono, oppure in modo meno buono e giusto. Questo è uno dei motivi per cui la resistenza del faraone, la sua testardaggine, rasenta l’incredibile, poiché questa forza il faraone la prendeva da un aspetto divino molto elevato. Uno dei segreti delle “piaghe”, il loro scopo, era quello di rompere la durezza del faraone e dell’Egitto per rivelare la santità nei comportamenti e abitudini malvagie celate in essi.
Anche noi, nella vita di tutti giorni possiamo cercare di migliorarci superando le nostre abitudini non buone. Acquisendo dei buoni comportamenti e tratti di carattere possiamo anche noi “rompere” e liberare la santità celata nei nostri piccoli e meno piccoli “difetti” o carenze della nostra vita.
Attraverso questo lavoro interiore, rettificando il faraone nascosto dentro ognuno di noi, possiamo lavorare attivamente per far arrivare subito l’era messianica. Periodo in cui le forze della santità saranno pienamente e positivamente rivelate a tutta l’umanità in maniera eterna.

Le Ultime Tre Piaghe e l’Esodo 

La terza sezione del libro dell’Esodo si apre con Hashèm che dice a Moshè “vieni” (bo, in ebraico) dal faraone, per annunciare l’ottava piaga. Seguono altre due piaghe, dopo le quali Israèl è finalmente liberato dalla schiavitù e può uscire dall’Egitto. Hashèm dice al popolo di osservare la ricorrenza dell’Esodo con la festa di Pèssakh.

*

Shemòt 10, 24 – 11, 3
Dopo la piaga delle tenebre, il faraone accetta di lasciare andare Israèl, ma alle sue condizioni. Quando Moshè rifiuta i suoi termini, il faraone rinnega e manda via con rabbia Moshè.

La Brama di Potere 
Il faraone disse [a Moshè]: «Vattene via da me! Bada a non vedere più il mio volto, poiché il giorno in cui lo vedrai morrai!» Rispose Moshè: «Hai ben detto». (10, 28–29)

Ogni cosa malvagia è in realtà una versione “decaduta”, una distorsione, di qualche forma di santità. Il faraone è l’espressione decaduta della capacità di Hashèm di superare i limiti della natura. Nella forma decaduta, questo potere si trasforma nel suo arrogante disprezzo di ogni altra autorità diversa dalla sua. Così, quando il faraone dice a Moshè “il giorno in cui vedrai il mio volto morrai”, sta (inconsapevolmente) avvertendo Moshè che nessuno può vedere l’infinitezza di Hashèm e rimanere vivo.
Moshè è d’accordo: nessuna creatura limitata, può sperimentare il Suo infinito e continuare a esistere come essere finito: sarà assorbito da quella esperienza e “si dissolverà” nell’infinito di Hashèm. Tuttavia, Egli non è vincolato dalle Sue regole: se vuole, può permettere a un individuo di “sopravvivere” a quell’esperienza.
Questo è ciò che fa Hashèm con Moshè al fine di permettergli di distruggere la malvagità del faraone rivelando il Suo potere soprannaturale attraverso le piaghe. Tutti noi abbiamo il nostro personale “faraone”, cioè l’aspetto delle nostre vite che si oppone o addirittura è ostile alla santità. Quando il “faraone”, che è la radice dei problemi, sarà sconfitto, gli altri ostacoli verso una vita positiva e sana faranno la stessa fine.

IL PASTORE DELLA REDENZIONE

Settant’anni fa (il 10 di shevat secondo il calendario ebraico), dopo la scomparsa del sesto Rebbe di Lubavitch, Rabbi Yosef Yitzkhàk Schneerson, la guida del movimento Chabad-Lubavitch passò al suo illustre genero, Rabbi Menachem Mendel Schneerson, chiamato comunemente “Rebbe”. Questo Sabato è il 10 Y SHEVAT


e si celebra il settantesimo anniversario della guida del Rebbe.

Nei decenni, il Rebbe ha rivoluzionato, ispirato e guidato la trasformazione post-Olocausto del popolo ebraico e del mondo intero e continua ancora oggi. Questo giorno, così importante per la nostra generazione, è sicuramente un momento di riflessione, apprendimento, preghiera, risoluzioni positive e atti di gentilezza.
Il settimo leader della dinastia Chabad – Lubavitch, è considerato un fenomenale esempio di leadership. Per centinaia di migliaia di fedeli, milioni di simpatizzanti e ammiratori in tutto il mondo, era – ed è ancora, “Il Rebbe”. Senza dubbio, egli è il maggior protagonista e responsabile del risveglio e della diffusione dell’ebraismo mondiale dopo le tragedie della Seconda Guerra Mondiale.
Grazie agli insegnamenti del Rebbe, il movimento Chabad – Lubavitch è rapidamente cresciuto fino a diventare una presenza mondiale e tutte le sue varie attività sono contrassegnate dalla leadership del Rebbe (una biografia sintetica è disponibile alla fine di questo scritto). Non c’è da stupirsi, quindi, che molti si chiedano dopo tanti anni: Cosa c’è nella sua leadership che era ed è, in molti modi, ancora così unica? Perché molte personalità di spicco e persone comuni mantengono un rispetto e un’ammirazione così profondi per lui?

Un “Leader Maximo…”? No! Un Creatore Di Leadership

Molte guide sono o erano dotate di capacità fuori dal comune: colti, intelligenti, profetici, intuitivi sapienti e molto altro. Ognuno, a suo modo, eccelle o eccelleva in una o molte di queste qualità.
Ovviamente il Rebbe non era da meno! Vi è una sterminata letteratura fatta di aneddoti, testimonianze varie di persone comuni, leader religiosi, politici e tanti altri che mostrano quanto il Rebbe fosse colto, saggio, intelligente, ispirato, pio e molto altro… Il Rebbe studiò matematica alla Sorbone e si laureò in “meccanica ed elettrotecnica” presso ESTP a Parigi nel 1937. Allo stesso tempo aveva una conoscenza enciclopedica della Torà in tutte le sue “articolazioni”: Midrashìm, Pentateuco, Zòhar, Profeti, storie e aneddoti chassidici, halakhà ecc. In numerosissimi frangenti dimostrò di saper rispondere a ogni quesito che gli veniva posto su qualsiasi argomento del Tanàkh e non solo, con una profondità, tempismo e lucidità, come se avesse studiato la sera prima quell’argomento. L’eccezionale sapienza e conoscenza del Rebbe è stata spesso sottolineata da molti testimoni eruditi o semplici “dilettanti” della Torà.
Per non parlare del fatto che da un infinito numero di persone è stata evidenziata la capacità del Rebbe di “prevedere” intuitivamente cosa una persona poteva fare o meno. Eppure lui sapeva dare quel consiglio giusto e determinare così la migliore via per la salute o la vita dei suoi interlocutori o dei loro perorati (per approfondire le molte storie riguardo al Rebbe è possibile visitare questo sito Chabad: https://www.chabad.org/therebbe/article_cdo/aid/61864/jewish/Stories.htm).

Tuttavia, queste qualità uniche del Rebbe, appena accennate, non chiariscono esaustivamente perché era ed è considerato un leader unico nel suo genere. La risposta la possiamo trovare nello scopo stesso e nell’approccio del Rebbe verso l’umanità. Egli non aveva come fine ultimo quello di mostrare le sue eccezionali doti, al solo fine di influenzare positivamente i suoi interlocutori o seguaci. Ogni gesto, parola, pensiero del Rebbe aveva un solo scopo: diffondere gli insegnamenti e le pratiche della Torà a più persone possibili e nel modo più profondo e duraturo. A tal fine, il Rebbe sapeva che non bastava il suo esempio o influenza diretta, ma che doveva “costruire” dei “piccoli Rebbe” che facessero da moltiplicatori nel rafforzare e diffondere la Torà e i suoi comandamenti nel mondo e nel più breve tempo possibile. Tutto questo al solo scopo di accelerare al massimo la redenzione finale per tutta l’umanità. Per questo il Rebbe tendeva naturalmente a valorizzate le persone con cui entrava in contatto, siano state esse chassidìm o persone comuni. Il Rebbe riusciva, o comunque cercava, di creare dei leader che potessero in autonomia superare le avversità del mondo, diffondere i valori della Torà con forza, senza “perdersi”. Persone che fossero leader, guide e esempi viventi nelle loro famiglie, al lavoro o nella loro comunità.
Questo, in estrema sintesi, la peculiarità della leadership del Rebbe, lui “costruiva” leaders, non si limitava solo a esserlo egli stesso.

Uno Sguardo Da Vicino
Nonostante le incredibili qualità del Rebbe, e oserei dire forse proprio a causa di queste, non è molto conosciuto al di fuori degli ambienti ebraici. Il suo ruolo di stimolare e rivelare le qualità degli altri, in un connubio di presenza personale e stimoli indiretti, vedeva il Rebbe operare a volte “dietro le quinte”. Ovviamente non ha mai ricercato la presenza mediatica né tanto meno, una qualsiasi forma, anche involontaria di protagonismo personale. Per questo la sua opera di diffusione dei sette precetti noachidi, altrettanto importante di quella praticata nell’ambiente ebraico, è misconosciuto ai più. Invece, il Rebbe, come sanno bene i suoi chassidìm, non ha mai negato il suo aiuto a nessuno ebreo e non. Persone assolutamente normali e sconosciute si sono avvicinate, anche indirettamente, a lui e sono sempre state accolte.
Per questo, tra le tante storie che avrei potuto proporre, ne ho scelta una che riguarda, almeno apparentemente, proprio un non ebreo. La storia che seguirà è raccontata da Rabbi Yitzhak Weinberg, che è stato inviato dal Rebbe come emissario Chabad a Vancouver circa sessant’anni fa. Rabbi Yitzhak andava una volta alla settimana per tenere una lezione sulla Torà (shiur) in un’azienda di proprietà di due suoi sostenitori. Spesso, durante queste lezioni, la conversazione cadeva sul potere delle benedizioni del Rebbe. Nello stesso luogo c’era anche l’ufficio di un avvocato ebreo di nome Brian Karshaw che, ad un certo punto, chiede a Rabbi Weinberg: “Ma il Rebbe benedice anche i non ebrei”. Il rabbino Weinberg prontamente gli risponde “Ovviamente si!”. Il signor Karshaw gli riferisce allora che sua moglie non ebrea è malata e che vorrebbe che il rabbino chiedesse al Rebbe una benedizione per la sua guarigione. Il rabbino Weinberg scrisse quindi una lettera al Rebbe, menzionando il suo nome e il nome di suo padre (come è il costume per i non ebrei, a differenza degli ebrei che si usa il nome della madre).
Una settimana dopo, il segretario del Rebbe, Rabbi Klein, chiamò, dicendo che il Rebbe voleva sapere anche il nome della madre della donna. Il rabbino Weinberg stupito dice “Ma lei non è ebrea!”. Il rabbino Klein risponde che lo sapeva, ma questo è ciò che il Rebbe ha chiesto… Il rabbino Weinberg allora chiama immediatamente il marito della donna, Brian, che gli dice che il nome della madre di sua moglie era Anna. Tuttavia, essendo molto sorpreso di una tale richiesta condivide questo episodio con la moglie. La donna, anche lei perplessa, si decide a chiamare sua madre, che viveva in Francia, e le chiede se avesse un altro nome oltre ad Anna?! “Perché lo chiedi”? Gli risponde sua madre. Quando ha sentito di cosa si trattava e cosa il Rebbe voleva sapere ci fu un silenzio, poi rotto da un’esclamazione: “Deve essere veramente un sant’uomo questa persona…”!
Successivamente la madre condivide con la figlia un grande segreto di famiglia: lei era nata da genitori ebrei e che durante la seconda guerra mondiale era stata nascosta in un monastero. Dopo la guerra non è tornata alle sue radici ebraiche, si è invece sposata con un cattolico francese e ha vissuto come cristiana. “Il mio vero nome è Chana e sono ebrea, e quindi lo sei anche tu”.
In qualche modo il Rebbe sapeva la verità…!

Buoni Propositi
La redenzione non si basa solamente sulla nostra capacità di comprendere astrattamente quello che ognuno di noi deve fare o meno nella sua vita. Il vero “game changer, punto di svolta”, come direbbero gli americani, è riuscire a cambiare concretamente noi stessi. Per questo, adesso vorrei proporre un’azione pratica, un impegno che ognuno di noi, se vuole, può prendere anche pubblicamente.
Visto che ci troviamo nel periodo del settantesimo anniversario della leadership del Rebbe, da quando ha iniziato a guidarci nel, chiederei a ognuno, come atto di ringraziamento, di prendere una iniziativa di miglioramento (anche nei 67 precetti noachidi per i gentili) e farlo come regalo al Rebbe.
Se si vuole comunicare la decisione, questo post potrebbe essere il luogo adatto. Sono sicuro che sarebbe un atto molto apprezzato, soprattutto se questo nuovo impegno si prende con determinazione.
Quindi vi invito, approfittando di questo giorno propizio, a decidere di migliorare su un aspetto della vita al fine di accelerare la redenzione finale: per gli ebrei di aggiungere o migliorare nell’adempimento di una mitzvà; per i “figli di Nòakh” di fare altrettanto su uno dei precetti noachidi, per chi avesse bisogno in questi siti è possibile approfondire quali sono questi precetti:
http://www.mamash.it/old-site/leggi_noe.htm; https://noachismoitalia.wordpress.com/

Una Breve Biografia
Il Rebbe nacque in Russia nel 1902, nella città di Nikolaev, l’undicesimo giorno di Nissan. Figlio del famoso cabalista, studioso talmudico e leader Rabbi Levi Yitzkhàk e Rebbetzin Chana Schneerson. Rebbetzin Chana (1880-1964). Il coraggio e la generosità del futuro Rebbe si evidenziarono fin da subito. In particolare c’è una storia sui primi anni di vita del Rebbe che sembra essere quasi il simbolo di tutto ciò che doveva seguire. Quando aveva nove anni, il giovane Menachem Mendel si tuffò coraggiosamente nel Mar Nero e salvò la vita di un bambino che era affogato in mare.
Fin dalla prima infanzia ha mostrato una prodigiosa acutezza mentale. Quando raggiunse il suo Bar Mitzvà, il Rebbe era considerato un “iluy”, un prodigio della Torà.
Dopo aver trascorso la sua adolescenza immerso nello studio della Torà nel 1928 il Rebbe sposò la figlia del sesto Rebbe, Rebbetzin Chaya Mushka, a Varsavia. Successivamente ha studiato all’Università di Berlino e poi alla Sorbona di Parigi. In questi anni la sua formidabile conoscenza della matematica e delle scienze ha cominciato a fiorire.
Lunedì 28 sivan, 5701 (23 giugno 1941) il Rebbe e la Rebbetzin sono giunti negli Stati Uniti, dopo essere stati miracolosamente salvati, grazie a Dio onnipotente, dall’olocausto in Europa. L’arrivo del Rebbe ha segnato la genesi di nuovi e radicali sforzi per rafforzare e diffondere la Torà e l’ebraismo in generale e gli insegnamenti chassidici in particolare. Poco dopo il suo arrivo, su sollecitazione di suo suocero, il Rebbe iniziò a pubblicare le sue annotazioni su vari trattati chassidici e cabalistici, oltre a un’ampia gamma di risposte su argomenti della Torà. Con la pubblicazione di queste opere il suo genio fu presto riconosciuto dagli studiosi di tutto il mondo.
Dopo la scomparsa di suo suocero, il rabbino Yosef Yitzchak Schneerson, nel 1950, il Rebbe Menachem M. Schneerson accettò, con riluttanza, la guida del movimento Lubavitch, il cui quartier generale è al 770 Eastern Parkway a Brooklyn, New York. Presto le istituzioni e le attività di Lubavitch assunsero nuove dimensioni. La filosofia estensiva di Chabad-Lubavitch è stata tradotta in un’azione sempre più grande: i centri Lubavitch e le case Chabad sono stati aperti in dozzine di città e campus universitari in tutto il mondo.
Il Rebbe ha capito acutamente che ogni nostra azione fa parte di un disegno più grande. Ogni buona azione che facciamo porta l’umanità più vicino alla meta finale, l’era della perfezione cosmica e della consapevolezza universale di Dio, conosciuta nell’ebraismo come il tempo di Mashìakh. Il Rebbe ha parlato instancabilmente di questo periodo, dimostrando come il mondo si stia avvicinando sempre di più a questa era speciale e come ogni persona possa realizzarla aumentando gli atti di bontà e gentilezza.

Grazie Rebbe per illuminare le nostre anime con luce e positività! Grazie per il fatto che ci hai dato un senso alla vita, e ci hai illuminato il nostro cammino spiegandoci il valore della missione individuale che ogni singolo può realizzare e che nessuno al mondo può sostituire.
Grazie per aver elevato questo mondo e renderlo idoneo per la imminente venuta di Mashìakh presto nei nostri giorni amen.

We Want Mashiakh NOW!

In memoria di Yaakov ben Shelomo
לעילוי נשמת יעקב בן שלמה ורחל
nuova lezione 2020 ESPLOSIVA sulla redenzione

2 RAGIONI CHE RENDONO ETERNA LA REDENZIONE DI MOSHÈ
https://www.facebook.com/shlomo.bekhor/posts/10157835307775540
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UN MATRIMONIO AMMANTATO DI VERO AMORE

Una nobildonna maltrattata dal ricco e potente marito, divorzia da lui e scappa rifugiandosi tra le braccia dell’uomo che ha sempre amato. Un nuovo marito e una futura nuova famiglia! Il nuovo marito è sempre stato per lei un caro amico benevolo e anche adesso ha intenzione di darle il massimo confort e concederle tutto il bene possibile.
Tuttavia, fin dall’inizio non sembra proprio così!
Prima egli la trasporta su un vecchio asino malandato, poi la accoglie in una capanna logora, quella che avrebbe dovuto essere il loro “nuovo nido”. E non finisce qui! Il cibo è poco e cattivo, l’acqua c’è ma solo fredda. Nonostante le condizioni a dir poco disagiate, la ex nobildonna decide di rimanere e di rinunciare al lusso dei grandi palazzi per accontentarsi di “molto poco”, tranne del fatto di avere finalmente trovato un vero marito con un gran cuore. La donna preferisce le povere condizioni dell’uomo apparentemente MODESTO e privo di mezzi, ma di GRANDI valori piuttosto che un aristocratico senza virtù.
Quindi, apparentemente ci si trova di fronte ad un finale dalla morale scontata, ma è proprio così?

La Realtà Dietro il Sipario
In realtà, il nuovo marito non è affatto più povero del precedente, ma vuole solo mettere alla prova la sposa. Se l’avesse accolta con una Ferrari rombante o con un jet privato forse il matrimonio non sarebbe stato sincero. Perciò il nuovo sposo le chiede la mano in un ambiente semplice, per vedere se la sua futura sposa è interessata solo a quello che lui ha, oppure è la sua vera anima gemella!!!
In questo modo, dopo un periodo di prova, l’apparentemente povero marito chiede alla donna di sposarlo e solo poi svela la sua vera identità.
Sembra un film di Hollywood, no? Mentre è la stessa trama identica che ritroviamo nella parashà di questa settimana (Bo), dove si racconta l’inizio dell’l’Esodo del popolo ebraico dall’Egitto.

Dice il profeta Geremia (cap. 2, 2) a proposito di questo comportamento del popolo di Israèl: “Così disse Hashèm, ricorderò sempre la bontà della tua gioventù… quando sei venuto dietro di me nel DESERTO in una terra ARIDA senza CIBO”.
Israèl vive nel paese più evoluto e potente al mondo, ma nonostante ciò non esita ad abbandonare questo luogo e tutte le sue certezze in cambio di un deserto sterile senza un futuro certo.
Se ci pensiamo un attimo sembra una follia! Oggi Moshè avrebbe rischiato una denuncia per circonvenzione di incapace… Un popolo, di qualche milione di migliaia di individui, con donne e bambini e anziani va nel deserto con acqua e viveri sufficienti solo per pochi giorni. Senza nessuna garanzia, tranne la FEDE NELL’AMATO FUTURO MARITO!
Questo atto di fiducia non ha paragoni nella storia dell’umanità! Bambini e neonati che si buttano in un deserto infinito senza alcuna certezza di poter sopravvivere, ma solo sulla base di una promessa astratta. Proprio per questo atto Dio si ricorderà in eterno la grande fede di Israèl che senza incertezze si fida ciecamente della promessa divina.

Geometrie istruttive
Tuttavia per noi oggi, quale è il grande insegnamento da cui possiamo imparare per migliorare le nostre vite? È quello di capire che ci sono due relazioni fondamentali che coinvolgono noi tutti.
La prima è quello tra noi e il prossimo e quindi con la società che ci circonda che possiamo definire come “Relazione orizzontale”, la seconda è quella tra l’uomo e Hashèm che non essendo, ovviamente, su un piano di eguaglianza o parità possiamo definire “Relazione verticale”.

La Relazione Orizzontale: Ricordi Coraggiosi
Il paragone tra l’Esodo del popolo ebraico e la moglie che scappa dal marito per risposarsi non è casuale, poiché è scritto (Cantico 3, 11) che la ricezione della Torà è come un matrimonio con Hashèm. E da questo possiamo trarre delle lezioni per la vita coniugale.
Così come Israèl, per sposarsi con Dio, si deve buttare nel buio, così anche in ogni matrimonio non può essere tutto razionalizzato e pianificato nei minimi dettagli. È vero, dice Maimonide (Ràmbam), che prima di sposarsi bisogna avere una casa e un lavoro, ma ci vuole la componente del “lanciarsi”, come impariamo dal comportamento di Israèl che va a sposarsi con Dio, oltre ogni logica.
Il MATRIMONIO, infatti esprime la volontà di camminare mano nella mano in ogni situazione, anche nel buio. A volte le preoccupazioni economiche non solo annullano la solidità del matrimonio, ma anche ostacolano la benedizione divina che viene solo a chi possiede una SERENA FEDE circa il fatto che i problemi SARANNO RISOLTI poiché c’è un REGISTA dietro a “questo cinema” (la nostra vita terrena).
Non a caso il versetto sopra citato di Geremia ci insegna anche che il “grande amore” dopo il “fuoco” dei momenti iniziali va comunque costantemente alimentato: “RICORDO SEMPRE” dice Hashèm a Israèl, ossia il tuo gesto di grande amore è sempre davanti a me.
Diciamo nella hagadà di Pèssakh: “In ogni generazione occorre vedere noi stessi come se fossimo usciti adesso dall’Egitto”, e questa fede deve essere manifestata in continuazione. Inoltre l’Alter Rebbe aggiunge che anche ogni giorno dobbiamo ricordare questo (perché ogni giorno leggiamo la Cantica del Mare).
Così come l’uscita, ovvero il grande amore iniziale, va ricordata ogni anno a Pèssakh e ogni giorno, così dovremmo alimentare il nostro matrimonio in terra giorno dopo giorno.
Per poter superare gli ostacoli continui della vita è vitale rinvigorire quello spirito profondo di unione che ci dà la forza di non fermarci davanti ai problemi.
La routine della vita coniugale, infatti, tende a oscurare la memoria della grande luce che ha illuminato i nostri cuori. Questo ricordo viene spesso offuscato col passare degli anni, dai tanti e vari impegni famigliari e dai bambini. Quindi per non rischiare di cadere nella “trappola del tempo” ci viene chiesto di ricordare e portare sempre con noi tutti quei momenti meravigliosi di grande unione sentimentale che hanno permesso di “legare due anime assieme”, senza sapere dove si rotolerà.
“E io ti fidanzerò in eterno” dice il verso. Un vero fidanzamento è eterno, un’attività in itinere che cresce e si rinnova ogni giorno e in ogni momento.
Per le persone sposate e non solo, la lettura della storia di questa parashà settimanale può illuminare il ricordo che l’unità coniugale va alimentata e rinnovata continuamente come l’uscita dall’Egitto e che non si può pretendere che sia tutto programmato, ma bisogna anche BUTTARSI per realizzare pienamente il matrimonio, che è la meta più ambiziosa da raggiungere.

La Relazione Verticale: Un Salto Nel Buio
Quando il mondo non ebraico, o coloro che si sono allontanati dalla vita ebraica, sfidano l’ebreo osservante, dicendogli:
«Tu che, al pari di noi, vivi in un mondo materialista, in mezzo a una società competitiva, conducendo come tutti la strenua battaglia per la sopravvivenza economica, come puoi sottrarti all’idolatria che regna nel paese, che si tratti del dollaro, o del timore di essere “diverso” e così via?
Come puoi aderire a un codice di 613 precetti che, ovunque tu vada, “vincola” la tua esistenza e limita la tua possibilità di competere?».

La risposta a questa sfida è l’Esodo dall’Egitto. Uno dei suoi messaggi essenziali è infatti l’assoluta fede nella Provvidenza Divina che si manifesta palesemente negli eventi storici dell’Esodo: un intero popolo – uomini, donne e bambini – in tutto qualche milione di persone, si lascia alle spalle un paese prospero e ricco, per intraprendere un lungo e pericoloso viaggio, per di più senza provviste, ma ricco “SOLAMENTE” della fede assoluta nella parola di Hashèm.
Nel caso dell’Esodo, quando gli ebrei rispondono all’appello divino e ai precetti, trascurando ogni considerazione “razionale” e staccandosi da un passato negativo, è proprio l’applicazione di questi principi a spianare la via alla loro vera felicità, non solo spirituale (con il Dono della Torà e divenendo il popolo scelto da Dio e una nazione santa), ma anche materiale (con l’insediamento nella Terra Promessa dove scorrono latte e miele).

Così è anche oggi e sarà sempre: grazie alla Torà, chiamata anche Toràt Khayìm – Dottrina di Vita, e alle mitzvòt applicate alla vita quotidiana, l’ebreo si unisce al Creatore e Signore del mondo e si libera da tutti i vincoli e limiti “naturali”, conoscendo la vera felicità, materiale e spirituale. E grazie a ciò potremo meritare che Mashiàkh giunga subito, presto nei nostri giorni, Amen.

Tratto e adattato da una lettera del Rebbe di Lubàvitch, 11 nissàn 5721

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BO:

DUE TIPI DI DOMANDE!
Perché l’ebraismo promuove il DOMANDARE?

Al seguente link la pagina web della lezione sulla nostra parashà in formato mp3:

BO – PESSAKH: DUE TIPI DI DOMANDE!

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Il decimo capitolo dell’Esodo, nella parashà di questa settimana (Bo) è scritto: “Dio disse a Mosè: Vieni dal Faraone, poiché IO ho indurito il suo cuore e il cuore dei suoi servi, per operare questi Miei segni fra loro…”
Su questa frase vengono in mente, almeno.., due domande ovvie:
1) Perché Dio dice a Mosè “Vieni dal Faraone”? Non sarebbe stato più appropriato dire “Vai dal faraone”?
2) La frase “Vieni dal Faraone, poiché IO ho indurito il suo cuore” è anch’essa difficile da comprendere. Qual sarebbe la sequenza logica? In che modo il fatto che “IO ho indurito il suo cuore” costituisce la ragione per “venire dal faraone”? La Torà avrebbe dovuto dichiarare: “Vieni dal faraone e avvisalo”, del pericolo delle piaghe, ad esempio… Il fatto che Dio abbia indurito il cuore del faraone non è la ragione per “venire dal faraone”.
La Torà, a quanto pare, avrebbe dovuto strutturare questa frase come aveva fatto in Esodo (7, 2-4), dove Dio dice a Mosè: “Dirai tutto ciò che ti comanderò e Aharòn parlerà con il Faraone. Quanto a Me, indurirò il cuore del faraone e [così] moltiplicherò i Miei segni…”.
Nota: per primo Dio (7, 2) dice a Mosè e Aharòn di parlare con il Faraone e di istruirlo a liberare gli ebrei; per secondo (7, 3), Dio aggiunge che indurirà il cuore del faraone.
Mentre all’inizio della parashà di Bo il messaggio è molto diverso e controverso: “Vieni dal faraone poiché Io ho indurito il suo cuore”. Qual è il significato di questo?

(continua sotto)

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Shabbat ShalomRav Shlomo Bekhor
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nuova lezione video parashà BO imperdibile
AZZIME: CIBO DELLA LIBERTA’
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TEFILLIN: SEGNO D’IDENTITA’

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CHABAD VS. NIETZSCHE
(continua da sopra)
Lo Zohar, il testo fondamentale della Cabalà (parte II, 34°), da una risposta scioccante alla domanda: poiché, Mosè, era terrorizzato all’idea di andare dal faraone. Addirittura, Dio dovette promettergli che sarebbe stato Lui stesso ad accompagnarlo in questo viaggio. Mosè era troppo spaventato per andare da solo: “vieni con me dal faraone” significa: verrò [solo] con Te [Hashèm] dal faraone.
Questo richiede un chiarimento. Mosè è stato dal Faraone molte volte prima, perché adesso è improvvisamente preso dalla paura?
La risposta (allusa nello Zohar) è che nelle precedenti occasioni, Mosè incontrò il faraone in altri luoghi, come nelle sue escursioni mattutine nel Nilo. Questa volta, però, Mosè fu convocato per entrare nella camera più recondita del faraone, nel CUORE del SUO POTERE.
Per citare le parole mistiche dello Zohar: “Dio ha convocato Mosè in una camera all’interno di una camera, del serpente unico e potente. Ma Mosè aveva paura. Fino a questo punto, Mosè si era solo avvicinato ai fiumi che circondavano il serpente (faraone), e aveva paura di avvicinarsi al serpente stesso, perché Mosè vide le sue radici quanto fossero alte!
La metafora del “serpente” zoharico si basa su una descrizione del profeta Ezechiele (29, 3), Il quale definì il faraone come “il grande serpente che si siede in mezzo ai suoi ruscelli, che dice: ‘Il mio fiume è mio, e io ho creato me stesso’”. Il fatto di dover entrare nel centro del potere di questo “grande serpente” – una metafora dell’uomo con un mega-ego che crede fermamente che “Io ho creato me stesso” – terrorizzava perfino Mosè. COME SI PUÒ AFFRONTARE una PERSONA che si CONSIDERA un DIO, l’autorità esclusiva della propria vita, l’arbitro del bene e del male?
Per questo, con la frase, “Vieni dal Faraone, poiché Io ho indurito il suo cuore”; Dio, in realtà, vuole spiegare a Moshè due concetti fondamentali: il primo è che “non stai andando da solo, ma VIENI CON ME”; il secondo è che “la ragione vera per cui vieni veramente con Me è perché IO ho INDURITO il suo cuore”; o meglio dire: “la durezza del suo cuore è solo un riflesso di Me”.
La Comprensione Di Nietzsche Dell’ebraismo
Tuttavia, per capire il messaggio di questa parashà, dobbiamo analizzare la posizione dell’ego all’interno della tradizione ebraica.
La “saggezza convenzionale” dice che la religione ebraica e i suoi derivati, hanno dichiarato guerra all’auto-esaltazione e all’adorazione del sé. La religione è venuta per domare l’ego e per coltivare una vita di sacrificio e arrendevolezza. L’occupazione del proprio sé, dei suoi bisogni e desideri è egoista, brutale e priva l’uomo del “bene supremo”, la relazione con Dio!
Fra tutti i filosofi, Friedrich Nietzsche (1844-1900), che scriveva in Germania nella seconda metà del diciannovesimo secolo, catturò questo sentimento con brutale acutezza. Nietzsche si oppose tenacemente al pensiero ebraico, perché Israèl aveva dato alla luce il cristianesimo, che per lui rappresentava l’inversione di tutti gli istinti naturali.
Secondo lui l’ebraismo descrive Dio come un giusto, una sorta di “NON POTERE”. Un Dio compassionale, non spietato; Dio umile, senza disprezzo aristocratico. In sintesi, il Dio degli ebrei, a Nietzsche rappresentava tutte le cose che disprezzava: “la pietà, la gentilezza e l’aiuto, il cuore caldo, la pazienza, l’umiltà, la cordialità: PORGI L’ALTRA GUANCIA”. Al contrario, per il filosofo tedesco, la “vera etica” era l’esatto opposto: la “VOLONTÀ DI POTENZA”!
In un suo scritto “La Genealogia della morale”, il filosofo tedesco afferma: “Qualsiasi cosa sia stata fatta per danneggiare i potenti e i grandi della terra, sembra banale in confronto a quello che hanno fatto gli ebrei: quel popolo sacerdotale che riuscì a vendicarsi dei loro nemici e oppressori, invertendo radicalmente tutti i loro valori, cioè con un atto di vendetta più spirituale.
“È stato l’ebreo che, con spaventosa coerenza, ha osato invertire il valore aristocratico buono / nobile / potente / bello / felice / favorito-degli-dei, e stabilire, con un odio furioso degli impotenti che: solo i poveri e i deboli, sono buoni; solo i sofferenti e i malati e i brutti sono veramente benedetti. Mentre voi nobili e potenti della terra sarete, per l’eternità, il male, il crudele, l’avaro, l’ateo, e quindi il maledetto e il dannato”.
“Furono gli ebrei a dare il via alla rivolta degli schiavi nei costumi; una rivolta di schiavi con due millenni di storia alle spalle, che abbiamo perso di vista oggi, semplicemente perché (questa filosofia ebraica) ha trionfato così completamente”.
Nell’altro suo libro “L’Anticristo”, Nietzsche scatenò la sua furia “tsunami”, contro il Dio che gli ebrei diedero al mondo e le “virtù schiave” che inventarono:
“Il dio come protettore degli ammalati, il dio come un tessitore di ragnatele, il dio come uno spirito – è uno dei concetti più corrotti che siano mai stati creati nel mondo… dio è degenerato nella contraddizione della vita. Lui rappresenta la guerra sulla vita, sulla natura, sulla volontà di vivere! In lui il nulla è divinizzato e la volontà del nulla è resa santa.
“Gli ebrei sono le persone più straordinarie nella storia del mondo, perché quando si sono confrontati con la domanda, essere o non essere, hanno scelto, con una riflessione perfettamente ultraterrena, di essere ad ogni costo: questo prezzo ha comportato una radicale falsificazione di tutta la natura, di tutta la realtà, di tutto il mondo interiore, così come di quello esterno. Si sono messi contro tutte quelle condizioni in base alle quali, fino a quel momento, un popolo era stato in grado di vivere…
“Psicologicamente, gli ebrei sono un popolo dotato della più forte vitalità … Gli ebrei sono l’esatto opposto dei decadenti: sono semplicemente stati costretti ad apparire in quella veste, e con un grado di abilità che si avvicina al non plus ultra dell’istrionico genio, sono riusciti a mettersi alla testa di tutti i movimenti decadenti e così renderli qualcosa di più forte di qualsiasi partito che dicesse sinceramente Sì alla vita … La storia di Israele è inestimabile, una storia tipica di un tentativo di de-naturalizzare tutti i valori naturali”.
La Contraddizione
Nietzsche era consapevole della contraddizione insita nella sua analisi degli ebrei. Da una parte “gli ebrei sono le persone più straordinarie nella storia del mondo”, professano un vigore straordinario, abilità e genialità, “la più forte vitalità”. Eppure hanno scelto di usare la loro forza e abilità per abbracciare le virtù schiave della debolezza e sconfitta, piuttosto che le virtù principali del potere e del dominio. Per il loro potere e brillantezza, credeva Nietzsche, gli ebrei hanno usato che questi attributi distruttivi definiscano cos’è la civiltà.
Ma come è successo? Perché un tale popolo, potenzialmente di successo, capace di influenzare il mondo con la sua “volontà di potenza”, abbraccia il sentiero della mediocrità e dell’estinzione? Perché una nazione con un IO sano, ricorre a un sistema morale che nega, piuttosto che afferma, la vita? Perché un popolo capace di vivere al potere abbraccia un Dio invisibile che crede negli impotenti e che nega le leggi naturali della vita? Perché Israele non è diventata l’impero Romano, e ha scelto una morale di sottomissione piuttosto che di supremazia?
Certo, Nietzsche era miope. Definisce il bene come ciò che potenzia il sentimento della vita. Se “vedere soffrire gli altri crea del bene, allora la violenza e la crudeltà possono ottenere il brevetto di moralità”. Eppure, come hanno sottolineato alcuni studiosi, gli attacchi alla virtù sono molto attraenti, quando la virtù rimane ben stabilita, proprio come l’omaggio al potere, alla violenza e alla crudeltà; tutte “qualità” che possono sembrare divertenti o attraenti, solo fin quando non né soffriamo noi stessi.
Nel 1887, questa “glorificazione della violenza”, la passione della vittoria e della crudeltà, potevano apparire intriganti e stimolanti; negli anni ‘30 del secolo successivo, quando i nazisti si appropriarono della retorica di Nietzsche, per giustificare le loro azioni omicide, era diventato impossibile leggere alcuni dei suoi brani, senza provare disgusto e indignazione.
Non a caso, settant’anni dopo che Nietzsche scrisse della “Morte di Dio”, riferendosi alla fine della visione morale giudaica sul mondo, la sua stessa nazione, la Germania, iniziò a sterminare il popolo di Dio.
Come Rispondere a Nietzsche
Nietzsche non si stancò mai di sottolineare che le esigenze della moralità tradizionale sono contrapposte alla vita. La risposta ebraica a questa affermazione fu: SI! Proprio questo è il motivo per cui la moralità è così preziosa: perché riconosce che la fedeltà dell’uomo non è solo alla vita, ma soprattutto a ciò che NOBILITA LA VITA. Pertanto occorre riconoscere come l’istinto e il desiderio soggettivo non sono valori assoluti.
La mancanza di cuore di Nietzsche ricorda il “cuore testardo” del Faraone, nell’apertura della porzione di questa settimana: BO. Entrambi credevano che abbracciare la compassione e la sensibilità fosse sinonimo di debolezza. Entrambi credevano che lo scopo della vita fosse quello di diventare come un “barbaro”.
Per Israèl, al contrario, la creazione è stata fatta da un DIO MORALE, che ha CONCEPITO il MONDO Con AMORE. Poiché Dio esiste, allora prevale la legge morale che inevitabilmente pone dei limiti al potere.
Come è stato sottolineato in precedenza, anche la convinzione di Nietzsche che la moralità dovrebbe essere definita dalla natura, era profondamente discutibile. Poteva contemplare una situazione in cui le forze della natura potevano essere frenate, ma solo quando l’arbitrio umano lo desiderava o lo voleva?
Tuttavia rimane una domanda importante: che cosa fece il popolo ebraico con la “volontà di potenza” che secondo Nietzsche dirige la psiche dell’uomo? L’hanno ignorata, repressa o trascesa? Qual è stato il meccanismo emotivo e mentale che hanno impiegato per trasformarsi da “padroni” in “schiavi”?
Preparazione Del Palco Per Il Cambiamento
Il Talmud e la Cabalà, insegnano che ogni male storico è preceduto da una forza in grado di sconfiggerlo (Talmud Meghilà 13b). Prima che una malattia colpisca il pianeta Hashèm previene la sua cura, ovvero il “palcoscenico” è già stato impostato per la sua futura trasformazione.
La stessa logica si può applicare per quanto riguarda la potente accusa di Nietzsche contro gli ebrei: infatti, circa trentadue anni prima della nascita di Nietzsche, nel 1812, uno dei più grandi studiosi ebrei e giganti spirituali del suo tempo, scrisse un discorso mistico che avrebbe trasformato il panorama del pensiero ebraico e la sua prospettiva sulla relazione tra la volontà umana ed il potere. Questo discorso sosteneva che nella sua interpretazione più profonda, il giudaismo accettava e non respingeva il concetto dell’Ubermensch, il “super uomo Nietzschiano”. Eppure mentre l’Ubermensch di Nietzsche rappresentava l’ideale di un essere abbastanza forte da creare i propri valori, abbastanza forte da vivere senza la consolazione della moralità tradizionale; l’Ubermensch ebraico, nella sua sfrenata voglia di potere e autoaffermazione, paradossalmente arrivò ad abbracciare il Dio della moralità, giustizia e compassione.
Per arrivare a questo il pensiero ebraico non deve schiacciare o negare il senso di individualità e vitalità per trovare Dio; al contrario, il vibrante ego “bruto ed egoista” li porta a Dio altrettanto – e forse anche di più – del richiamo alla trascendenza che viene dell’anima.
Le circostanze che hanno portato alla stesura di questo discorso sono state straordinarie. Era il dicembre del 1812, e l’autore stava scappando dall’esercito francese che stava avanzando rapidamente attraverso la Russia. Tragicamente, il freddo inverno russo reclamò la vita di questo santo uomo, che morì in una piccola città in Ucraina chiamata Piena. Due o tre giorni prima della sua scomparsa (il 24 di Tevet 5573, 27 dicembre 1812) scrisse questo discorso che può, senza esagerazione, essere descritto come uno dei più profondi nella storia della mistica ebraica.
Quest’uomo era il rabbino Shneur Zalman di Liadi (1745-1812), una delle grandi personalità ebraiche dei suoi tempi e fondatore della scuola mistica di Chabad. Questo particolare discorso fu pubblicato postumo nella quarta sezione del suo famoso Tanya (Igrot Kodesh 20) e successivamente spiegato dai sei maestri Chabad che gli succedettero.
È interessante notare che il settimo leader di Chabad, il Rebbe di Lubavich che è il mio maestro e mentore, scelse di affrontare e spiegare questo tema durante il primo discorso chassidico da lui pronunciato, quando assunse la guida del movimento Chabad nel 1951 (Maamar Bati Leganì 5710).
Ci si aspetterebbe che in un discorso scritto poco prima della sua morte, un leader religioso discuta sul significato del nostro mondo fisico, falso e temporaneo, dove Dio è eclissato e dove regna l’ego egoistico. Sorprendentemente, però, e contrariamente alla nozione accettata circa la filosofia religiosa, l’autore attribuisce la più profonda DIVINITÀ all’EGOCENTRISMO della natura umana e alla sua VOLONTÀ di POTENZA!!
Non sono a conoscenza di un documento simile nel pensiero ebraico, che dia un tributo così profondo al mondo fisico dell’edonismo e dell’EGO. Forse questa è stata la futuristica risposta del grande maestro Rabbi Shneur Zalman al “nuovo mondo” che i filosofi esistenzialisti come Nietzsche e le forze dell’emancipazione stavano cercando di creare. Il saggio del Rebbe tentò di presentare un aspetto profondo del pensiero ebraico che era fondamentale per poter prosperare nel nuovo ambiente della libertà individuale e dell’auto-espressione sfrenata. La nuova direzione dove il mondo si stava avviando.
La Genesi Dell’ateismo
La domanda che turba il religioso è da dove noi, la razza umana, abbiamo ereditato la volontà così vigorosa di essere potenti? Da dove abbiamo sviluppato questo senso di ego che riesce addirittura a bandire Dio dalla nostra esistenza, fino a concepire noi stessi come l’asse di tutta la realtà? Quello che lo scrittore ceco Milan Kundera chiamava: “l’insostenibile leggerezza dell’essere”.
Per Rabbi Shneur Zalman di Liadi, per il quale la presenza vivente di Dio era reale, tanto quanto l’esistenza fisica stessa, se non più reale, questa era una domanda infuocata. Da dove origina un senso così potente di individualità solitaria e distinzione egoistica? Da dove proviene l’esistenza fisica la sua brutale immanenza, la sua sostanziale indifferenza? In che modo l’essere umano completamente dipendente da Dio, acquisisce un senso di auto-contenimento che cerca di negare Dio?
Se tutta l’esistenza viene da Dio, come è nato l’ateismo? In che modo Dio crea un’immaginazione umana che nega la sua stessa sostanza e realtà?
La risposta religiosa comune per questo è che l’ateismo è nato dall’occultamento di Dio nell’universo. Nella terminologia cabalistica questo occultamento è descritto come il “tzimtzum”, che significa “contrazione e restringimento” della luce infinita di Hashèm. Atto che ha preceduto la creazione di un universo autonomo e in apparenza indipendente.
Il Rebbe Shneur Zalman ha scritto tutt’altro, come suo ultimo contributo al mondo, su questa verità profonda. L’ATEISMO, egli afferma, NON ha avuto ORIGINE nell’occultamento del divino, ma piuttosto nella RIVELAZIONE DIVINA.
La spiritualità umana e il nostro senso di dipendenza al Creatore, sono tutti e due radicati non nell’essenza divina, ma nella luce divina. Quindi, proprio come la luce divina si sente dipendente e collegata alla sua fonte, anche il nostro lato spirituale si sente dipendente e legato alla coscienza cosmica. Al contrario, il senso fisico del sé umano, il crudo ego e volontà di potere, privo di qualsiasi riconoscimento di qualcosa al di fuori di se stesso, è un riflesso dell’ESSENZA divina, del sé intimo di Dio. Pertanto, da una sensazione di autonomia, proprio come il suo progenitore.
L’ego umano, in altre parole, non è altro che la manifestazione “dell’ego divino”. L’Io umano rispecchia il divino IO. Proprio come il supremo divino IO non ha antecedente, nessuna forza precedente che giustifica la sua esistenza, nessuna legge preesistente per definirla o ridurla, così anche l’Io umano, sente che il proprio io rappresenta il massimo dell’esistenza, che i suoi desideri non richiedono alcuna giustificazione, le sue ambizioni non richiedono alcuna mitigazione e il suo potere deve regnare supremo.
Il Grande Ego Ebraico
Quindi l’ego è malvagio? Questa componente fondamentale della nostra esistenza è un impianto alieno che deve essere sradicato e scartato nella nostra ricerca di bontà e verità?
In ultima analisi, NON lo è. L’ego, il senso di sé, con cui siamo nati, deriva anch’esso da Dio; è un riflesso dell’IO “divino”. Noi, che siamo stati creati nell’immagine di Dio, possediamo un riflesso del Suo “senso di sé”, nella forma del nostro concetto di sé, come il nucleo di tutta l’esistenza.
L’ego non è il male, ma il divorzio dell’ego dalla sua fonte è il male. Quando riconosciamo il nostro ego come riflesso dell’ego di “Dio”, diventa la vitalità trainante dei nostri sforzi, per rendere il mondo un posto migliore, più divino. D’altra parte, lo stesso ego, separato dai suoi ormeggi divini, genera il più mostruoso dei mali.
Questo è ciò che Nietzsche non è riuscito a cogliere e anche noi, spesso, non riusciamo a capire. Il popolo ebraico non ha abbracciato le “virtù degli schiavi”, nonostante le loro caratteristiche e capacità simili a quelle dei maestri o “padroni”. Al contrario, Israèl ha capito che il grande ego umano, per riuscire a essere fedele a se stesso, alla sua origine, deve RIFLETTERE la sua fonte più autentica: l’ESSENZA DIVINA.
Lo stesso Nietzsche ha sempre insistito sul fatto che la cosa più importante è che le persone siano sincere con se stesse. Gli ebrei capirono che per dare risalto alla “volontà di potenza” e per realizzarsi nel modo più profondo e migliore dovevano collegarsi al divino. Il nostro vigore deve essere diretto verso la costruzione di un mondo divino; la nostra ambizione deve essere imbrigliata verso l’espulsione della crudeltà, della sofferenza, per costruire una civiltà morale e amorevole.
Confrontando l’Ego del Faraone
Quando Dio comandò a Mosè di “Vieni dal faraone”, Mosè era già andato dal faraone per molti mesi. Ma aveva avuto a che fare con il faraone nelle sue varie manifestazioni: il faraone pagano, il faraone oppressore di Israele, il faraone sedicente dio ecc. Ora gli veniva detto di entrare nell’ESSENZA del FARAONE; doveva trovarsi faccia a faccia con un MEGA-EGO che non ha confini o vincoli; doveva toccare il potere crudo e infinito di un uomo che dichiara: “Io ho creato Me stesso”. TALE POTERE È SPIETATO E SENZA LIMITI; niente può contenerlo. È la massima espressione del male umano e fa paura perfino a Mosè il profeta di tutti i profeti.
Perciò disse Hashèm a Mosè: “Vieni al Faraone, perché ho indurito il suo cuore”. Vale a dire: “Sono io che ho indurito il suo cuore”; la durezza del suo cuore – il mega ego sfrenato del faraone è davvero Me; anch’esso viene da Me e Mi rappresenta. Se hai il coraggio di guardare oltre la densa opacità dell’ego umano, TROVERAI ME, DIO.
“Vieni con Me”, dice Dio a Mosè, e insieme entreremo nel palazzo del grande serpente. Insieme penetreremo l’adorazione di sé, il CUORE DEL MALE. Insieme scopriremo che non esiste né sostanza duratura, né realtà eterna, per l’ego del faraone e di Nietzsche; non è altro che l’appropriazione indebita del divino nell’uomo.
Se questa verità è troppo terrificante per un essere umano, da affrontare da solo, vieni con Me, e io ti guiderò. Ti condurrò nella camera più interna dell’anima del faraone, finché ti troverai faccia a faccia con il suo nucleo, il SEGRETO più gelosamente custodito DEL MALE: che in realtà NON ESISTE.
Imparando questo grande segreto, i grandi poteri della storia non possono farci nulla. Con la consapevolezza di questa verità, saremo degni di raggiungere la libertà. La libertà diventerà una forza che invece di allontanarci dalla legge morale e dalla volontà divina, ci porterà più vicino a Dio. Poiché avremmo scoperto la verità che la nostra brama di espressione e potere individuale è soltanto la manifestazione della qualità più vicina a Dio di tutto il creato.
Questo spiega la strana profezia che il Mashiach arriverà come “un povero che cavalca un asino” (Zaccaria 9, 9). Il termine ebraico per asino, khamòr, è anche tradotto come “khòmer – materialismo brutale” (Likkuté Sikhòt vol. 31 pp. 19-22). Il Mashiach che “cavalca l’asino” simboleggia l’idea che Mashiach rivelerà al mondo che le forze brutali dietro al materialismo, nel loro posto più profondo, in realtà rivelano la verità di Dio più dello spirito stesso.
Questo è lo scopo della creazione del mondo, della materia e dell’ego, per rivelare Hashèm in esse, e ancora di più per rivelare che sono l’espressione dell’IO divino. Questo avverrà grazie al nostro lavoro durante l’esilio e trasformazione del buio in luce.
Speriamo presto di vedere la verità della materia con l’imminente rivelazione di Mashiach presto nei nostri giorni.
(Questo scritto è basato sul discorso chassidico “Bo El Parò” dell’anno 5672, 1912, del rabbino Sholom DovBer di Lubavitch, noto come il Rebbe Rashab. Nonché su vari discorsi del Rebbe di Lubàvitch; incluso il suo primo discorso, quando assunse la direzione del movimento Chabad nel 1951, tratto da un articolo di Y.Y. Jacobson)

La Parashà di Bo è composta da 105 versetti.

La Parashà di Bo contiene 9 comandi e 11 divieti.

La Parashà di Bo tratta in sintesi i seguenti argomenti:

La piaga delle cavallette e quella delle tenebre non servono a persuadere Par’ò, che viene minacciato di dover assistere alla morte
di tutti i primogeniti. Moshè acquisisce grande prestigio agli occhi degli egizi che, come predetto HaShèm, cominciano a nutrire rispetto anche per gli ebrei.
Hashèm insegna a Moshè il valore del primo giorno del mese.
Hashèm ordina al popolo ebraico di legare al proprio letto, il dieci del mese di Nissàn, un capo di bestiame minuto, che verrà sacrificato quattro giorni dopo e consumato in tutta fretta, con erbe amare e azzimi. Parte del suo sangue dovrà contrassegnare gli stipiti e l’architrave della porta di ciascuna casa ebraica, in segno di distinzione, affinché siano risparmiati dalla piaga dei primogeniti che verrà eseguita da D-o stesso.
Hashèm comanda a Moshè di trasmettere al popolo ebraico il precetto di eseguire il sacrificio pasquale anche in futuro.
L’Egitto viene colpito dalla morte dei primogeniti, piaga che finalmente vince la dura resistenza di Par’ò, il quale accetta di liberare il popolo ebraico. Hashèm impartisce ulteriori leggi concernenti il sacrificio pasquale.
Hashèm chiede a Moshè di istruire il popolo sul precetto di commemorare l’Esodo, valido per tutte le generazioni future, accompagnato anche dal divieto di consumare e di possedere cibi lievitati.
In ricordo del fatto che i primogeniti ebrei sono stati risparmiati dalla terribile piaga che invece ha colpito gli egizi, Hashèm impone agli ebrei il precetto di consacrargli ogni primogenito maschio di uomo e di animale puro, nonché di asino.
La parashà si conclude con il precetto di indossare i tefillìn.

MIDRASHIM

Kiddùsh Hakhòdesh, la prima mitzvà
(a pagina 668 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Prendetene il doppio, purchè ve ne andiate
(a pagina 670 del volume Shemòt edizioni Mamash).

APPROFONDIMENTI KHASSIDICI

La decima piaga.
(a pagina 720 del volume Shemòt edizioni Mamash).

Due Precetti.
(a pagina 724 del volume Shemòt edizioni Mamash).

BO – PESSAKH 5771 – FEDE EBRAICA: LIBERTÀ O RESTRIZIONE?
Che cosa vuol dire essere liberi? Qual è la differenza tra חופש e חירות?
Uno strano paragone tra Pèsakh e Shabbat, fatto dal Maimonide, ci rivela il vero significato della libertà, in base all’approfondimento di Pèsakh 5640 del Rebbe di Lubavitch. Il parallelismo tra Shabbat e Pèsach descritto dal Maimonide: come Shabbat non ha solo aspetti passivi, ma presenta anche aspetti attivi, così Pesakh non significa solo non essere schiavi, bensì ha una sua entità.

BO – PESSAKH 5770 – DUE TIPI DI DOMANDE!
Perché l’ebraismo promuove il DOMANDARE? Il significato profondo del verso “quando tuo figlio ti chiederà: che cosa è questo?”. La Torà non ci da solo una risposta, ma ci spiega come mai il figlio chiede e come evitare che si allontani dal padre.

BO 5769 – TEFILLIN: SEGNO D’IDENTITA’
La Torà dice: “Sarà un segno sulla tua mano e un ricordo sulla tua testa!” Intelletto e saggezza senza sentimento sono inutili! Quando studiamo la Torà e mettiamo i tefillin in noi avviene una trasformazione, il nostro pensiero si unisce ad Hashem, ma dobbiamo sempre ricordarci del cuore e riflettere su quanto stiamo facendo e quanto ha fatto D-o per il popolo ebraico

BO 5768 – LA TORA DOVEVA COMINCIARE DALLA PRIMA MITZVA: SANTIFICARE LA LUNA NUOVA.
Trasformare il mondo tramite la Torà! La santificazione della luna e il perché due fratelli possono testimoniare la prima luna. Solo con la Torà si può trasformare il mondo e portare innovazione. Il ciclo mensile si chiama kodesh che ha le stesse lettere in ebraico di khadash-nuovo e khidush-innovazione.

BO 5766 – LE ULTIME TRE PIAGHE: UN COLPO NEL BUIO!
Le mitzvot che vennero prima del Matan Torà! Nelle ultime tre piaghe il colpo all’Egitto è forte e definitivo, avvenendo nel buio. La prima mitzvà della Torà di santificare la nuova luna: l’importanza per un ebreo della dimensione temporale. La piaga del buio: il prestito delle ricchezze degli egiziani. La mitzvà del riscatto del primogenito, il suo significato e la sua importanza. I teflilin, testimonianza dell’essere ebrei.